Qual è il presumibile impatto della globalizzazione sul
Mezzogiorno?
Perché non parliamo dell’impatto che può avere il
Mezzogiorno nella globalizzazione?
Se è vero – come è vero – che il nostro territorio
dispone di valori e risorse uniche al mondo, il problema che dobbiamo porci è come
immettere le nostre risorse nelle dinamiche del mercato globale.
Il futuro del Mezzogiorno è nella sua capacità integrarsi
senza omologarsi ai modelli che attualmente sembrano dominare il processo di
globalizzazione.
L’unificazione europea potrebbe aiutarci, se fossimo in
grado di coglierne appieno la portata.
Quel che maggiormente mi preoccupa è un atteggiamento
supino, rassegnato e di difesa rispetto all’"inevitabile dominio"
della globalizzazione.
La globalizzazione ha causato e combinato i suoi effetti con
la crisi del fordismo; per dirla in breve, ha dilatato gli spazi dell’agire
umano in ogni campo (produttivo, commerciale, culturale) ed ha molecolarizzato
i luoghi di produzione; l’esplosione del lavoro autonomo è uno degli effetti.
Ora, poiché nel Mezzogiorno non si è mai compiuto il
processo di industrializzazione, - se non limitatamente ad alcune aree – forse
abbiamo maggiori vantaggi nel passaggio alla civiltà post-industriale.
Paradossalmente abbiamo maggiori chances rispetto a
territori più industrializzati, perché disponiamo già di un tessuto
produttivo molecolare, di una pluralità di soggetti e di risorse che potrebbero
avvantaggiarsi delle opportunità della globalizzazione; e nelle nostre stesse
condizioni c’è tanta parte del vecchio continente, per questo l’unificazione
europea può essere di grande aiuto per il Mezzogiorno. Si tratta di fare massa
critica con tanta parte dell’Europa che vive i nostri stessi problemi, per
far valere le ragioni di uno sviluppo inclusivo e socialmente
sostenibile.
Questa traccia di lavoro non è solo dettata dalla
sensibilità sociale, ma anche da considerazioni di tipo economico e politico.
Il mercato globale ha bisogno di nuovi prodotti di cui alimentarsi;
diversamente, la scarsità di offerta spingerà sempre più verso la rapina dei
più deboli e, prima o poi, determinerà anche conflitti tra i più forti.
Il nostro problema è qualificare l’offerta di beni e
servizi per renderli spendibili sul mercato globale. Anche questo
problema rinvia al concetto di "competitività territoriale" su cui
tornerò tra breve.
Alla luce anche degli interventi polemici di Latouche,
ritiene che un possibile "vantaggio competitivo" del Mezzogiorno
consista nella multietnicità e nel suo rapporto con il Sud della Terra?
Certamente si, ma si tratta di una potenzialità tutta da
sperimentare e sviluppare.
Le pluri-identità e la multietnicità fanno del Mezzogiorno
un laboratorio operativo ottimale, per sperimentare la sostenibilità della
globalizzazione e la possibilità di affermare un diverso modello di sviluppo e
di equilibrio mondiale. Provo a spiegarmi meglio…
Sinora l’economia dei paesi industrializzati ha imposto le
sue leggi fondate sul massimo profitto monetario e sulla competizione selvaggia.
Già da qualche tempo si comincia a fare i conti con la limitatezza delle
risorse naturali e con la insostenibilità di un modello di sviluppo che aumenta
le distanze tra "inclusi" ed "esclusi". La distanza non c’è
solo tra Paesi ricchi e Paesi poveri, ma all’interno degli stessi Paesi
industrializzati, aumenta il divario tra aree geografiche e tra comunità
appartenenti alla stessa nazione. La globalizzazione selvaggia determina nuove
forme di conflitto tra esclusi e inclusi. Per certi versi, l’esodo dei poveri
verso l’immagine di benessere (l’immigrazione) è un conflitto sordo, lento,
ma non per questo privo di vittime e problemi, per gli emigrati e per i paesi
che li ricevono.
Quel che mi è parso di capire, anche dopo l’11 settembre,
è che dobbiamo rapidamente archiviare quella polemica verbosa e inconcludente
con cui si contrappone locale e globale; essa mi sembra del tutto
superata dal fatto che non si può parlare di sviluppo locale se non commisurato
allo scenario globale, così come la globalizzazione senza sviluppo locale
rischia di creare esclusione, conflitti, e, nel peggiore dei casi, guerre.
Si può parlare di una competitività del territorio? Come la
si può garantire per il Mezzogiorno?
Si, a mio parere si può parlare di competitività
territoriale, ma dobbiamo bene intenderci sul concetto di competitività e di
sviluppo.
Un territorio è competitivo quando è in grado di offrire
beni e servizi fruibili e godibili secondo i parametri del nostro tempo e della
nostra civiltà.
La capacità di attrarre risorse o di esportare prodotti
dipende sempre più da una molteplicità di fattori interrelati che in un’unica
espressione riassumo come la qualità del contesto.
Non è competitivo un territorio che ha suolo, aria ed acqua
inquinati, né ci si può illudere di renderlo attrattivo con i regimi di aiuti
alle imprese. L’industrializzazione forzata si è rivelata un disastro: le
aree meridionali sono disseminate di capannoni che oggi riconosciamo con la
particella ex (ex Colussi, ex Doria, ex SEVEL, ex Mulini Marzoli, ex
Saint Goben,…ex Italsider).
La vera impresa non ha bisogno di aiuti, ha bisogno di un
ambiente pervio, in cui funzionino la pubblica amministrazione, i servizi, la
vita sociale, in cui vi sia convivenza civile e sicurezza. Di questo credo che
abbiamo bisogno: ad esempio,dei 600 ingegneri ricercatori che lavorano in ELASIS
a Pomigliano. Se mancano questi elementi, sarà sempre più difficile per la
FIAT mantenere i suoi impianti, così come sarà impossibile puntare sull’emersione
di quel diffuso tessuto di piccole e medie imprese presenti nell’area. Meno
che mai sarà possibile la loro proiezione sui mercati internazionali.
Probabilmente dobbiamo tutti accedere ad una idea di sviluppo
territoriale che non può essere settorializzata; probabilmente dobbiamo
pensare alla competitività territoriale come il risultato-prodotto della
cooperazione e della collaborazione tra i molteplici soggetti pubblici e privati
che esercitano funzioni e poteri nel medesimo contesto territoriale.
Questo è stato un altro generoso tentativo dei Patti
Territoriali. Alcune esperienze considerate buone prassi testimoniano che
la coesione sociale e la coalizione istituzionale tra i comuni di
un medesimo Sistema Locale sono un potente fattore di competitività. Ma ho la
sensazione che neanche questo si riesca a portare a valore in modo
soddisfacente.
In estrema sintesi: la vera risorsa è il territorio, nella
sua caratteristica sistemica di soggetto produttore complesso e il capitale
sociale è il lievito indispensabile alla sua crescita.
Quali sono i soggetti e i settori della competizione?
Capisco l’accanimento a misurare la competizione tra i
settori, ma credo che oggi all’ordine del giorno vi sia la competizione tra
Sistemi Territoriali su diversa scala: locali, regionali, nazionali, mondiali.
In questo scenario considero il Sistema Locale di Sviluppo
come prima cellula su cui fondare i sistemi sovralocali; come unità minima
di programmazione alla cui dimensione sia possibile esplorare la
complessità (produttiva, sociale, ambientale, economica, culturale) che
caratterizza il nostro tempo e accompagnare questo vitalismo verso esiti non
dissolutivi, ma piuttosto coesivi e competitivi. Un primo contestato tentativo
di questo genere si è fatto nell’area del Miglio d’Oro, dove si è provato
a considerare l’insieme dei valori materiali e immateriali dell’area come un
microsistema territoriale autonomo, capace di accedere alle risorse
esogene facendo leva innanzitutto sulle proprie risorse. Sappiamo tutti come è
andata.