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Filo Rosso 2001

Qualità della vita nel Campus di Arcavacata: dalla piazza al ponte

di Osvaldo Pieroni*


In accordo ed in disaccordo ho seguito le vicende di "Filo Rosso" sin dalla nascita, nel dicembre del 1995. Più entusiasta e partecipante all’inizio, quando l’effervescenza e l’ingenuità (mi riferisco alla spontanea freschezza) dello "statu nascenti" erano il carattere principale. Meno in seguito, quando di tanto in tanto apparivano ai miei occhi certe rigidità, a volte anche ideologiche, e un qualche surplus di autoreferenzialità. Mi preme porre l’accento su di un fattore che è stato e dovrebbe essere ancora centrale in questa avventura: il riferimento alla qualità della vita. Benché non sia facile definire oggettivamente cosa si intenda per qualità della vita, mi sembra importante riconoscere la centralità di questo tema in costante rapporto con:

"Chiedete a qualcuno come gli piacerebbe vivere – scriveva Kevin Lynch - di solito la risposta è ricca di dettagli spaziali. Le influenze etiche vanno dal luogo all’uomo, o viceversa; il nostro concetto di ciò che è giusto deriva tanto dalla natura delle cose che ci circondano, quanto dalla nostra stessa natura" (Progettare la città, Etas Libri, Milano, 1996, p. 302). Progettare una città o ri-progettarla di continuo non è soltanto un fatto tecnico, ma implica problemi di natura etica. La questione della qualità della vita in uno spazio definito, con una sua storia e con prospettive di evoluzione, è essenzialmente un fatto normativo. Ma "i giudizi di valore diventano pericolosi quando non vengono esplicitati" (ibid., p. 1).
Mi sembra allora che la questione della qualità della vita contenga un nocciolo ineliminabile che riguarda il processo interattivo e positivamente conflittuale attraverso il quale prende forma in primo luogo la definizione della qualità stessa della vita e, parallelamente, della vita tout court, la quale – per ciò che riguarda noi umani – avviene in un tempo limitato e in uno spazio situato. In altri termini il problema della qualità della vita è in primo luogo un problema di definizione e in questo riguarda ciò che potremmo definire come "rapporti sociali di definizione", parafrasando l’espressione di Marx "rapporti sociali di produzione". La prima domanda, allora, è: come e in che mondo vogliono vivere?
Da questo punto di vista la questione può essere posta in termini di democrazia, di inclusione/esclusione e di riconoscimento.
Il tema del riconoscimento mi è sembrato essere l’oggetto del contendere sin dall’inizio dell’esperienza di "Filo Rosso". Un tema di grande rilievo nell’ambito delle nostre società "multiculturali", che ci rimanda alle originarie formulazioni di Hegel. Fiducia, stima e solidarietà sono le differenti forme – strettamente connesse – del riconoscimento. Seguo schematicamente la tripartizione di Axel Honneth. La fiducia (in sé stessi) implica in primo luogo l'integrità fisica di una persona. La stima (di sé) implica il riconoscimento giuridico e della dignità morale della propria azione. La solidarietà implica che i modi di vita di una persona o di un gruppo abbiano riconoscimento della loro dignità sociale e siano accettati come legittimi. E’ il riconoscimento pubblico del valore della propria forma di vita, che si basa su di un "rapporto di approvazione solidale verso stili di vita alternativi". Le tre forme, nel loro insieme, costituiscono un punto di vista morale ed implicano "doveri" reciproci.
Quale spazio sociale e nel contempo fisico, ambientale (che consenta interazione e pratica discorsiva) è allora disponibile per pratiche di riconoscimento?
La domanda implicita nel titolo di questo intervento (che mi è stato, sia detto con benevolenza, "brutalmente" imposto), ovvero "Ponte o piazza?" – come secca alternativa – riguarda due modi di porsi la questione del rapporto tra spazio e qualità della vita, tra struttura istituzionale della università, funzioni "di servizio" all’utenza e soggettività degli studenti (che non si sentono soltanto utenti, ma che vogliono vivere un periodo preciso della loro esistenza in un luogo altrettanto preciso). La soggettività riguarda il problema del riconoscimento e della democrazia, come fatto pratico, localizzato in un ambito sociale e culturale.
Metaforicamente la piazza indica uno spazio pubblico informale, luogo espressivo di formazione discorsiva della democrazia. Il ponte – almeno mi sembra – richiama invece una struttura funzionale, fortemente inquadrata al fine di assolvere in modo efficiente ed efficace fini strumentali. Se la "missione" della Università non è soltanto di fornire un titolo professionalizzante che si adatti passivamente alla domanda di mercato, ma anche di favorire la formazione di cittadini dotati di senso critico e capaci di produrre mutamento, allora credo che le due metafore non possano essere ragionevolmente poste in termini di aut-aut, quanto piuttosto vadano viste in termini di e...e... Ciò non implica una soluzione falsamente pacificatrice e stabile di compromesso, quanto piuttosto il mantenimento di una tensione – anche conflittuale – tra i due poli. In breve il nostro problema sarebbe così formulato: come far entrare la piazza nel ponte e, di converso, come potrà la piazza contenere il ponte. Il concetto di tensione spiega il senso del "con-tenere" come "tenere insieme" che è animato da un sano conflitto.
Ciò che segue sono mie interpretazioni (e non certamente la voce o le voci di "Filo Rosso"). Dopo un documento dal titolo "Reprimere o educare" scrivevo un altro commento intitolato "Stelle comete, legalità e responsabilità. Un contributo soggettivo alla riflessione aperta dal documento «Reprimere o educare?»". Credo che gli aspetti che allora rilevavo, raccontando la prima esperienza dell’occupazione di uno "spazio sociale autogestito", vadano continuamente valutati e rivalutati. L’operazione non consiste in una sorta di autocelebrativo (e magari sconsolato) "come eravamo". Si tratta invece di riflettere su se stessi, di misurare la distanza da allora (senza complessi di Peter Pan: non si resta ragazzi per sempre), di correggersi eventualmente e di raccontare questa storia non solo ai "nuovi arrivati" e agli altri, ma – nel confronto con questi – ancora una volta a se stessi. Era la fine del gennaio del 1996:  
"Durante le prime settimane di dicembre un gruppo di studenti che aveva partecipato all'occupazione, decideva - nei fatti- di costituirsi in un’associazione aperta, che veniva chiamata "Filo Rosso".
I ragazzi e le ragazze di "Filo Rosso" decidono di sfruttare uno spazio fisico dell'Università che ritengono inutilizzato: quello che tutti, da qualche tempo, chiamiamo "l'ex-laboratorio linguistico". Si tratta, a tutti gli effetti, di una nuova occupazione che questa volta avviene ad opera di un’associazione di studenti, che inizia da subito a svolgere la propria attività culturale, di dibattito, di vita quotidiana di relazione.
Siamo oltre la metà di dicembre e l'Università si sta svuotando. I ragazzi del "Filo rosso" invece non se ne vanno: la vita universitaria è un’esperienza che va vissuta anche a Natale. E così, invece di un usuale deserto, il Polifunzionale resta animato da un gruppo di universitari che organizzano spettacoli musicali, teatrali, attività culturali, discussioni e feste. Per uno spazio pubblico che usualmente muore quando arriva il "privato" del fine settimana e che è tetro deserto durante le "feste di famiglia", è una sorta di nuova nascita.
Questo spazio "occupato" e le relazioni concrete che nella sua fisicità di vetri e mattoni si intrecciano sono un "luogo terzo". Non sono casa, famiglia e gruppo di amici ("luogo primo"), non sono lavoro, sindacato o partito, istituzione burocratico-rappresentativa ("luogo secondo").
Il "luogo terzo" è lo spazio fondamentale della costruzione discorsiva della democrazia: qui si passa il tempo, qui ci si conosce e si discute, qui ci si confronta in una dimensione in cui il famigerato controllo sociale circola in forza tanto della ragionevolezza, quanto della seduttività delle argomentazioni discorsive. Questo è il luogo informale e quotidiano della moralità e da esso prendono forma le norme legittime, la legittimità del diritto, e la stessa politica.
Il "luogo terzo" è una dimensione intermedia tra "privato" e "pubblico", un’area "di frangia".
Si afferma che i ragazzi del "Filo Rosso" sono una minoranza e che, per di più, rifiutano i principi della rappresentanza (si astengono attivamente, ad esempio, dalle elezioni per i rappresentanti politici nelle istituzioni di gestione universitaria). E’ vero. Ma questo è sufficiente per condannarli in quanto "illiberali" ed "antidemocratici" e bandirne, in forza della legge, la presenza nell’Università? L’educazione civica (ancor prima delle scienze sociali) ci insegna che nella società democratica non esistono soltanto partiti ed associazioni formali (più o meno legalizzate). Esistono movimenti, associazioni informali, gruppi, organizzazioni e comportamenti collettivi orientati ad obiettivi generali o specifici, piccoli o grandi. Inoltre le associazioni formali ed i partiti traggono motivazioni, consenso, legittimazione dalle associazioni informali, dai movimenti sociali, dai conflitti che liberamente si esprimono nella società. Ogni rappresentanza formale dovrebbe avere a cuore in primo luogo la vitalità (il rischio) delle espressioni spontanee, delle associazioni multiple ed informali, delle forme e dei luoghi che sopra chiamavamo "terzi" poiché questi sono i principali referenti per la costruzione di una legalità che tragga le sue origini da una pratica argomentativa, discorsiva, di confronto e non di potere, di status, di "soldi".
Il voler sanzionare questi studenti perché si pongono al di fuori dei meccanismi rappresentativi, è già un errore grave, che può essere ricondotto ad una tendenza burocratica e tecnocratica a risolvere i problemi della complessità sociale attraverso la semplificazione procedurale. Il che sostanzialmente significa rimozione, emarginazione, esclusione dei soggetti portatori di tali problemi.
Eppure l’Università non era, tradizionalmente, una sorta di "chiesa laica"? Uno spazio non soltanto culturale, ma anche fisico, concreto, all’interno del quale chiedere "asilo politico" e rifugio culturale nei confronti dell’oppressione e del sopruso?
Gli studenti di "Filo Rosso" pongono un problema di vivibilità dello spazio universitario ed implicitamente fanno appello ad un modello di residenzialità che ci richiama quello della "città democratica" e del pluralismo delle soggettività. La loro non è soltanto una richiesta particolaristica di poche stanze autogestite. La questione che pongono ha un senso generale: questa è una "Città" universitaria o una fabbrica di diplomi standardizzati? L'ambito in cui viviamo è uno spazio circolare di formazione civile oppure solamente un asse attrezzato, con input e output, che magari si ritengono funzionali al mercato? Questo è un luogo importante di costruzione discorsiva dell’identità, sia per gli studenti sia per noi, oppure un’agenzia di disciplinamento?
Si tratta di interrogativi che mettono in discussione il senso stesso delle nostre posizioni professionali e del nostro agire nell’Università. Illudersi di risolverli (o magari, anche in buona fede, di affrontarli) con un atto repressivo, sia pur formalmente legittimo, appare una scelta di irresponsabilità. Fare ricorso ad un’autorità esterna all’Università appare come una sconfitta della nostra capacità di modificare in modo argomentativo le situazioni critiche, di assumere fino in fondo una responsabilità sostanziale nei confronti dei nostri interlocutori.
Da allora molte cose sono cambiate, anche nel rapporto tra Università-istituzione e Filo Rosso, che oggi è formalmente associazione e ha prodotto nuove e specifiche associazioni. In tutte il corpo (che si tratti di teatro, alimentazione, musica) e la relazione con l’ambiente sono fattori importanti. In tutte i "linguaggi" hanno un ruolo chiave. In tutte il problema degli spazi si pone come questione etica, ancora prima che politica (o forse proprio per tutto questo "anti-politica"). C’è sempre il rischio di far debordare la tensione, di scadere nella violenza, di restare impigliati nel Grande Progetto, tralasciando – in nome del fine – la pratica quotidiana.
Nonostante la crescita quasi squilibrata, mi sembra che l’Università si ponga oggi i problemi che allora venivano avanzati. C’è in atto un ripensamento della didattica, apparentemente più "professionalizzante" e strumentale, quindi pericoloso, ma anche potenzialmente più interattivo ed aperto alla vita degli studenti. Nonostante la continua e scandalosa colata di cemento il problema del verde comincia ad essere affrontato. Ci sono nuovi centri comuni – quello per la qualità della vita ad esempio – che andrebbero potenziati. Il problema della mobilità e del traffico comincia ad essere affrontato. Si pensa di limitare l’uso del veicolo privato e favorire il trasporto pubblico. Sono state progettate piazze e spazi di incontro, il cinema e il teatro. Il tema del riconoscimento anche qui è fondamentale e va posto – per tutti – prima della questione della redistribuzione, poiché ne è la condizione di accesso. Il riconoscimento – lo ribadisco – riguarda il modo di rappresentarsi, cioè il modo in cui il soggetto stesso si rappresenta, nel quadro del rispetto dell’integrità fisica e morale degli altri e dei loro diritti umani e politici. Non è quindi questione di "rappresentanza" formale e legale, ma di legittimità dei soggetti presenti, che nel nostro caso l’istituzione universitaria, in quanto democratica, deve correre il rischio di riconoscere in pieno. Non si tratta, infatti, soltanto di assegnare spazi e di decidere a chi e per che cosa. Si tratta di far vivere il Polifunzionale non solo accanto, ma all’interno del Ponte. Il Polifunzionale, "centro storico" di questa città universitaria, non dovrebbe essere soltanto un luogo verso il quale si va o nel quale ci si accomoda, ma un luogo da cui si parte – continuamente – per attraversare la città, ovvero il "ponte". Che cento piazze fioriscano…

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*Intervento alla conferenza "Tutta un'altra storia", Università della Calabria, 12 Dicembre 2001



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