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Eric Foner, Storia della libertà americana, Donzelli, Roma. 2000


di Marcella Bencivenni


Da poco più di un anno è stato tradotto in Italia l’ultimo lavoro di Eric Foner, professore alla Columbia University di New York nonché uno dei più rispettati ed autorevoli storici americani. Il libro di Foner, che traccia il percorso ideologico della libertà americana dalla rivoluzione settecentesca ad oggi, non poteva uscire in un periodo migliore: gli eventi dell’undici settembre hanno infatti suscitato un nuovo, crescente interesse verso il significato di questo ideale che, come dimostra Foner, rappresenta senz’altro, nonostante i suoi limiti e le sue incongruità, l’elemento più caratterizzante della società statunitense. E in effetti la Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, che segna la nascita degli Stati Uniti, così come la Costituzione (1787)e il Bill of Rights (Dichiarazione dei Diritti) con le loro garanzie di libertà di espressione, di stampa e di religione, sono profondamente intrisi di parole quali libertà, autonomia, emancipazione. Basti pensare d’altronde al valore simbolico assunto dalla Statua della Libertà (1886) per rendersi conto del posto centrale che questo valore ha assunto nel linguaggio politico americano. Non a caso Oriana Fallaci nel suo ultimo e controverso saggio considera la libertà come «la spina dorsale dell’America» « la linfa vitale di questa nazione». (La rabbia e l’orgoglio). E non a caso Foner inizia il suo libro con la seguente affermazione: « Non esiste idea più essenziale al senso di sé degli americani, come individui e come nazione, dell’idea di libertà» (p. 3)
L’espressione « This is a free country», questo è un paese libero, non è semplicemente un luogo comune: è senza dubbio la frase più usata dagli americani per giustificare le loro azioni o per descrivere la loro nazione. Non solo: sono molti, anzi moltissimi, gli americani che consapevolmente o inconsapevolmente credono di essere «l’unico popolo che realmente goda della libertà». (Per esempio, lo scorso semestre tra i miei alunni al John Jay College di New York, almeno tre su quattro hanno elencato la libertà come il valore che contraddistinse la rivoluzione americana da quella francese, e almeno la metà hanno visto nella libertà americana la ragione principale dell’attacco dell’undici settembre. Ciò non mi avrebbe sorpreso poi tanto se la maggior parte degli studenti non fossero figli di immigrati latino-americani che certo non godono di grosse libertà nella metropoli newyorkese).
Ma fino a che punto sono gli Stati Uniti un paese davvero libero ? Come ha potuto un paese fondato sulla libertà permettere, anzi legittimare, l’istituzione della schiavitù ? E come mai una nazione che crede davvero nella libertà di pensiero e di parola ha perseguitato e continua a perseguitare coloro che sostengono idee radicali e alternative? E quale libertà personale, intesa come uguale opportunità per ciascuno di scegliere il proprio destino, può esistere in una società dove il denaro determina la scuola che si può frequentare, l’ospedale in cui ci si può curare, il quartiere nel quale ci si può permettere di vivere ?
Tali contraddizioni, spiega Foner, sono possibili per un semplice motivo: non esiste un solo significato vero della libertà, ma tante libertà, create e ricreate a secondo dei periodi storici, degli interessi delle classi dominati e dei punti di vista dissenzienti. In altre parole, il concetto di libertà non deve essere considerato come una categoria concettuale predeterminata, assoluta, o universale, ma piuttosto come «un terreno di lotta, soggetto ad interpretazioni molteplici e concorrenti», il cui significato è sempre stato sostanzialmente contestato. (p. 5)
La storia della libertà americana inizia con la rivoluzione e con la dichiarazione dei Padri Fondatori che la libertà è un diritto universale innato. Tale concezione della libertà, spiega Foner, si riferiva sia ad uno status politico, riguardante cioè il diritto all’autodeterminazione e la partecipazione alla vita pubblica, sia a una condizione morale; libertà cioè di fare ciò che è giusto, piuttosto che diritto di fare ciò che si vuole, a prescindere dagli altri. Implicita nella definizione di libertà della Dichiarazione d’Indipendenza era anche, secondo Foner, l’idea dell’uguaglianza: « uguaglianza davanti alla legge, uguaglianza nei diritti politici, uguaglianza delle opportunità economiche» (p. 33). In effetti, nel fondare la repubblica, gli americani rifiutavano non solo la monarchia, ma anche i privilegi, l’aristocrazia ereditaria, e le disuguaglianze sociali che ne derivavano.
Paradossalmente però mentre i padri fondatori invocavano la libertà, traevano profitto dalla schiavitù. Al tempo della rivoluzione, la schiavitù esisteva in tutti gli stati da almeno un secolo e addirittura formava la base della struttura economica e sociale dell’intero Sud; quasi un milione di schiavi vivevano nel Nuovo Mondo, pari ad un quinto della totale popolazione di allora. Lo stesso Thomas Jefferson, quando scrisse la famosa frase , « Noi riteniamo che queste verità siano evidenti: tutti gli uomini sono creati uguali e dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, fra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità.», possedeva più di cento schiavi.
La limitazione della libertà e la giustificazione «morale» della schiavitù si poggiavano sul concetto di nazionalità, la definizione cioè di chi potesse considerarsi cittadino americano. Con il Naturalization Act del 1790 il Congresso limitava il diritto di cittadinanza ai soli bianchi liberi, giustificando l’esclusione dei neri e delle donne (e più tardi di altri gruppi etnici) in base alla loro presunta inferiorità «naturale». Fu solo grazie al movimento degli abolizionisti guidato da William Lloyd Garrison che la netta dicotomia tra la coercizione della schiavitù e la presunta libertà universale, non poté più essere ignorata. Gli antischiavisti, spiega Foner, cercarono di dare più valore al concetto di libertà come diritto «autenticamente» universale, senza riguardo alla razza, al genere o allo stato sociale. Furono loro che inventarono l’idea dell’eguaglianza civile, cioè il diritto alla cittadinanza e all’uguaglianza davanti alla legge a prescindere dal colore della pelle. E fu grazie a loro, continua Foner, che si sviluppò l’idea che ogni essere umano è un «oggetto morale libero», che cioè la vera libertà deriva non dal possesso della proprietà produttiva ma dalla proprietà di sé, cioè della propria persona (p. 126).
Il conflitto tra <<società di schiavi>> e <<società libera>> si riferiva anche e soprattutto a due definizioni contrastanti di libertà economica: i sudisti si appellavano all’idea di libertà intesa come autogoverno locale, autosufficienza, e sicurezza della proprietà (inclusa quella degli schiavi), i nordisti, invece, il cui sistema economico era incentrato sul libero lavoro, insistevano che << libertà significava che tutti godessero del frutto del proprio lavoro>> (p.136). Anche se la vittoria dell’Unione nel 1865 portò l’abolizione della schiavitù e l’estensione della cittadinanza come diritto di nascita anche ai neri, l’emancipazione degli schiavi non implicò l’uguaglianza civile o politica. Come è noto, gli afro-americani rimasero esclusi dalla vita politica americana fino agli anni sessanta del Novecento, quando il movimento per i diritti civili dei neri pose finalmente fine alla segregazione e alla discriminazione razziale.
Sarebbe qui troppo lungo riportare tutte le battaglie ideologiche che hanno di volta in volta alterato il significato di libertà americana, ma essenzialmente la storia della libertà americana si potrebbe riassumere nella lotta tra forze democratiche e forze conservatrici, tra coloro che hanno visto e vedono la libertà come un ideale di protesta e coloro che l’hanno utilizzata e la utilizzano come giustificazione dello status quo, o, per usare la terminologia di Isaiah Berlin, tra freedom from (libertà da), intesa come assenza di coercizioni esterne, e freedom of (libertà di), intesa invece come un allargamento delle libertà politiche e sociali. Oggi la minaccia del terrorismo rischia di rafforzare ulteriormente l’interpretazione neo-conservatrice della libertà e di iniziare una nuova <<crociata per la libertà>> fondata su una serie di negazioni - del governo, dei diritti e libertà civili, del dissenso, della partecipazione attiva alla vita pubblica.
Seguendo la tradizione intellettuale di Richard Hofstadter, di cui fu allievo, Eric Foner ripropone un’ottima sintesi della storia del pensiero politico americano, facendo luce sulle complesse relazioni che esistono tra idee ed esperienza, tra istituzioni politiche e condizioni economiche, tra gruppi dominanti e gruppi oppressi.
Ma a mio parere, il contributo più importante di Foner è da ricercarsi nel fatto che il suo studio dimostra che sebbene l’America abbia, come tutte le nazione d’altronde, degli elementi caratterizzanti, non è mai stata un’unica cosa e sbaglia chi continua a considerala come un paese senza conflitti e senza dissensi. Pertanto, come suggerisce Alessandro Portelli nella sua introduzione al libro, categorie come quelle di filoamericanismo o antiamericanismo non solo sono poco utili ma sono anche storicamente incorrette, perché l’America non è solo quella dei Padri Fondatori, con i loro pregiudizi razziali, ma anche quella degli schiavi ribelli, come Frederick Douglas o Nat Turner; non è esclusivamente quella del liberalismo economico ma anche quella delle conquiste dei diritti civili dei neri, delle donne, degli omosessuali. E’ stato proprio grazie agli sforzi delle minoranze, dei gruppi esclusi e meno conosciuti che il significato della libertà si è arricchito, ampliato, e migliorato, avvicinandosi al concetto d’uguaglianza. Ed è a questa tradizione che l’America dovrebbe tornare per ritrovare se stessa.



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