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Elezioni politiche e rifondazione della sinistra

di Mario Alcaro


Partiamo dalle cose risapute, direi scontate. Non c'è stato uno sfondamento della destra. Non c'è stato un crollo del centrosinistra. La Casa delle libertà contrariamente a quando era convenuto nel '96 ha ricompattato un fronte comprensivo anche dei leghisti. Il Centro Sinistra ha perduto perché diviso al suo interno e per una serie di errori commessi in questo quinquennio (l'attuale legge elettorale maggioritaria per la quale si è battuto, la rottura dell'Ulivo, la caduta del governo Prodi determinata da Bertinotti, ma auspicata e abilmente utilizzata da Massimo D'Alema, ecc.). Ma non è di questo che qui si vuole parlare.
La questione di sostanza di queste elezioni e della vita politica di questi anni è che la sinistra mostra di essere priva di un'idea-forza, di un'immagine vincente, di un'identità ben definita.
Nel passato la forza del PCI era la rappresentanza del proletariato e dei ceti subalterni in una prospettiva che, attraverso riforme di struttura, avrebbe gradualmente superato l'economia di mercato e lo sfruttamento capitalistico in direzione di un'economia pianificata e di una società socialista. Alle spalle c'erano l'Unione Sovietica e i Paesi del socialismo reale.
Successivamente la consistenza politica della sinistra si è fondata sull'idea del welfare state, cioè uno stato sociale capace di produrre una ridistribuzione del reddito e di offrire servizi e assistenza a vantaggio dei ceti più deboli. Alle spalle c'erano il New Deal e la tradizione delle grandi socialdemocrazie europee.
Anche quest'ultimo baluardo oggi è caduto. Ormai si privatizza. Resta l'idea di un servizio pubblico da preservare nell'istruzione, nella sanità e (non si sa fino a quando) nel sistema televisivo. Accanto a questa idea sopravvissuta troviamo nel centrosinistra un abbozzo abbastanza sfocato di provvedimenti perequativi e timidi tentativi di difesa degli interessi dei ceti più deboli. Troppo poco per offrire una chiara immagine delle prospettive della sinistra. di fatto, in queste ultime elezioni, come ha scritto giustamente Marco Revelli, abbiamo dovuto scegliere tra un liberismo alla spagnola e un liberismo mitigato all'inglese.
Ma, poiché pare che non bisogna attardarsi a parlare del passato, parliamo del presente e soprattutto del mitico futuro. E allora chiediamoci, che cosa c'è da aspettarsi dalla ragione calcolante di quell'homo economicus che risponde al nome di Berlusconi. L'arcano è già stato svelato. Bisogna ridurre drasticamente le tasse. E perché questo obiettivo di fondo sia conseguito si postula una crescita sfrenata, cioé senza freni e remore, cioé a briglie sciolte, della produzione e del mercato. dunque sviluppo a tutti i costi, sviluppo  purchessia, sviluppo fine a se stesso, che si autogiustifica perché fa crescere la base produttiva e dunque l'impossibile.
Si tratterà, ammesso che ci sia, di una crescita che non migliorerà i servizi. Anzi quelli pubblici saranno ridotti sino quasi all'azzeramento. Sarà una crecita che, com'è stato già dichiarato nelle performances televisive, se ne sbatte dell'ambiente, del suo equilibrio e delle sue delicate interazioni. Sarà una crescita che non produrrà più cultura, più tempo libero, più opportunità di badare a se stessi e di dedicarsi agli altri. Sarà una crescita che richiederà ritmi produttivi sempre più accelerati e un carico di lavoro sempre più esasperante e defatigante. La qualità della vita di ciascuno e di tutti non potrà non soffrirne.
Certo non si può negare che ci saranno delle contropartite. C'é indubbiamente qualcosa che tale tipo di sviluppo dà in cambio di tutte le perdite che impone e che offuscano la dimensione umana della vita. Quali? Redditi più alti, benessere materiale, maggiori comodità.
Intanto, occorre rilevare che ciò avverrà soltanto per una non ampia fascia sociale che incamererà la quasi totalità della nuova ricchezza prodotta, lasciando al resto della popolazione soltanto le briciole. Ma non è solo questo. E' che saranno sacrificati per tutti il buon vivere, la "vita buona", la qualità umana e il senso stesso della nostra esistenza. E' la "fabbrica totale" (l'ossessione economica) che restringe progressivamente i margini di una vita degna di essere vissuta.
Basta leggere qualche libro di sociologi come Bauman per costatare che l'uomo dell'era globale è vieppiù condannato alla solitudine. Basta leggere qualche libro di storici come Hobsbawn o di filosofi della politica come Pietro Barcellona ed Elena Pulcini per riscontrare che, al di fuori dei rapporti di produzione, le relazioni sociali fra gli uomini si impoveriscono sempre di più e che alla perdita continua della solidarietà del legame sociale corrisponde un'affievolimento delle passioni e dei sentimenti nel campo della vita civile e della politica. Basta leggere libri di economisti come Amartya Sen pertica per acquisire in modo definitivo che la crescita economica, superati certi livelli, non produce "sviluppo umano e progresso sociale, quando non è correttamente finalizzato al miglioramento delle condizioni di vita e al potenziamento delle doti umane degli individui. E basta gettare uno sguardo sulle moderne metropoli occidentali per accorgersi che le nostre identità culturali, i nostri spontanei modi di essere, le forme che assume il nostro vivere quotidiano sono modellati in base ai grandi cicli della produzione e agli interessi economici delle multinazionali.
Sia ben chiaro. Qui non si sta perorando la causa del rifiuto dello sviluppo economico in quanto tale. Si vuole solo sostenere che il benessere materiale è un bene se sta accanto agli altri beni che danno valore alla nostra esistenza, non lo è quando è così intollerante da espellere dalla faccia della terra tutte quelle buone cose che ci fanno essere grati al buon Dio di averci fatto affiorare all'esistenza.
Ma veniamo al dunque. Io credo che la partita fra destra e sinistra debba essere reinterpretata. Bisogna cercare di capire su qulae terreno oggi si gioca. La contrapposizione non è più quella fra destra statica, retrograda, bloccata sulla difesa intrasigente dei vecchi privilegi dei ceti forti della società, e una sinistra fautrice dello sviluppo e del progresso.
La destra, in quanto liberista è, come rileva Mario Tronti, ultra-dinamica e caparbiamente protesa verso l'uso degli strumenti innovativi che facilitano la produzione e ampliano i mercati. Non c'è alcuna ragione, peraltro, che ci autorizzi a pensare che la sinistra sia più capace della destra nella gestione e nella guida politica di un tipo di sviluppo produttivo fondato sul dinamismo dell'innovazione tecnologica. Anzi, la giusta preoccupazione di difendere i diritti sociali che traggono pochi vantaggi o che addirittura risultano danneggiati dalla dinamica che assume lo sviluppo produttivo appare oggettivamente come una sorta di freno e di impaccio alla logica di tale dinamica.
Il terreno vero su cui oggi si gioca la partita fra destra e sinistar, la posta in gioco del conflitto, è il "governo della vita". Da una parte (a destra), c'è "la celebrazione dell'artificialità della condizione umana" che "si sviluppa secondo una logica predatoria"; dall'altra (a sinistra) ci deve essere, ma non c'è, una difesa dei processi vitali dell'umanità, degli stili di vita che sono fruuto di storia millenaria, della dimensione umana dell'esistenza, accompagnata dalla critica intrasigentedel "progetto di dominio razionale sulla natura e sugli uomini" che straripa nella dilagante mercificazione e manipolazione contemporanee.
"E' quanto già Foucault aveva affermato -  ricorda Barcellona- con una terminologia straordinariamente efficace: l'età moderna è, in realtà, l'età della biopolitica. Secondo Foucault, il diritto alla vita, al corpo, alla salute, alla felicità, alla soddisfazione dei bisogni, il diritto a ritrovare al di là di tutte le oppressioni e alienazioni quello che si è", deve essere posto al centro dei compiti politici del presente. L'uomo moderno -  ribadisce Barcellona richiamandosi ancora a Foucault -  "è un animale nella cui politica -  come governo dei corpi e delle menti -  è in questione la sua consistenza di essere vivente. E dove, proprio per effetto di tutto ciò, si consuma ogni giorno la neutralizzazione delle sue passioni e della sua specifica ricchezza spirituale" (Quale politica per il terzo millennio?, Dedalo, Bari, 2000, pp. 152-153).
Uno sviluppo alternativo, sottratto alla manipolazione predatrice e alle articilizzazioni della vita, uno sviluppo alternativo capace di potenziare, anziché deteriorare, la qualità umana della nostra esistenza: ecco ciò che può dare un'identità alla sinistra.
E' utopistico un progetto di questo tipo? Forse sì. Ma nessuno può negare che è ragionevole.
E proprio qui cade la principale contraddizione del nostro tempo: il ragionevole oggi è utopia.
La razionalità calcolante ha trasformato la ragionevolezza in aspirazione utopica. E allora? Allora, per mettere in pratica l'utopia concreta del buon senso e della saggezza, bisogna ripartire da noi stessi, proprio da quel che siamo, da quel che noi vogliamo.



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