Ora Locale

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Il Sistema Locale di Sviluppo come unità minima di programmazione

Intervista ad Osvaldo Cammarota

di Ugo Leone


Qual è il presumibile impatto della globalizzazione sul Mezzogiorno?
Perché non parliamo dell’impatto che può avere il Mezzogiorno nella globalizzazione?
Se è vero – come è vero – che il nostro territorio dispone di valori e risorse uniche al mondo, il problema che dobbiamo porci è come immettere le nostre risorse nelle dinamiche del mercato globale.
Il futuro del Mezzogiorno è nella sua capacità integrarsi senza omologarsi ai modelli che attualmente sembrano dominare il processo di globalizzazione.
L’unificazione europea potrebbe aiutarci, se fossimo in grado di coglierne appieno la portata.
Quel che maggiormente mi preoccupa è un atteggiamento supino, rassegnato e di difesa rispetto all’"inevitabile dominio" della globalizzazione.
La globalizzazione ha causato e combinato i suoi effetti con la crisi del fordismo; per dirla in breve, ha dilatato gli spazi dell’agire umano in ogni campo (produttivo, commerciale, culturale) ed ha molecolarizzato i luoghi di produzione; l’esplosione del lavoro autonomo è uno degli effetti.
Ora, poiché nel Mezzogiorno non si è mai compiuto il processo di industrializzazione, - se non limitatamente ad alcune aree – forse abbiamo maggiori vantaggi nel passaggio alla civiltà post-industriale.
Paradossalmente abbiamo maggiori chances rispetto a territori più industrializzati, perché disponiamo già di un tessuto produttivo molecolare, di una pluralità di soggetti e di risorse che potrebbero avvantaggiarsi delle opportunità della globalizzazione; e nelle nostre stesse condizioni c’è tanta parte del vecchio continente, per questo l’unificazione europea può essere di grande aiuto per il Mezzogiorno. Si tratta di fare massa critica con tanta parte dell’Europa che vive i nostri stessi problemi, per far valere le ragioni di uno sviluppo inclusivo e socialmente sostenibile.
Questa traccia di lavoro non è solo dettata dalla sensibilità sociale, ma anche da considerazioni di tipo economico e politico. Il mercato globale ha bisogno di nuovi prodotti di cui alimentarsi; diversamente, la scarsità di offerta spingerà sempre più verso la rapina dei più deboli e, prima o poi, determinerà anche conflitti tra i più forti.
Il nostro problema è qualificare l’offerta di beni e servizi per renderli spendibili sul mercato globale. Anche questo problema rinvia al concetto di "competitività territoriale" su cui tornerò tra breve.
 
Alla luce anche degli interventi polemici di Latouche, ritiene che un possibile "vantaggio competitivo" del Mezzogiorno consista nella multietnicità e nel suo rapporto con il Sud della Terra?
Certamente si, ma si tratta di una potenzialità tutta da sperimentare e sviluppare.
Le pluri-identità e la multietnicità fanno del Mezzogiorno un laboratorio operativo ottimale, per sperimentare la sostenibilità della globalizzazione e la possibilità di affermare un diverso modello di sviluppo e di equilibrio mondiale. Provo a spiegarmi meglio…
Sinora l’economia dei paesi industrializzati ha imposto le sue leggi fondate sul massimo profitto monetario e sulla competizione selvaggia. Già da qualche tempo si comincia a fare i conti con la limitatezza delle risorse naturali e con la insostenibilità di un modello di sviluppo che aumenta le distanze tra "inclusi" ed "esclusi". La distanza non c’è solo tra Paesi ricchi e Paesi poveri, ma all’interno degli stessi Paesi industrializzati, aumenta il divario tra aree geografiche e tra comunità appartenenti alla stessa nazione. La globalizzazione selvaggia determina nuove forme di conflitto tra esclusi e inclusi. Per certi versi, l’esodo dei poveri verso l’immagine di benessere (l’immigrazione) è un conflitto sordo, lento, ma non per questo privo di vittime e problemi, per gli emigrati e per i paesi che li ricevono.
Quel che mi è parso di capire, anche dopo l’11 settembre, è che dobbiamo rapidamente archiviare quella polemica verbosa e inconcludente con cui si contrappone locale e globale; essa mi sembra del tutto superata dal fatto che non si può parlare di sviluppo locale se non commisurato allo scenario globale, così come la globalizzazione senza sviluppo locale rischia di creare esclusione, conflitti, e, nel peggiore dei casi, guerre.
 
Si può parlare di una competitività del territorio? Come la si può garantire per il Mezzogiorno?
Si, a mio parere si può parlare di competitività territoriale, ma dobbiamo bene intenderci sul concetto di competitività e di sviluppo.
Un territorio è competitivo quando è in grado di offrire beni e servizi fruibili e godibili secondo i parametri del nostro tempo e della nostra civiltà.
La capacità di attrarre risorse o di esportare prodotti dipende sempre più da una molteplicità di fattori interrelati che in un’unica espressione riassumo come la qualità del contesto.
Non è competitivo un territorio che ha suolo, aria ed acqua inquinati, né ci si può illudere di renderlo attrattivo con i regimi di aiuti alle imprese. L’industrializzazione forzata si è rivelata un disastro: le aree meridionali sono disseminate di capannoni che oggi riconosciamo con la particella ex (ex Colussi, ex Doria, ex SEVEL, ex Mulini Marzoli, ex Saint Goben,…ex Italsider).
La vera impresa non ha bisogno di aiuti, ha bisogno di un ambiente pervio, in cui funzionino la pubblica amministrazione, i servizi, la vita sociale, in cui vi sia convivenza civile e sicurezza. Di questo credo che abbiamo bisogno: ad esempio,dei 600 ingegneri ricercatori che lavorano in ELASIS a Pomigliano. Se mancano questi elementi, sarà sempre più difficile per la FIAT mantenere i suoi impianti, così come sarà impossibile puntare sull’emersione di quel diffuso tessuto di piccole e medie imprese presenti nell’area. Meno che mai sarà possibile la loro proiezione sui mercati internazionali.
Probabilmente dobbiamo tutti accedere ad una idea di sviluppo territoriale che non può essere settorializzata; probabilmente dobbiamo pensare alla competitività territoriale come il risultato-prodotto della cooperazione e della collaborazione tra i molteplici soggetti pubblici e privati che esercitano funzioni e poteri nel medesimo contesto territoriale.
Questo è stato un altro generoso tentativo dei Patti Territoriali. Alcune esperienze considerate buone prassi testimoniano che la coesione sociale e la coalizione istituzionale tra i comuni di un medesimo Sistema Locale sono un potente fattore di competitività. Ma ho la sensazione che neanche questo si riesca a portare a valore in modo soddisfacente.
In estrema sintesi: la vera risorsa è il territorio, nella sua caratteristica sistemica di soggetto produttore complesso e il capitale sociale è il lievito indispensabile alla sua crescita.
 
Quali sono i soggetti e i settori della competizione?
Capisco l’accanimento a misurare la competizione tra i settori, ma credo che oggi all’ordine del giorno vi sia la competizione tra Sistemi Territoriali su diversa scala: locali, regionali, nazionali, mondiali.
In questo scenario considero il Sistema Locale di Sviluppo come prima cellula su cui fondare i sistemi sovralocali; come unità minima di programmazione alla cui dimensione sia possibile esplorare la complessità (produttiva, sociale, ambientale, economica, culturale) che caratterizza il nostro tempo e accompagnare questo vitalismo verso esiti non dissolutivi, ma piuttosto coesivi e competitivi. Un primo contestato tentativo di questo genere si è fatto nell’area del Miglio d’Oro, dove si è provato a considerare l’insieme dei valori materiali e immateriali dell’area come un microsistema territoriale autonomo, capace di accedere alle risorse esogene facendo leva innanzitutto sulle proprie risorse. Sappiamo tutti come è andata.



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