Il diritto allo studio ed al sapere è sempre stato uno dei
temi centrali dell’iniziativa della sinistra e recentemente anche dei governi
di centrosinistra che hanno prodotto un considerevole pacchetto di riforme per
la verità ampiamente contestato e non sempre per ragioni riconducibili a
istanze corporative; tant’è vero che il governo del Cavaliere, per mano della
Moratti, ha potuto accantonare, senza trovare particolare opposizione tra gli
insegnanti e gli studenti, il discusso riordino dei cicli per approntare un
progetto così avanzato da ricordare il sistema scolastico precedente la riforma
della scuola media unica, ma di questo parleremo tra poco.
Di sapere e istruzione non potevano non occuparsi le mozioni
presentate durante la campagna congressuale di Ds; nel caso della mozione
Fassino si è trattato di affermazioni per lo più generiche affogate in un
documento < <
interessato> > a
sfidare il centrodestra sulla capacità di leggere i cambiamenti e di adottare
una più efficace strategia per < <
guidarli> > , ma in
quale direzione non è dato saperlo. O meglio è facile immaginarlo se si
considera che alla < <
necessità> > del
socialismo, che ha caratterizzato l’ideologia della destra comunista, è stata
sostituita l’ineluttabilità della globalizzazione liberista, magari temperata
in qualche suo aspetto.
Per la componente di centrosinistra dei Ds l’istruzione, la
ricerca, la formazione, il sapere sono gli imperativi di una moderna politica
del lavoro; se la rivoluzione informatica sta radicalmente cambiando l’universo
del lavoro la dotazione di capitale umano con elevati livelli di formazione è
il fattore discriminante.
Il testo non si ferma a queste affermazioni ma assume la
centralità del valore sociale del lavoro, tant’è che si propone si
sostituire "flessibilità" con " versatilità", concepita,
quest’ultima, come capacità del mondo dei lavori di padroneggiare i
cambiamenti, di variare il programma, le aspettative, i temi del lavoro e della
vita, come disponibilità di conoscenze in grado di governare l’innovazione
tecnologica. Il sapere viene assunto a leva di cambiamento ma dal punto di vista
dei produttori. Un’assunzione che implica una rivisitazione critica almeno di
alcune scelte fatte in materia scolastica e formativa dal centrosinistra. Si
pensi in primo luogo alla legge di parità che ha aperto di fatto la strada alla
politica di privatizzazione della scuola e al proposito di mettere in
discussione il ruolo nazionale dell’istruzione pubblica attraverso la
regionalizzazione. Altrettanto grave risulta la riduzione a sette anni della
scuola di base e la conseguente anticipazione della scelta della scuola
secondaria, tutto questo in mancanza dell’avvio di un sistema di formazione
continua; per non parlare dell’espletamento dell’obbligo formativo nella
formazione professionale e nell’apprendistato. Scelte che esprimono un’idea
della politica più che altro come aderenza all’esistente, ad un processo di
accumulazione governato da logiche liberiste portatrici di un’idea di
formazione ritagliata sui bisogni dell’impresa e del mercato.
Detto questo oggi dobbiamo però confrontarci con quanto il
governo di destra prepara in materia di istruzione: si profila una vera e
propria devastazione del sistema pubblico, nonostante gli aggiustamenti che
forse verranno apportati all’ Ipotesi di Giuseppe Bertagna, messa in
discussione dalle proteste del movimento degli studenti. La sostanza non cambia,
permane la volontà di ridurre in modo considerevole le ore di lezione e di
favorire una sorta di esternalizzazione di attività in precedenza svolte nelle
scuole, ricorrendo ad appositi incentivi ed interventi a favore delle imprese
che si occupano di formazione.
Un progetto che, sulla base dello smantellamento della scuola
pubblica, intende avviare la costruzione di una rete di scuole private,
doppiamente finanziate, dallo stato e dalle famiglie, e articolata in
diplomifici e pochi e costosi < <
Centri di eccellenza> >
.
Una scuola pubblica, per i più, ridotta all’osso e una
università e una formazione superiore chiamata ad accertare rigidamente i
livelli di competenza in entrata degli studenti.
Per quanto riguarda la Formazione Superiore, sbocco naturale
dei diplomati della formazione secondaria, non possiamo certo parlare di
novità. Già da alcuni anni i governi di centrosinistra hanno introdotto l’istruzione
e formazione tecnico-superiore (I.F.T.S.), assunta però a segmento di un
sistema di formazione continua da costruire e aperto al mondo del lavoro e delle
professioni; l’originalità - se così possiamo dire ma è troppo - dell’ipotesi
Moratti risiede nell’aver trasformato l’I.F.T.S. in sede di specializzazione
per i diplomati delle scuole di serie B o C, cioè della formazione secondaria,
a tempo pieno o in alternanza scuola/lavoro (la vecchia formazione professionale
regionale), completamente appiattita su ipotetiche richieste di mercato. Tutto
questo mentre il rapido mutare del quadro tecnico e organizzativo rende ardua la
permanenza sul mercato del lavoro di figure professionali molto specifiche e
impone il potenziamento della formazione di base e generale su cui impiantare
una professionalità da rinnovare o riqualificare alla luce delle dinamiche che
caratterizzano il lavoro postfordista. Un’esigenza a cui è necessario
rispondere attraverso quel sistema di educazione permanente completamente
ignorato dalla Moratti e dal codazzo di pedagogisti al seguito.
La formazione per questi signori va pagata, soprattutto se
serve per lavorare e oggi senza di essa si è esclusi dai processi produttivi.
E’ del tutto evidente che da questo punto di vista la
questione ritorna ad essere quella di una sinistra politica i cui contenuti
vanno ridefiniti anche sul terreno dell’istruzione e della formazione, a
partire dalla difesa della scuola pubblica quale luogo di libero confronto di
idee e non espressione di enclave religiose e ideologiche.
Va riaffermato allo stesso tempo il diritto allo studio,
quindi la lotta allo svantaggio e alla dispersione scolastica, questioni che
riguardano in primo luogo il Mezzogiorno. Si tratta di scelte antitetiche a
quelle di una destra interessata ad attribuire un ruolo preminente al privato,
soprattutto nella formazione delle élites, e a destinare gran parte dei giovani
ad un nuovo avviamento professionale e a concedere qualche attenzione
caritatevole agli emarginati.
Sembra emergere un paradosso: il lavoro postfordista si
specifica per una produzione sempre più intessuta di attività linguistiche
comunicative, mentali e cognitive e si va affermando un modello di accumulazione
sempre più strutturato sulla capacità di appropriazione e messa al lavoro dell’intelligenza
collettiva, del sapere diffuso. Tutto questo mentre la destra si avvia ad
affidare alla scuola la funzione di registrazione e approfondimento delle
differenze culturali e sociali, assolutamente incurante della dispersione delle
risorse umane.
Va precisato che un’istituzione educativa e formativa tutt’altro
che interessata ad attenuare i persistenti meccanismi di selezione non è in
contraddizione con un’organizzazione della produzione dove persistono un
numero considerevole di lavori dequalificati, servili, riservati agli esclusi
dai circuiti della produzione materiale e immateriale, dalla formazione, dall’acquisizione
di competenze e abilità. E’ l’altra faccia del postfordismo, tutt’altro
che residuale soprattutto in un paese come il nostro dove il sistema delle
imprese ha dimostrato disinteresse per l’innovazione di prodotto ed è
attardato in una competizione centrata sulla riduzione del costo del lavoro.
Un complesso di contraddizioni all’interno delle quali può
incunearsi anche un’idea di scuola unitaria quale luogo di riflessione,
approfondimento, ricerca. Un progetto che richiede ben altro obbligo scolastico
rispetto a quello fissato dallo stesso centrosinistra, da assumere a segmento
rilevante di un più complesso sistema di educazione permanente, in grado di
offrire, nell’arco dell’esistenza di un individuo, una serie di opportunità
educative che non possono essere ricondotte, per quanto riguarda gli adulti, al
recupero e all’aggiornamento professionale, ma vanno concepite anche come
momenti di crescita culturale, di acquisizione di un sapere polivalente,
linguistico e operativo, che sono i presupposti di apprendimenti nuovi e in
evoluzione.
Perché non pensare quindi al diritto allo studio e al sapere
come diritto inalienabile, come componente del reddito di cittadinanza? Può
essere diversamente in una società dove la conoscenza è fattore centrale di
integrazione, di crescita anche economica e la non conoscenza un fattore di
esclusione?
Infine, in presenza di una strisciante tendenza a trasformare
la scuola in talk show, in un sistema educativo disponibile ad assumere ogni
opinione di cui sono portatori i soggetti in formazione senza proporre una
qualche rivisitazione dei punti di vista espressi, per produrre individui aperti
a tutte le pressioni consumistiche e adattabili al mutare degli imperativi
aziendali, non è il caso di ripensare la scuola a partire da un’idea di
istruzione e di educazione sottratta alle logiche dell’impresa e del mercato e
centrata sui termini che possono consentire all’istituzione di suscitare un
punto di vista critico?
Questioni di sinistra quindi, per una sinistra impegnata a
riconquistare un’idea di società altra e non ferma al "buon
governo" dell’esistente.