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Identità e sistemi locali di sviluppo

di Pasquale Iorio e Maria Paradiso


Intorno ai sistemi locali di sviluppo nel Mezzogiorno si è risvegliato un forte interesse, anche a seguito delle novità e dei cambiamenti in atto nelle varie realtà territoriali e regionali (vedi il recente saggio di G. Viesti, Il Mulino, n° 4/2001).
Negli ultimi mesi si è anche rianimato un vivace dibattito sui nuovi termini della questione meridionale, con una ricca produzione di studi e ricerche. A riguardo è utile ricordare la calzante definizione – adottata da Piero Bevilacqua nel suo saggio introduttivo al nutrito Dossier del mensile "L’Indice" (novembre 2000) – di "Mezzogiorno plurale", di una realtà sociale varia, non riconducibile a un tradizionale "dualismo", a un uniforme e depresso profilo fatto di divario e arretratezza rispetto al resto del Paese.
In questo contesto il riferimento alle molteplici "identità" di carattere storico, culturale, antropologico non va considerato come un residuo del passato, come elemento di conservazione o arretratezza. Esse possono anzi diventare fattori di dinamismo (come un valore aggiunto), se collegate alle straordinarie opportunità che offrono le nuove tecnologie della comunicazione. Infatti, i sistemi locali di produzione (fondati su nicchie di specializzazione e prodotti tradizionali ma di qualità) possono affermarsi nell’economia globale, grazie alla possibilità di superare i vincoli di spazio e di tempo del passato.
Anche il tasso di disoccupazione (in alcune regioni ancora record sul piano nazionale ed europeo) non va più visto come una sorta di dannazione sociale, fonte di squilibri e emarginazione, ma può rappresentare un vero e proprio giacimento di risorse umane e giovanili qualificate.
Nel quadro del piano d’azione E-Europa diventano sempre più decisive le politiche territoriali di innovazione e di valorizzazione delle persone con azioni mirate a:
- piani e patti formativi;
-diffusione della cultura d’innovazione e d’impresa;
A tal fine appare esemplare il Programma Operativo (sulla base di un Protocollo d’intesa con le parti sociali) con appositi Centri di competenza, attivati dalla Giunta Regionale della Campania, che ha anche promosso un Programma d’azione comune sulle tematiche della ricerca e dell’innovazione tra il MIUR e le regioni dell’Obiettivo 1 (in ritardo di sviluppo).
Le riforme avviate in tutto il sistema educativo e formativo del nostro Paese (con la scuola dell’autonomia e i nuovi corsi di laurea) si fondano su una maggiore integrazione funzionale tra le istituzioni (e le agenzie) dell’offerta formativa e un più stretto raccordo con il mondo del lavoro: ruolo degli enti bilaterali e di un rinnovato paternariato sociale per definire piani e progetti formativi (che vanno contrattati nelle imprese e a livello territoriale) sulla base di analisi, indagini delle esigenze di competenze e professionalità dei contesti locali, delle imprese (fabbisogni formativi per figure emergenti, come i cosiddetti "lavoratori della conoscenza").
Il punto più critico che va superato nelle regioni del Mezzogiorno (e non solo) riguarda il gap nella dotazione di reti e "infrastrutture immateriali" per la produzione di sapere e di conoscenza (che rimane la missione fondamentale dell’educazione a tutti i livelli), nonché di ricerca di base e di alta formazione, sulla base di processi di diffusione delle innovazioni e di trasferimento tecnologico dai centri di ricerca e dalle Università alle imprese (soprattutto a quelle di piccole dimensioni, che costituiscono l’ossatura portante del nostro sistema produttivo.
Come è stato sostenuto di recente in un Forum promosso da Sviluppo Italia e da "Il Mattino" tale obiettivo può essere raggiunto attraverso due condizioni:

  1. – stimolare la domanda sociale (con capitale di rischio e finanziario adeguato nelle imprese, ma anche da parte della pubblica amministrazione) a sostegno di progetti per produzioni innovative e per l’economia della conoscenza a livello locale;
  2. – costituire dei veri e propri "intermediari" in grado di creare sinergie e reti tra Università, centri di ricerca avanzata ed applicata, imprese ed istituzioni nel territorio (emblematico è il caso di Catania), con la creazione di Parchi Tecnologici, di Centri di eccellenza per produrre spin off (come nel caso dell’Università del Sannio), di incubatori, di vere e proprie Agenzie locali e regionali per lo sviluppo (come hanno fatto alcuni paesi europei, come l’Irlanda, la Scozia ecc.).
Oggi comincia a essere un’acquisizione diffusa l’idea che la competitività si gioca sempre di più sul territorio (oltre che nella capacità di investire in innovazione da parte delle imprese e della PA) con "esternalità" di tipo infrastrutturale, soprattutto di reti per la formazione, comunicazione, servizi reali e di terziario avanzato, di marketing ed internazionalizzazione dei prodotti e delle merci, di sicurezza ambientale, di cultura e tempo libero. Insomma, diventa decisiva la dotazione di un territorio di "beni relazionali" in grado di integrare la realtà locale con quella esterna. Sono questi fattori che possono rendere i vari sistemi locali di produzione più capaci di attrazione verso investimenti internazionali e nei confronti dei centri decisionali (i cosiddetti "poteri forti" dell’economia) che contano nei circuiti nazionali e mondiali, per far crescere relazioni tra produzioni e servizi qualificati all’interno dei territori.
Nella nuova programmazione per Agenda 2000 vi sono ingenti risorse (nazionali e comunitarie) per lo sviluppo locale e per l’innovazione dei sistemi di produzione, anche con strumenti amministrativi per evolvere verso la cultura dei "Distretti Industriali", che nel Sud non possono crescere per "imitazione" né per "esportazione" dei modelli del Made in Italy del Centro-Nord. E neppure si può pensare di realizzarli con meri atti burocratici e amministrativi, come è avvenuto finora in Campania, con la legge regionale che istituisce 7 distretti industriali in ambiti geografici ed economici molto opinabili.



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