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Diritto allo studio ed al sapere:

una questione di sinistra

di Vincenzo Orsomarso


Il diritto allo studio ed al sapere è sempre stato uno dei temi centrali dell’iniziativa della sinistra e recentemente anche dei governi di centrosinistra che hanno prodotto un considerevole pacchetto di riforme per la verità ampiamente contestato e non sempre per ragioni riconducibili a istanze corporative; tant’è vero che il governo del Cavaliere, per mano della Moratti, ha potuto accantonare, senza trovare particolare opposizione tra gli insegnanti e gli studenti, il discusso riordino dei cicli per approntare un progetto così avanzato da ricordare il sistema scolastico precedente la riforma della scuola media unica, ma di questo parleremo tra poco.
Di sapere e istruzione non potevano non occuparsi le mozioni presentate durante la campagna congressuale di Ds; nel caso della mozione Fassino si è trattato di affermazioni per lo più generiche affogate in un documento < < interessato> > a sfidare il centrodestra sulla capacità di leggere i cambiamenti e di adottare una più efficace strategia per < < guidarli> > , ma in quale direzione non è dato saperlo. O meglio è facile immaginarlo se si considera che alla < < necessità> > del socialismo, che ha caratterizzato l’ideologia della destra comunista, è stata sostituita l’ineluttabilità della globalizzazione liberista, magari temperata in qualche suo aspetto.
Per la componente di centrosinistra dei Ds l’istruzione, la ricerca, la formazione, il sapere sono gli imperativi di una moderna politica del lavoro; se la rivoluzione informatica sta radicalmente cambiando l’universo del lavoro la dotazione di capitale umano con elevati livelli di formazione è il fattore discriminante.
Il testo non si ferma a queste affermazioni ma assume la centralità del valore sociale del lavoro, tant’è che si propone si sostituire "flessibilità" con " versatilità", concepita, quest’ultima, come capacità del mondo dei lavori di padroneggiare i cambiamenti, di variare il programma, le aspettative, i temi del lavoro e della vita, come disponibilità di conoscenze in grado di governare l’innovazione tecnologica. Il sapere viene assunto a leva di cambiamento ma dal punto di vista dei produttori. Un’assunzione che implica una rivisitazione critica almeno di alcune scelte fatte in materia scolastica e formativa dal centrosinistra. Si pensi in primo luogo alla legge di parità che ha aperto di fatto la strada alla politica di privatizzazione della scuola e al proposito di mettere in discussione il ruolo nazionale dell’istruzione pubblica attraverso la regionalizzazione. Altrettanto grave risulta la riduzione a sette anni della scuola di base e la conseguente anticipazione della scelta della scuola secondaria, tutto questo in mancanza dell’avvio di un sistema di formazione continua; per non parlare dell’espletamento dell’obbligo formativo nella formazione professionale e nell’apprendistato. Scelte che esprimono un’idea della politica più che altro come aderenza all’esistente, ad un processo di accumulazione governato da logiche liberiste portatrici di un’idea di formazione ritagliata sui bisogni dell’impresa e del mercato.
Detto questo oggi dobbiamo però confrontarci con quanto il governo di destra prepara in materia di istruzione: si profila una vera e propria devastazione del sistema pubblico, nonostante gli aggiustamenti che forse verranno apportati all’ Ipotesi di Giuseppe Bertagna, messa in discussione dalle proteste del movimento degli studenti. La sostanza non cambia, permane la volontà di ridurre in modo considerevole le ore di lezione e di favorire una sorta di esternalizzazione di attività in precedenza svolte nelle scuole, ricorrendo ad appositi incentivi ed interventi a favore delle imprese che si occupano di formazione.
Un progetto che, sulla base dello smantellamento della scuola pubblica, intende avviare la costruzione di una rete di scuole private, doppiamente finanziate, dallo stato e dalle famiglie, e articolata in diplomifici e pochi e costosi < < Centri di eccellenza> > .
Una scuola pubblica, per i più, ridotta all’osso e una università e una formazione superiore chiamata ad accertare rigidamente i livelli di competenza in entrata degli studenti.
Per quanto riguarda la Formazione Superiore, sbocco naturale dei diplomati della formazione secondaria, non possiamo certo parlare di novità. Già da alcuni anni i governi di centrosinistra hanno introdotto l’istruzione e formazione tecnico-superiore (I.F.T.S.), assunta però a segmento di un sistema di formazione continua da costruire e aperto al mondo del lavoro e delle professioni; l’originalità - se così possiamo dire ma è troppo - dell’ipotesi Moratti risiede nell’aver trasformato l’I.F.T.S. in sede di specializzazione per i diplomati delle scuole di serie B o C, cioè della formazione secondaria, a tempo pieno o in alternanza scuola/lavoro (la vecchia formazione professionale regionale), completamente appiattita su ipotetiche richieste di mercato. Tutto questo mentre il rapido mutare del quadro tecnico e organizzativo rende ardua la permanenza sul mercato del lavoro di figure professionali molto specifiche e impone il potenziamento della formazione di base e generale su cui impiantare una professionalità da rinnovare o riqualificare alla luce delle dinamiche che caratterizzano il lavoro postfordista. Un’esigenza a cui è necessario rispondere attraverso quel sistema di educazione permanente completamente ignorato dalla Moratti e dal codazzo di pedagogisti al seguito.
La formazione per questi signori va pagata, soprattutto se serve per lavorare e oggi senza di essa si è esclusi dai processi produttivi.
E’ del tutto evidente che da questo punto di vista la questione ritorna ad essere quella di una sinistra politica i cui contenuti vanno ridefiniti anche sul terreno dell’istruzione e della formazione, a partire dalla difesa della scuola pubblica quale luogo di libero confronto di idee e non espressione di enclave religiose e ideologiche.
Va riaffermato allo stesso tempo il diritto allo studio, quindi la lotta allo svantaggio e alla dispersione scolastica, questioni che riguardano in primo luogo il Mezzogiorno. Si tratta di scelte antitetiche a quelle di una destra interessata ad attribuire un ruolo preminente al privato, soprattutto nella formazione delle élites, e a destinare gran parte dei giovani ad un nuovo avviamento professionale e a concedere qualche attenzione caritatevole agli emarginati.
Sembra emergere un paradosso: il lavoro postfordista si specifica per una produzione sempre più intessuta di attività linguistiche comunicative, mentali e cognitive e si va affermando un modello di accumulazione sempre più strutturato sulla capacità di appropriazione e messa al lavoro dell’intelligenza collettiva, del sapere diffuso. Tutto questo mentre la destra si avvia ad affidare alla scuola la funzione di registrazione e approfondimento delle differenze culturali e sociali, assolutamente incurante della dispersione delle risorse umane.
Va precisato che un’istituzione educativa e formativa tutt’altro che interessata ad attenuare i persistenti meccanismi di selezione non è in contraddizione con un’organizzazione della produzione dove persistono un numero considerevole di lavori dequalificati, servili, riservati agli esclusi dai circuiti della produzione materiale e immateriale, dalla formazione, dall’acquisizione di competenze e abilità. E’ l’altra faccia del postfordismo, tutt’altro che residuale soprattutto in un paese come il nostro dove il sistema delle imprese ha dimostrato disinteresse per l’innovazione di prodotto ed è attardato in una competizione centrata sulla riduzione del costo del lavoro.
Un complesso di contraddizioni all’interno delle quali può incunearsi anche un’idea di scuola unitaria quale luogo di riflessione, approfondimento, ricerca. Un progetto che richiede ben altro obbligo scolastico rispetto a quello fissato dallo stesso centrosinistra, da assumere a segmento rilevante di un più complesso sistema di educazione permanente, in grado di offrire, nell’arco dell’esistenza di un individuo, una serie di opportunità educative che non possono essere ricondotte, per quanto riguarda gli adulti, al recupero e all’aggiornamento professionale, ma vanno concepite anche come momenti di crescita culturale, di acquisizione di un sapere polivalente, linguistico e operativo, che sono i presupposti di apprendimenti nuovi e in evoluzione.
Perché non pensare quindi al diritto allo studio e al sapere come diritto inalienabile, come componente del reddito di cittadinanza? Può essere diversamente in una società dove la conoscenza è fattore centrale di integrazione, di crescita anche economica e la non conoscenza un fattore di esclusione?
Infine, in presenza di una strisciante tendenza a trasformare la scuola in talk show, in un sistema educativo disponibile ad assumere ogni opinione di cui sono portatori i soggetti in formazione senza proporre una qualche rivisitazione dei punti di vista espressi, per produrre individui aperti a tutte le pressioni consumistiche e adattabili al mutare degli imperativi aziendali, non è il caso di ripensare la scuola a partire da un’idea di istruzione e di educazione sottratta alle logiche dell’impresa e del mercato e centrata sui termini che possono consentire all’istituzione di suscitare un punto di vista critico?
Questioni di sinistra quindi, per una sinistra impegnata a riconquistare un’idea di società altra e non ferma al "buon governo" dell’esistente.



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