Ora Locale

(Digita o Clicca su "Ora Locale" per tornare indietro)


Meridione da piangere, ovvero
il peso di un passato pesante

Una breve ricognizione sul cinema meridionale dagli anni Novanta ai giorni nostri

di Alessandro Canadé


Nel 1970 in La corda pazza (Einaudi, Torino), Leonardo Sciascia riconduceva le immagini cinematografiche della Sicilia a tre filoni ("mondo offeso", patria dell'eros, luogo del mito) ugualmente mediati dalla letteratura (rispettivamente Vittorini, Brancati, Quasimodo). Estendendo il discorso a tutto il Sud, oggi si può essere forse ancora più drastici: con la fine del meridionalismo classico il Sud come "mondo offeso" è fuori moda, l'erotismo patinato preferisce luoghi del desiderio diversi da quelli nostrani e così dei tre filoni è sopravvissuto solo quello del Sud mitico e favoloso, affiancandosi a uno di nascita più recente: quello giornalistico-politico. Sia per gli autori meridionali che per gli altri sembrerebbe, dunque, che resti solo da variare intorno a questi due stereotipi.
La discesa a Sud come a un set ideale per la rilettura del moderno in chiave mitica, o come paesaggio che accolga e porti a visibilità temi massimi e quasi ineffabili, ha una lunga e gloriosa storia non soltanto in letteratura, ma anche al cinema (Stromboli terra di Dio, 1949, e Viaggio in Italia, 1953, di Rossellini, L'avventura, 1959, di Antonioni e Kaos, 1984, dei fratelli Taviani). Il mito sembra essere idealmente il punto d'incontro tra la pura fiaba, la malia esotica dei luoghi da un lato, e dall'altro la ricerca di sé. Fiaba e metafisica, insomma, che rivelano anche la doppia valenza di questa idea del Sud: positiva, affascinante e rivitalizzatrice, ma anche inquietante, terribile, che annichilisce.
Regista simbolo della ritrovata fortuna del mito/Sud è Giuseppe Tornatore, a partire da Nuovo cinema Paradiso(1988), la più avvincente espressione del lato fiabesco e seducente del mito mediterraneo. Il successivo Stanno tutti bene(1990) è invece un film di non-amore e quasi di derisione dell'inadeguatezza della favola nello sfascio morale del presente. Per Tornatore mito significa memoria, ma in modo poco intellettualistico e molto nostalgico. Mito significa idealizzazione del passato, anche (o soprattutto) del passato del cinema, come dimostrano L'uomo delle stelle(1995) e Malèna (2000), il cui titolo richiama semanticamente proprio un termine come "malia". La Sicilia di Tornatore non è mai quella "reale", ma quella cinematografica. Mai come in Malènail regista siciliano si lascia tentare dall'erotismo, dalla seduzione e dalla sensualità della pellicola al punto di "masturbarsi" con essa. Nel desiderio onanistico di Renato, il protagonista, nei confronti di Malèna, si riassume dunque il cinema di Tornatore.
Sul rapporto tra mito e Sud ha lavorato anche il napoletano Pappi Corsicato. E' il caso de I buchi neri(1995) in cui il regista mescola riferimenti colti (Cocteau, Camus) e canzonette popolari (Little Tony). Il mito di Corsicato, di rinascita e non di lutto, di sole e non di ombra, è lontanissimo da un altro tentativo di mito intellettualizzato e intrecciato a sensibilità e melanconie contemporanee come il film del messinese Francesco Calogero, Nessuno(1992). Biografia di un uomo qualunque, incrostata di rimandi letterari (Ungaretti), filosofici (Wittgenstein), epici (l'Odissea), pittorici, la storia del film è immersa appunto in un'atmosfera trasognata, fantastica. Come il suo film precedente, La gentilezza del tocco(1987) che utilizzava un set e una città (Messina) negandosi a ogni forma di folclore, anche Nessunoè realizzato in Sicilia senza però mai parlare di cose strettamente legate a questa terra, senza connotazioni localistiche nella descrizione dei caratteri. Paradossalmente è con Cinque giorni di tempesta(1997), film girato per la prima volta in "continente", che Calogero, raccontando le aspettative e lo smarrimento di un ragazzo che non nasconde mai la sua provenienza isolana, realizza il suo film più siciliano. I legami con il mito sono presenti anche in Giro di lune tra terra e mare(1997) di Giuseppe M. Gaudino. Il film racconta la storia di Pozzuoli, un luogo pieno di antica storia, alternando vicende contemporanee a leggende e fatti storici senza ordine cronologico. Le immagini più antiche narrano del matricidio di Agrippina a opera di Nerone, degli oracoli della Sibilla Cumana, del giovane martire cristiano Artema, ucciso dai suoi compagni di scuola, di Maria "La Pazza", eroina guerriera che salvò la sua città dai nemici. Al passato si intrecciano gli eventi di una storia più vicina. Siamo negli anni Settanta e nel golfo ciclicamente si acutizzano le fasi del bradisismo. La famiglia Gioia, una famiglia di pescatori (evidenti sono i riferimenti a La terra trema, 1948, di Visconti), è costretta a lasciare più volte la sua casa perché non più sicura a causa delle continue scosse di terremoto. I traslochi ripetuti portano alla progressiva disgregazione dell'unità della famiglia che ruota intorno alla figura del padre. La casa, il suo abbandono, il nuovo insediamento laddove si ricostruisce la nuova dimensione della città, sono le tappe emblematiche dell'esistenza di questa famiglia che cerca di ricostruire la propria vita.
Il Sud mitico ritorna anche in Sangue vivo(2000), un film parlato in dialetto salentino e sottotitolato in italiano che ha al suo centro la pizzica, la tarantella salentina (ci si trova, per intenderci, dalle parti di Sud e magia, dei riti e della trance dei tarantolati studiati da Ernesto De Martino). Il film, l'opera seconda di Edoardo Winspeare (trentacinquenne salentino di padre scozzese e madre austriaca, già autore quattro anni fa di Pizzicata, un film mai distribuito nel normale circuito italiano ma uscito con successo in 15 nazioni e presentato in decine di festival internazionali), conferma la vitalità del cinema pugliese di nascita o di ambientazione (cfr. La CapaGira, 1999, di Alessandro Piva e Liberate i pesci, 2000, di Cristina Comencini). Sangue vivoracconta il conflitto rabbioso e lacerante tra due fratelli (uno cinquantenne e l'altro trentenne, il primo contrabbandiere, il secondo musicista): "E' una storia di pura invenzione -racconta il regista - che mette due generazioni a confronto in una terra dai contrasti violenti, dove la nobiltà delle tradizioni resiste, autentica, alle miserie della mafia locale, della delinquenza comune e all'assalto del post-modernismo: la pizzica è l'unica cosa che accomuna i due fratelli".
Speculare al Sud ideale della favola e del mito, è l'altro stereotipo del Mezzogiorno sanguigno e violento, aggiornato alla recente trasformazione di mafia e camorra spostandosi dalle campagne alle città, dal sottosviluppo rurale al degrado urbano. Un filone che, o sopravvive alla fine del cinema politico degli anni Settanta ripetendone gli schemi, o semplicemente sfrutta l'attenzione dei media su singole manifestazioni del fenomeno ma quasi mai ne tenta riletture globali, politiche o tantomeno culturali e antropologiche. Ed è peraltro un cinema senza più senso, perché quelle che potrebbero essere le sue funzioni vengono già assolte dalla televisione. Ciò non toglie che Il giudice ragazzino(1993) di Alessandro di Robilant sia più onesto di La scorta(1994) di Ricky Tognazzi e questo a sua volta sia meglio di Palermo-Milano solo andata(1995) di Claudio Fragasso. Ottimi risultati in questo filone li hanno raggiunti I cento passi(2000) di Marco Tullio Giordana e Placido Rizzotto(2000) di Pasquale Scimeca: il primo più tradizionale ma anche più vivo emozionalmente, il secondopiù critico, più personale. Merito di Scimeca e di Giordana è in entrambi i casi quello di riaprire, in maniera didascalica ma rigorosa, la "questione meridionale".
Il risultato più appassionato e forse più alto nel narrare il Sud delle periferie urbane, del degrado e della violenza è rappresentato da Vito e gli altri(1991) di Antonio Capuano. E' la cruda storia di avviamento alla delinquenza di un minore che si conclude con l'assunzione di questi al ruolo di killer. Duro e disincantato, lo sguardo di Capuano si incunea nei meandri dei vicoli e nelle aperture desolate dei quartieri esterni, senza risparmiare nulla allo spettatore aggiungendo un tocco da docu-drammache si conferma anche nel successivo, Pianese Nunzio: 14 anni a maggio(1996). Capuano volge lo sguardo sui quartieri degradati, su territori a rischio, tenendosi lontano da scorci "pittoreschi", ma non disdegna di presentare Napoli anche con il tono dell'evocazione surreale, anarchicheggiante, con un gusto per lo sberleffo, l'ironia e la parodia che ne riconfermano le doti di evocatore di una napoletanità a molte facce (è il caso di Sofialorén, episodio de I vesuviani, 1997, ePolvere di Napoli, 1998).
Ma qual è, se c'è, la novità e la specificità del "cinema meridionale", la differenza più profonda tra il cinema contemporaneo sul Sud rispetto a quello del passato? La specificità dell'atteggiamento dei registi meridionali sembra risiedere nella centralità che ha nelle loro opere il "genocidio" di pasoliniana memoria: la fine del mondo contadino, dell'Italia povera, e il vertiginoso imporsi della nuova cultura, consumistica e televisiva. Anche quando non vi alludono direttamente (come fa Scimeca, l'unico a formulare il problema anche in termini di opposizione città/campagna, in La donzelletta, 1989, e Un sogno perso, 1992), sembra essere questo il tema di fondo di autori diversissimi come Tornatore e Amelio, Martone e Capuano, Calogero e Corsicato. Mario Martone, massimo esponente della nouvelle vaguenapoletana, riflette con precisione e profondità di analisi proprio sul tema dell'"orfananza" e sul peso di un passato pesante. Morte di un matematico napoletano(1992) e L'amore molesto(1995) fotografano due momenti di crisi e di trapasso nella storia di Napoli (un attimo prima delle "mani sulla città" e del sacco edilizio il primo, la campagna elettorale Mussolini/Bassolino il secondo) e sono film non sul fascino e il valore del passato, ma sul silenzio di esso o sul suo peso. Nel secondo dei due, in cui una donna attraversa il corpo presente di una città ed è nel corpo attraversata dalla memoria di essa, il dolore della memoria più che nei flashback parla nella sordità del presente, negli angoli e nelle ombre di una Napoli laida e fascinosa.
I nuovi registi meridionali sono nati o cresciuti tutti "dopo", e possono porsi il problema della cultura in maniera nostalgica o critica, o tuffarsi nel presente a occhi chiusi. Da questo punto di vista, il percorso più significativo di tutti (anche biograficamente) sembra quello del calabrese Gianni Amelio. Amelio è l'unico rappresentante della "generazione di mezzo", cresciuto nell'immediato dopoguerra in un Sud particolarmente povero, che dopo un percorso tortuoso (la cinefilia, il rifiuto del meridionalismo tradizionale) è ritornato infine al Sud e alla sua storia. Già frequentatore della Sicilia più aspra e cupa con Porte aperte(1990), il regista ha affidato il proprio discorso sul Sud a film come Il ladro di bambini(1990) e Lamerica(1994). Il primo, mescolando melodramma e pudori rosselliniani, porta un carabiniere e due bambini attraverso il vuoto di una penisola sfasciata verso una Sicilia che non ha però nulla di liberatorio. Lamerica, che scavalca il neo-neorealismo per farsi colossale allegoria in cinemascope, è un viaggio senza meta nell'Albania di oggi che si trasforma in viaggio indietro nel tempo, in cui un giovane italiano ritrova, muto e dimentico di se stesso, il passato suo e dell'Italia. La raffigurazione più efficace del Sud di oggi al cinema, la si deve proprio a due scene ameliane: l'incontro tra il carabiniere e la nonna ne Illadro di bambini, in uno squallido orticello accanto all'autostrada, e l'agnizione del pescatore sul camion de Lamerica. L'emigrazione, la devastazione paesaggistica e mentale, il ruolo della famiglia, i giovani, l'oblio: c'è tutto in queste scene che sono anche, non a caso, colloqui (afasici) tra due generazioni, saltando proprio quella "di mezzo", quella del regista.



Ora Locale

(Digita o Clicca su "Ora Locale" per tornare indietro)



L'edizione on-line di Ora Locale e' ideata e progettata da
Walter Belmonte