Sono passate due settimane dal quel maledetto 11 Settembre e
la vita qui a Manhattan e’ ritornata poco a poco normale; gli uffici hanno
riaperto, le metropolitane sono di nuovo affollate cosi’ come i mille bar e
caffe’ che popolano le strade del Village. I newyorkesi hanno ripreso a fare
jogging, a mangiare fuori, a portare a spasso il cane, a fare file, e mandarsi a
quel paese. Basta non guardare verso Sud, e New York in fondo in fondo sembra
quella di sempre, spregiudicata, frenetica, imprevedibile: the city that
never sleeps. Eppure sotto sotto, sappiamo tutti che e’ solo una parvenza
di normalita’, sappiamo benissimo che tutti ci pensano ancora, chiedendosi
cosa succedera’ domani, sussultando al rombo di un aereo che sembra troppo
vicino o al suono improvviso delle sirene delle polizia.
I poster delle persone scomparse tappezzano le vetrine degli
ospedali, delle pensilline degli autobus, delle cabine telefoniche,
perseguitandoci con le loro
storie di padri, madri, mogli, mariti, figli e figlie
modello, insinuandosi nelle nostre vite con particolari intimi del tutto
gratuiti. Disegni fatti da bambini (incoraggiati dagli psicologi, perche’
poverini attraverso l’arte possono esprimere le loro emozioni e percio’
superare il trauma) ricoprono le pareti delle scuole, mentre nuovi murales e
graffiti dedicati alle torri gemelle spiccano colorati sulle facciate dei vecchi
edifici brownstone del Village.
Candele, ceri e fiori sono praticamente all’angolo di ogni
strada principale tanto che ormai i passanti non ci fanno piu’ nemmeno tanto
caso. Ci si sono abituati, cosi’ come ai barboni che dormono per strada. E poi
come non notare le bandiere, piccole, medie, grandi, gigantesche, migliaia di
bandiere che sventolano fuori dalle finestre delle case dei bravi, onesti
cittadini americani, che si innalzono maestose sulle punte dei grattaceli, che
ricoprono con orgoglio le vetrine degli eleganti negozi in città e che
addirittura spuntano da borse e cappelli di comuni passanti?
Questa dunque la risposta di New York all’attacco di due
settimane fa?
Si, ma non solo questa. Nonostante i media insistano nel
darci l’immagine di un’America unita, patriottica, compatta nel sostenere la
linea dura di Bush, la verità e molto piu’ complessa. Accanto ai tanti
americani che chiedono vendetta, ci sono altri che invitano all’autocritica,
condannando apertamente le minaccie di guerra lanciate dal governo Bush e
denunciando senza mezzi termini le azioni militari che l’America ha condotto
nel recente passato contro l’Iraq, la Libia, il Sudan, e lo stesso
Afghanistan. Sin dal secondo giorno dell’attentato in tutte le piazze della lower
Manhattan si sono riversate spontaneamente centinaia e centinaia di persone,
sopratutto giovani, spinti dalla voglia di esprimere il loro dolore, la loro
rabbia, la loro preoccupazione. Uno dei volantini che viene distribuito porta il
titolo: Una veglia per la pace: Islam non e’ il nemico. La guerra non e’
la soluzione. Per tutta la piazza, accanto ai fiori, le candele e le foto
dei presunti morti, risaltano manifesti e striscioni dal contenuto spiccatamente
pacifista e antirazzista. In uno di questi a caratteri cubitali e’ scritto:
Racism is not the answer – War is not progress – But peace is
possible. Sul lato sud-ovest della piazza, una ragazza giapponese con
del gesso scrive sull’asfalto i primi preoccupanti dati di rappresaglie
cittadine contro individui musulmani e comunita’ arabe (in Texas tre arabi
sono stati uccisi in una moschea musulmana, nel Maryland due negozi appartenenti
a musulmani sono stati messi a fuoco, a Manhattan un tassista di colore e’
stato trascinato fuori dalla macchina e giustiziato a rivoltellate, a Bay Ridge,
il quartiere sud di Brooklyn, quattro ragazze musulmane sono state aggredite).
Ad un altro angolo della piazza un gruppo di ragazzi si tengono per mano e
accompagnati da chitarre e bongos inneggiano canzoni pacifiste. Al centro
invece, i piu’ audaci muniti di microfoni cercano di richiamare l’attenzione
su una serie di domande politiche che media e uomini politici hanno e continuano
ad ignorare. Perche’, in nome di chi e contro cosa, e’ stato fatto questo
attentato? Che cosa rappresenta l’America agli occhi dei terroristi? Che tipo
di messaggio hanno voluto mandare al mondo?
Ricorrendo ad una retorica vecchia quanto l’America stessa,
Bush ha scaltramente spostato l’attenzione sulla questione della sicurezza
nazionale e la lotta al terrorismo: Chi non e’ con noi e’ contro di
noi – continua a ripetere il presidente. Il New York Post non ha dubbi:
Let’s Kill the Bastards! e’ la risposta del giornale al discorso
di Bush. E come il New York Post, tutti i principali giornali americani,
e a dir il vero internazionali, non hanno esitato nemmeno per un momento a
schierarsi col Presidente, contribuendo ulteriomente a impoverire il dibattito
politico e ridurre l’attentato islamico a una guerra tra democrazia e
terrorismo, tra buoni e cattivi. Ad eccezione di poche voci, quali la rivista The
Nation e The Indypendent (organo di Indymedia), nessuno ha avuto il
coraggio di mettere in discussione il ruolo degli Stati Uniti nel mondo,
condannare l’egemonia e l’arroganza americana, e riconsiderare la politica
americana nel medio oriente. Anzi, non esprimere sostegno all’America in
questo momento di crisi equivale quasi quasi a essere terroristi. The
attack on America si e’ trasformato in un attacco alla civilta’, all’umanita’,
alla liberta’ e alla democrazia. Dunque, come non approvare le minaccie di
guerra di Bush? Come non giustificare l’aumento delle spese militari e dei
servizi speciali, per i quali soltanto si spendono attualmente 30 miliardi di
dollari? Come non condividere le nuove misure di protezione e controllo,
proposte dal Dipartimento di Giustizia (anche se comporteranno una considerevole
restrizione dei diritti e liberta’ civili)? Dopo la morte di piu’ seimila
persone, come non odiare gli arabi?
Eppure, nonostante il tentativo spudorato e per molti versi
riuscito dei media di manipolare l’informazione o, come ha scritto Susan
Sontag, infatilizzare il pubblico, (New Yorker, 24 Settembre)
il movimento pacifista continua a crescere e riscuotere sempre piu’ consensi.
Union Square, la piazza storica del movimento operaio e radicale americano, e’
ormai diventata una sorta di mecca per gli anti-globalizzatori, i pacifisti e
antirazzisti di tutti gli States. Venerdi’ sera, 21 Settembre circa 5,000
persone hanno manifestato contro la guerra marciando da Union Square a Times
Square e per il 29 si sta organizando un rally di proporzioni enormi a
Washington DC. Nel frattempo in tutti i campus universitari si moltiplicano le
iniziative di teach-ins, manifestazioni di protesta consistenti in
dibattitti, discorsi, assemblee gestite da studenti, professori e uomini e donne
di spicco del mondo intellettuale americano.
La gente vuole risposte ma non sembra trovarle nelle voci del
congresso, ne’ tantomeno nei commenti dei giornali. La discussione politica,
il confronto di idee, e il dissenso (che sono poi i capisaldi della vera
democrazia) sono stati messi a tacere in nome del patriottismo. Eppure come nota
giustamente Eric Foner, professore di storia alla Columbia University e autore
del libro The Story of American Freedom (recentemente pubblicato anche in
Italia). In momenti di crisi l’atto americano piu’ patriottico e’
quello della difesa delle liberta’ civili e del diritto al dissenso.
(The Nation, October 8)
Mentre scrivo quest’articolo, Bush e Giuliani, il sindaco
di New York, continuano a tranquillizzare gli americani, continuano a ripetere
che l’America non crollera’, che verra’fuori da questa crisi a testa alta,
piu’ forte e unita che mai. Si tenta disperatamente di convicere il mondo che
Everything is ok (quasi fosse una canzone di Bob Marley), che
i colpevoli saranno trovati, giustizia sara’ fatta. Personalmente non ho dubbi
che l’America sia forte, ma non credo che debba essere solo questo.
New York, 30-09-2001