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Cori di "identità"
I racconti di Franco Araniti

di Antonio Barbieri


Ritengo necessario presentare un breve schema riassuntivo dei dieci racconti che compongono le due parti del libro di Franco Araniti "L’uccello sciancato" ("Le nuvole" editrice). Sarà più facile, in questo modo, condensare e collegare i fili di un discorso narrativo che è orientato alla materia che ci custodisce-imprigiona-sprigiona, nonché alla quotidianità, anche (e soprattutto) per le marcate scelte linguistiche di natura dialettale (rispecchiamento nella propria identità collettiva), come ragione irrinunciabile dell’esistenza (il senso di noi che ci deve costantemente accompagnare, vivendoci e vivendo).
1. La mammina di Morgana. Due figure, tra loro in contrapposizione psicofisica, emarginate nel paese di Terronia. Morgana in quanto troppo bella, sproporzionatamente bella per essere figlia di NN e non autorizzata alla vita come i ricchi, ma destinata alla rassegnazione di "tutti coloro che lottavano senza nulla ottenere" (pag. 14): scarso conforto che fu già quello della madre Consolata ("consolati Consolata") – simbolo sociale di ogni sopraffazione – per essere stata madre senza marito. Carminuzza, la mamma ("mammina") del paese lava i panni all’aperto "facendosi scorrere addosso il racconto come l’acqua del canalello" (pag. 16). Si ripaga dell’abbandono con la masturbazione, solipsistico inaridimento.E’ l’allegoria della donna sottomessa, asservita e vessata, che cerca ricompensa nella futura "memoria" quando sarà morta. Tale appartenenza collettiva addolcisce la crudeltà della Natura, condividendola.
2. La caprara. Concettina, caprara impregnata dall’"odore di capra" ("L’odore delle bestie non lo levi d’intorno neanche stricando a sangue"), viene sparata come una "scheccia" (capinera) dal "Cavaliere" che vuole "scassarla, essendo sicuramente per forza vergine" (pag. 29). Caduta nel "farranco", "cardata", tra le "spine dei roveti e delle ficarazzare" (pag. 27), è assistita e confortata fino alla morte dalla "scheccia" stessa, che nel leccarle le spine "ciuciulia" (le mormora): "coraggio…coraggio!", (pag. 27). La parola che divide gli uomini per la distanza di classe, trasmigra, patto pacificante, agli animali: la Natura, anche qui, incombe selvaggia, ancora non mediata e spianata in progetto di civiltà.
3. Il mito e la barbona. "Andare via da quel paese, uscire da quella provincia" (pag. 31) è il desiderio del ventenne Raimondo. Nonostante i buoni risultati scolastici, è ferito dal nomignolo di "Nato Vecchio", dal fatto di non aver "conosciuto mai una donna", dagli sfottenti rimbrotti di Virginio e specialmente dal mito dello zio Ottavio che lo invita a raggiungerlo al Nord. Questo zio Ottavio "a vent’anni era andato via" (pag. 37), dopo essere stato arrestato a sedici anni ("innocente" per la famiglia). Raimondo raggiunge lo zio che gli promette spocchiosamente emancipazione, vita, mondanità, godimento. Però, di notte, scopre che il suo mito era stato imputato per l’omicidio della "Barbona bruciata viva" (pag. 50). Un salto storico: lo zio Ottavio, malavitoso mafioso, sganciato da qualsivoglia dignità, discopre il ghigno macabro della Natura calpestata e profanata. Non interpretata in responsabilità umana.
4. La madre e la voglia inespressa. Teodoro vive, fantasmaticamente, il complesso della castrazione (evocatogli dal guardare una coppia in amore e venendo, nel mentre, decapitato da una potatrice). La testa (tagliata) è la proiezione inconscia del membro virile castigato, inibito che, nell’infanzia, era stato toccato e baciato dalla comare Teresina. "Cresce male il bambino" (pag. 54) sono le parole della madre. Questo tabù gli si è congelato addosso e, adesso, lo allucina.
5. Il cesso nell’orto. Secondo la vecchia maestra "la lettura deve essere come un vizio" (pag. 56), tanto da essere praticato perfino nel cesso e su ogni spazio di carta imbrattata dai propri escrementi (la carta igienica, s’intende, è di là da venire e si è già fortunati a usufruire di un giornale…). La scrittura non viene macchiata sconvenientemente ("L’inchiostro che segnava le parole…bagnandosi…si scioglieva sul retro, annerendolo…", pag. 57). La scrittura medesima è la concentrazione (legata ai bisogni fisiologici del corpo) nel soppesare e vagliare le parole. La parola, insomma, corporalmente assorbita, articolata, digerita, metabolizzata, ci rende alla vita, immettendoci nel ciclo vitale e arricchendoci umoralmente di tale esperienza ("lèggere sempre, per non morire", pag. 58).
Araniti ha fatto bene a staccare con la "Parte Seconda" del libro, che è meno legata alla sua ancestralità – pure linguistica - quantunque il suo mondo poetico, in ultimo, risulti uniforme nello sforzo espressivo di comunità storica – ed ideale – che si profila spalancandosi all’alterità, a partire da ragioni immediatamente e gerarchicamente sventagliate, quelle del celebrato antropocentrismo, e sondando, invece, le forre recintate per confrontarsi con i bisogni reali, quelli dei deboli, dei diseredati, degli esclusi, su cui costruire l’emanciparsi universale. Araniti vuole il consolidarsi di tutti noi in consorzio. L’arco di tempo dell’intera "fatica", come avverte il risvolto di copertina, è, tra l’altro, 1981-1991: dieci anni per dieci racconti. La "Parte Prima" richiama essenzialmente Verga: la "marea", i "Vinti", ancorché, nel contesto di Araniti, questi non si rassegnino affatto. Ma vogliono, e questo è il paradosso inventivo della cifra Araniti, motivazioni dalla loro stessa sconfitta. Come a dire: se perdo perde l’umanità, senza distinzioni di sorta. Questo caparbio ed esasperato attaccamento alla dignità umana mi viene incontro come il senso ultimo, compiuto, dei primi cinque racconti.
6. L’uccello sciancato. E’ l’apologo di un uccello handicappato, Sciò (verso onomatopeico per scacciare, mandare via), che cambia nome all’anagrafe, Sciàn, per rimuovere il "Vai via" dell’originario appellarsi. La sua vera fortuna è la solidarietà con "Mu-sci", gatto "anarchico", che trasforma la non fatalità di essere sfortunati in fatalità ("i più forti la rendono fatale, che la solidarietà tra i deboli alimenta la giusta forza per liberarsi e la speranza", pag. 65). "Mu-sci" è "maciullato" da "una Bmw pirata" (pag. 64) e per Sciàn l’unica "resurrezione" è morire, inghiottito da un topo. La Natura regola i rapporti umani, meccanicisticamente.
7. Chicco. Un gatto, con problemi di minzione, "aperto" (operato) e, dato il cattivo esito, eutanasizzato. La cosalizzazione scientifica rappresentata tramite la natura animale è la compassione quasi inutile con cui si smaltisce, amministrativamente, la morte, rito privato, riservato, disincantato, inguantato, anodino, asettico. Il confronto uomo-animale (evocato implicitamente e sottilmente) fa deflagrare meglio la nostra disperazione affamata (soffocata) da mille feticci.
8. Il folletto. I folletti sono l’ombra di noi che ci perseguita, addirittura attorcigliandoci le parole alla rovescia. "Orac Ocnarf Itinara, iah aruap?" per "Caro Franco Araniti, hai paura?": questo sconvolto, dilacerato anagramma del proprio nome, è, per Franco Araniti, la prova autosarcastica del dissacrarsi.
9. Tele Iolanda. I macabri, televisivi, ritualismi della morte, che pure non è più sociale, collettiva, condivisa, scambiata. Il portinaio di un condominio, Pasquale, rimpiange "il vecchio quartiere dalle mille voci inconfondibili" (pag. 79) e constata la presenza ossessiva dell’odore della morte come ubiquità della perdita. La reale morte di Iolanda è il televisore che gocciola e del quale non si riesce a spegnere la voce artificiale.
10. Il vestitino d’America. Una sovrapposizione, in Caterina, villeggiante sulla spiaggia di Scalea, che, nel pomeriggio, medita sulle sue ambizioni di scrittrice (“quell’idea del racconto breve, alla Čecov, più consono ai ritmi della modernità frenetica…rispetto alla stancante artificiosità del lento voluminoso narrare", pag. 89), tra il marocchino di turno che le offre la solita mercanzia e il padre emigrato in America che spedì alla madre un vestito estivo. La ragazza non compra niente, è distratta dai suoi pensieri, seccata dall’ostentata familiarità del venditore. Eppure tra i due, miracolosamente, nasce confidenza. Li avvicina, per qualche intenso attimo, un numero della rivista "Millelibri" che lui le chiede in regalo "per migliorare conoscenza lingua italiano" (pag. 87).
Questi secondi cinque racconti sono più legati a possibili situazioni contingenti. Franco Araniti, qua e là, ha disseminato la sua poetica. Segno sicuro di assillo continuo. Tesse una tela di appartenenza e riscontro. Le sue parole attingono al mito del passato e tendono ad una liberazione corale, ideologica, di riferimento. Il mondo contadino rimane in lui quale ferita non rimarginatasi e il mondo moderno lo preme e lo urta in quanto assenza di ragione, nella monologica, integralista, arida ragione, economicisticamente assiomatica, di progresso celebrato.



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