Non mi sembra esagerato (azzardato) affermare, d'acchito, che "I germanesi" di Carmine Abate (italiano di Carfizzi) e Meike Behrmann (tedesca di Marburg), libro dall'emblematico sottotitolo "Storia e vita di una comunità calabrese e dei suoi emigrati", ci buca tutti (noi calabresi), ci trafigge, ci "racconta", dalle "esterno" del nostro essere stati (e dover essere) l'"esercito industriale di riserva" dell'Europa. Dalla quale Europa industrializzatasi ci è piovuto addosso il benessere "artificiale" o la cosiddetta "modernizzazione senza sviluppo", che ci trasforma in fantasmi (orfani senza alternative come siamo della cultura contadina) di noi stessi : collocati, voglio dire, in quel tempo di noi - la "comunità tradizionale" - che non esiste più e che, ciò nonostante, ci dirotta ad inseguire il "progresso" industriale, quale recupero anacronistico, di quello che non siamo mai stati (i protagonisti del nostro "destino" individuale).
Si tratta, nello specifico, di un'indagine socio-storico-antropologica che verte, peculiarmente, sulla comunità arberesh di Carfizzi (paesino dell'alto Crotonese, a 120 chilometri circa da Catanzaro): indagine che rivendica, teoreticamente, la sconfessione d'ogni luogo comune e d'ogni generalizzazione, che pesano, di solito, sul fenomeno Calabria (in termini di sottosviluppo alienante e relativa immigrazione-emigrazione).
Sullo spartiacque (tra lotte per il possesso delle terre e fallimento della riforma agraria) dell'anno 1950 (legge di colonizzazione dell'Altopiano della Sila, e con l'esplicita constatazione che "rivoluzione" dei contadini e loro "emigrazione" sono inversamente proporzionali (nel senso che quest'ultima è affievolimento di quella), si spiega l'evolversi (involversi) della "struttura" (la proprietà terriera), alla luce dell'avvenuta ideologizzazione della sua connessa "sovrastruttura".
Gli "Itaker", i "Gastarbeiter" (lavoratori emigrati), sono coloro che, storicamente, hanno subito l'espulsione, dal proprio Paese (per condizioni di sopravvivenza impossibili e, quindi per produttività indigente e assolutamente inadeguata ai bisogni), nonché l'"attrazione" della terra "straniera", quale "miraggio" di benessere e di libertà e, perciò, di possibile rincorsa e rivalsa della propria "dignità", mortificata in loco e da affermare "altrove". Sono coloro che si sacrificano all'estero, senza tuttavia smettere di rapportarsi col "luogo" autoctono e originario. Il loro "viaggio" di emigrati non è altro, in fondo, che un rimuovere, utopicizzandolo, il "paese", facendone l'"albergo" (in senso di ospitalità rassicurante) per antonomasia. In modo che la loro "fuga" possa avere, comunque, una cassa di risonanza, un ancestrale "rifugio", un "sapere" collettivo che dia coralità (riscatto) alla loro voglia di "affrancarsi". Essi non lottano per sé, in sostanza; ma per affermare nel tempo (fuori dal liturgico e morto tempo contadino) e per immagini simboliche (socialmente accettate o garantite) la loro "razza", la loro "famiglia"; faticano, insomma, per imporre quel "prestigio" (lo status symbol della casa "lussuosa") di cui sono quasi involontari araldi. Come dire che sono "personaggi" sdoppiati, franti, scissi, almeno in due entità (complementari e speculari) socio-esistenziali: I) L'uomo privo di "roba" ma con un mondo compatto di riferimenti e affetti (vicinato-"gjitunia", piazza, bar, sedi di partiti politici); 2) L'uomo abbiente dell'industria tedesca, ma isolato e senza valenza "politica", deprivato del suo "potere" di anello di chiusura e rappresentanza del sistema padricentrico. Non a caso l'uomo, "sfera eminente" nell'ambito della proiezione pubblica del gruppo famiglia, non pensa che al "ritorno", qualunque siano le soddisfazioni raggiunte con l'espatrio. E la donna ("sfera rilevante": appartata e dedita alla "ri-produttività" della casa; anche se, in questo, è il substrato di quell'«onore» di famiglia che l'uomo può esibire e vantare) rimpiange il sole e il mare della propria terra anche se non condivide più i sistemi di vita della sua gente.
Il paese che rappresenta l'identità collettiva è oggi da ripensare e approfondire più che mai. Giacché il mondo, come un liquido impazzito dallo schiumare dei suoi medesimi sciaquii, deserticizza sempre più il Pianeta con "mercati" da conquistare e saccheggiare; i riflussi selvaggi del mega-Capitale che lo lacerano di moltissimi "cutsiders" (emarginati) fra gli indifferenti e tronfi "established" (integrati) delle società opulenti.