Viviamo nell’epoca della biopolitica, diceva profeticamente
Foucault, cioè nell’età del governo della vita, ossia nell’età della
manipolazione tecnologica dei processi vitali e delle forme di espressione
correnti dell’esistenza quotidiana. «Il diritto alla vita, al corpo, alla
salute, alla felicità, alla soddisfazione dei bisogni, il diritto a ritrovare
al di là di tutte le oppressioni e alienazioni quel che si è» (P.
Barcellona), è sottoposto ad una continua censura e ad una costante imposizione
di plasmazione, revisione, riadattamento.
Il potere economico non si limita più ad esercitare un
controllo e un dominio sulla fabbrica, su i luoghi produttivi, su i posti di
lavoro. Da tempo, ormai, è debordato ed ha invaso la società. Il controllo
deve essere totale. La società viene rimodellata nelle sue strutture, nella sua
organizzazione, nelle sue abitudini di vita, nelle forme dei suoi consumi e
persino delle sue diete alimentari.
Il risultato è un’artificializzazione del mondo e della
vita, un loro snaturamento, nel senso letterale del termine.
Snaturamento dell’ambiente, dei luoghi, dei territori, i quali vengono ridotti
esclusivamente a fondo, ossia ad accumulo, insieme di scorte,
smisurato magazzino di materie prime e di energia a disposizione, mentre l’uomo
si trasforma in colui che impiega il fondo, in signore della terra
che non incontra «più altri che se stesso» (Heidegger). Snaturamento della
vita umana che perde il suo centro di gravità permanente, cioè il
fulcro attorno a cui si costituisce e si raccoglie: la comunità.
La comunità, anzi le comunità, questi centri che hanno
prodotto una sintesi mirabile di natura e cultura, che hanno prodotto una
grandiosa opera di plasmazione culturale dei dati naturali della vita, questi
centri propulsivi della civilizzazione dell’umanità, sono ormai divenuti
superflui. Non servono più. Non sono funzionali ai mercati. Sono anacronistiche
sopravvivenze. Vanno superati, spazzati via, sostituiti. Sostituiti da che cosa?
Dal processo di globalizzazione galoppante che non conosce differenze culturali,
modi diversi di interpretare l’esistenza, forme differenziate di dare un senso
alla nostra presenza nel mondo.
Contro questo processo di artificializzazione del mondo e di
snaturamento della vita nelle forme storiche che si è data, noi dobbiamo
riaffermare il dato naturale del nostro radicamento sul territorio e dei nostri
rapporti con la natura; e dobbiamo rivendicare la centralità di quel
depositario dei caratteri dell’umanità che è la comunità.
La difesa dell’ambiente naturale e della comunità deve
essere l’asse portante della nostra azione politica. Proprio per questo il
locale – che è l’altra faccia del globale – assume un rilievo tutto
particolare in questa fase politica.
L’importanza della dimensione del locale è connessa : 1)
all’affermazione del diritto alla vita di quelle popolazioni (i quattro quinti
dell’intera umanità) che vengono progressivamente private della loro
economia di sussistenza e inserite in un mercato globale che
esautora ed emargina i loro prodotti poco competitivi, condannandole alla
miseria, alla fame, alla morte per stenti; 2) alla salvaguardia delle identità
delle comunità di tutte le latitudini del Pianeta; 3) alla tutela del loro
ethos, delle tradizioni culturali, dei costumi e dei valori che faticosamente
hanno elaborato nel corso di millenni; 4) alla difesa delle forme di socialità
e di solidarietà, ossia della ricchezza di quella relazioni sociali e di quei
rapporti interpersonali che sono costantemente sottoposti ad una sistematica
opera di distruzione da parte degli incontrollati processi di globalizzazione;
5) alla protezione dei luoghi (la piazza, i quartieri, ecc.) deputati agli
incontri e alla comunicazione sociale; 6) al potenziamento e all’espansione
degli spazi pubblici della decisione politica per consentire alle comunità una
democratica espressione del loro proprio modo d’essere e di collocarsi nel
contesto del villaggio globale.
La rivendicazione dell’importanza del locale non significa
chiusura localistica, né angustia campanilistica e provincialistica, né
nostalgia agreste e reazionaria. Non c’è che un modo di pensare e praticare
un progetto di un’unificazione dell’umanità che non sia il risultato delle
forzature del profitto economico e del dominio distruttivo dei mercati: la
coesistenza, democraticamente fondata, delle varie vie che l’umanità ha
seguìto nella sua opera di civilizzazione, e il rispetto delle varie identità,
delle esigenze e dei bisogni materiali delle comunità che popolano il Globo.