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Fulmini e tempeste a Manhattan

di Marcella Bencivenni


Sono passate due settimane dal quel maledetto 11 Settembre e la vita qui a Manhattan e’ ritornata poco a poco normale; gli uffici hanno riaperto, le metropolitane sono di nuovo affollate cosi’ come i mille bar e caffe’ che popolano le strade del Village. I newyorkesi hanno ripreso a fare jogging, a mangiare fuori, a portare a spasso il cane, a fare file, e mandarsi a quel paese. Basta non guardare verso Sud, e New York in fondo in fondo sembra quella di sempre, spregiudicata, frenetica, imprevedibile: the city that never sleeps. Eppure sotto sotto, sappiamo tutti che e’ solo una parvenza di normalita’, sappiamo benissimo che tutti ci pensano ancora, chiedendosi cosa succedera’ domani, sussultando al rombo di un aereo che sembra troppo vicino o al suono improvviso delle sirene delle polizia.
I poster delle persone scomparse tappezzano le vetrine degli ospedali, delle pensilline degli autobus, delle cabine telefoniche, perseguitandoci con le loro
storie di padri, madri, mogli, mariti, figli e figlie modello, insinuandosi nelle nostre vite con particolari intimi del tutto gratuiti. Disegni fatti da bambini (incoraggiati dagli psicologi, perche’ poverini attraverso l’arte possono esprimere le loro emozioni e percio’ superare il trauma) ricoprono le pareti delle scuole, mentre nuovi murales e graffiti dedicati alle torri gemelle spiccano colorati sulle facciate dei vecchi edifici brownstone del Village.
Candele, ceri e fiori sono praticamente all’angolo di ogni strada principale tanto che ormai i passanti non ci fanno piu’ nemmeno tanto caso. Ci si sono abituati, cosi’ come ai barboni che dormono per strada. E poi come non notare le bandiere, piccole, medie, grandi, gigantesche, migliaia di bandiere che sventolano fuori dalle finestre delle case dei bravi, onesti cittadini americani, che si innalzono maestose sulle punte dei grattaceli, che ricoprono con orgoglio le vetrine degli eleganti negozi in città e che addirittura spuntano da borse e cappelli di comuni passanti?
Questa dunque la risposta di New York all’attacco di due settimane fa?
Si, ma non solo questa. Nonostante i media insistano nel darci l’immagine di un’America unita, patriottica, compatta nel sostenere la linea dura di Bush, la verità e molto piu’ complessa. Accanto ai tanti americani che chiedono vendetta, ci sono altri che invitano all’autocritica, condannando apertamente le minaccie di guerra lanciate dal governo Bush e denunciando senza mezzi termini le azioni militari che l’America ha condotto nel recente passato contro l’Iraq, la Libia, il Sudan, e lo stesso Afghanistan. Sin dal secondo giorno dell’attentato in tutte le piazze della lower Manhattan si sono riversate spontaneamente centinaia e centinaia di persone, sopratutto giovani, spinti dalla voglia di esprimere il loro dolore, la loro rabbia, la loro preoccupazione. Uno dei volantini che viene distribuito porta il titolo: Una veglia per la pace: Islam non e’ il nemico. La guerra non e’ la soluzione. Per tutta la piazza, accanto ai fiori, le candele e le foto dei presunti morti, risaltano manifesti e striscioni dal contenuto spiccatamente pacifista e antirazzista. In uno di questi a caratteri cubitali e’ scritto: Racism is not the answer – War is not progress – But peace is possible. Sul lato sud-ovest della piazza, una ragazza giapponese con del gesso scrive sull’asfalto i primi preoccupanti dati di rappresaglie cittadine contro individui musulmani e comunita’ arabe (in Texas tre arabi sono stati uccisi in una moschea musulmana, nel Maryland due negozi appartenenti a musulmani sono stati messi a fuoco, a Manhattan un tassista di colore e’ stato trascinato fuori dalla macchina e giustiziato a rivoltellate, a Bay Ridge, il quartiere sud di Brooklyn, quattro ragazze musulmane sono state aggredite). Ad un altro angolo della piazza un gruppo di ragazzi si tengono per mano e accompagnati da chitarre e bongos inneggiano canzoni pacifiste. Al centro invece, i piu’ audaci muniti di microfoni cercano di richiamare l’attenzione su una serie di domande politiche che media e uomini politici hanno e continuano ad ignorare. Perche’, in nome di chi e contro cosa, e’ stato fatto questo attentato? Che cosa rappresenta l’America agli occhi dei terroristi? Che tipo di messaggio hanno voluto mandare al mondo?
Ricorrendo ad una retorica vecchia quanto l’America stessa, Bush ha scaltramente spostato l’attenzione sulla questione della sicurezza nazionale e la lotta al terrorismo: Chi non e’ con noi e’ contro di noi – continua a ripetere il presidente. Il New York Post non ha dubbi: Let’s Kill the Bastards! e’ la risposta del giornale al discorso di Bush. E come il New York Post, tutti i principali giornali americani, e a dir il vero internazionali, non hanno esitato nemmeno per un momento a schierarsi col Presidente, contribuendo ulteriomente a impoverire il dibattito politico e ridurre l’attentato islamico a una guerra tra democrazia e terrorismo, tra buoni e cattivi. Ad eccezione di poche voci, quali la rivista The Nation e The Indypendent (organo di Indymedia), nessuno ha avuto il coraggio di mettere in discussione il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, condannare l’egemonia e l’arroganza americana, e riconsiderare la politica americana nel medio oriente. Anzi, non esprimere sostegno all’America in questo momento di crisi equivale quasi quasi a essere terroristi. The attack on America si e’ trasformato in un attacco alla civilta’, all’umanita’, alla liberta’ e alla democrazia. Dunque, come non approvare le minaccie di guerra di Bush? Come non giustificare l’aumento delle spese militari e dei servizi speciali, per i quali soltanto si spendono attualmente 30 miliardi di dollari? Come non condividere le nuove misure di protezione e controllo, proposte dal Dipartimento di Giustizia (anche se comporteranno una considerevole restrizione dei diritti e liberta’ civili)? Dopo la morte di piu’ seimila persone, come non odiare gli arabi?
Eppure, nonostante il tentativo spudorato e per molti versi riuscito dei media di manipolare l’informazione o, come ha scritto Susan Sontag, infatilizzare il pubblico, (New Yorker, 24 Settembre) il movimento pacifista continua a crescere e riscuotere sempre piu’ consensi. Union Square, la piazza storica del movimento operaio e radicale americano, e’ ormai diventata una sorta di mecca per gli anti-globalizzatori, i pacifisti e antirazzisti di tutti gli States. Venerdi’ sera, 21 Settembre circa 5,000 persone hanno manifestato contro la guerra marciando da Union Square a Times Square e per il 29 si sta organizando un rally di proporzioni enormi a Washington DC. Nel frattempo in tutti i campus universitari si moltiplicano le iniziative di teach-ins, manifestazioni di protesta consistenti in dibattitti, discorsi, assemblee gestite da studenti, professori e uomini e donne di spicco del mondo intellettuale americano.
La gente vuole risposte ma non sembra trovarle nelle voci del congresso, ne’ tantomeno nei commenti dei giornali. La discussione politica, il confronto di idee, e il dissenso (che sono poi i capisaldi della vera democrazia) sono stati messi a tacere in nome del patriottismo. Eppure come nota giustamente Eric Foner, professore di storia alla Columbia University e autore del libro The Story of American Freedom (recentemente pubblicato anche in Italia). In momenti di crisi l’atto americano piu’ patriottico e’ quello della difesa delle liberta’ civili e del diritto al dissenso. (The Nation, October 8)
Mentre scrivo quest’articolo, Bush e Giuliani, il sindaco di New York, continuano a tranquillizzare gli americani, continuano a ripetere che l’America non crollera’, che verra’fuori da questa crisi a testa alta, piu’ forte e unita che mai. Si tenta disperatamente di convicere il mondo che Everything is ok (quasi fosse una canzone di Bob Marley), che i colpevoli saranno trovati, giustizia sara’ fatta. Personalmente non ho dubbi che l’America sia forte, ma non credo che debba essere solo questo.

New York, 30-09-2001



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