Si è svolto a Cosenza e a Castrovillari nel giugno del 2001
il seminario in due tappe tenuto da Vladislav Ivanov sulla tradizione dell’attore
e del regista nella Russia sovietica, promosso dal Centro Arti Musica e
Spettacolo dell’Università della Calabria e dal corso di Storia del Teatro e
dello Spettacolo, in collaborazione con "Primavera dei Teatri".
L'interesse per questo tema poggia su più di un motivo: il teatro degli ex
paesi dell'Est, attualmente, è quello più vitale e artisticamente rilevante
sulla scena internazionale. Registi come Nekrosiüs, Lev Dodin, Vasil'ev,
Krystian Lupa hanno suscitato un grande consenso sia di pubblico che di critica,
dal momento che riescono a coniugare potenza comunicativa, seduzione della trama
del racconto scenico con una straordinaria abilità interpretativa e
performativa degli attori che sono contemporaneamente "personaggio"
– carattere - e "performer" - attore che si guarda recitare svelando
il gioco teatrale. Queste straordinarie qualità sono frutto di una ricca
tradizione sperimentale e di un sistema formativo intelligente, e appaiono
ancora più eccezionali, considerata l'impasse in cui si trova invece il teatro
euro-americano da almeno due decenni, segnato dall'esperienza radicale delle
neo-avanguardie che per i registi del nuovo teatro degli anni Settanta è
diventata esercitazione di stile, formula ripetitiva ed estetizzante, mentre la
giovane generazione ignora la tradizione sia delle avanguardie storiche che
delle neo-avanguardie. Rispetto a questa divaricazione che si riscontra nel
teatro occidentale (esercitazioni formali degli avanguardisti ormai
anacronistici e vuoto di tradizione dei più giovani gruppi teatrali),
l'eredità culturale del teatro ex sovietico si presenta estremamente
interessante, considerando anche il fatto che questo modo di praticare il teatro
apparteneva all'URSS e attualmente è seppellito dal nuovo corso, dopo la caduta
del regime socialista. Dunque si tratta di una ricognizione che poggia
sull'amarezza di una perdita.
"Il teatro russo moderno è distrutto, esordisce Ivanov,
e bisogna ricominciare da zero, dai principi dell'arte teatrale. In epoca
sovietica attori e registi lavoravano insieme. Negli anni Settanta il compito
che mi ero proposto come ricercatore era quello di capire il lavoro dei registi
emersi fra la metà degli anni '70 fino all' '85. Scrissi un libro dedicato ai
registi dissidenti del teatro, fra cui lituani e georgiani, un teatro che il
regime considerava "antisovietico", perché ciascuna di queste
nazionalità rivendicava l'autonomia, ma il teatro, all'epoca, non ha sofferto
di nazionalismi perché in quegli anni '70 - '80 c'era un fondamento comune, il
teatro era una sorta di culto religioso".
Ivanov si sofferma in particolare sul lavoro di Lev Dodin,
Anatolij Vasil’ev, Eimuntas Nekrošius, i registi della linea del tempo,
evidenziando in ciascuno di essi un tratto distintivo: l'epicità, per Dodin, il
far scaturire un evento non previsto per Vasil'ev e il lavoro con l'attore per
Nekrošius. Egli avverte che il teatro russo non si esaurisce in essi, ma che ci
sono registi altrettanto importanti, anche se meno conosciuti in Italia e in
Europa, come Anatoli Efros (1925-1987). Essendo il teatro una materia
impossibile da trasmettere, se non direttamente, Ivanov, per spiegare la
continuità della tradizione, ricorre al concetto di
"reincarnazione"dei maestri della regia del teatro moderno russo degli
anni Venti in quelli viventi apparsi sulle scene negli anni '70 - '80. Ciò
significa che il rapporto fra il teatro delle avanguardie storiche e quello
contemporaneo in Unione Sovietica si è mantenuto particolarmente vivo, non
affidato solo ai libri, come in Italia, ma a una sorta di tradizione non
interrotta. .
"Evreinov, sostiene Ivanov, ha influenzato Vasil'ev, il
suo collocare gli attori fra il pubblico, ma soprattutto Vasil'ev ha ereditato
la natura sperimentale di Stanislavskij, la tendenza ad analizzare tutto,
modificando, per quanto riguarda il lavoro dell'attore sulla parte, il metodo
del maestro, spostando cioè l'accento dagli obbiettivi alle cause. La mancanza
di caratteri forti, osserva lo studioso, propria del teatro del Novecento, è
stata trasformata artisticamente da Vasil'ev che si avvicina, per certi versi,
al parateatro di Grotowski, perché le azioni degli attori sono metafisiche e
non fisiche. Infatti il suo è stato definito un teatro mistico, verticale: il
suo motto è: ciò che non si può realizzare esiste".
"In Lev Dodin, continua Ivanov, si reincarna la figura
di Nemirovic Dancenko. A San Pietroburgo incominciò a lavorare con Tostogonov
per il Teatro della Gioventù da cui fu scacciato per rivalità con il maestro.
Come Stanislavskij, Dodin, prima di allestire uno spettacolo, si prepara
visitando i luoghi originari in cui è ambientato il testo. Dodin si allontana
dal mondo contemporaneo per creare un teatro tragico-filosofico.
Nekrosius è una sfinge e un genio dell'intuizione. In lui si
reincarna Vackangtov. In quanto lituano viveva e lavorava molto lontano da Mosca
e questa per lui è stata una fortuna, anche se Mosca era la capitale culturale,
sede della ricerca e della critica. Ma Nekrošius aveva scelto di ignorare i
critici, soprattutto se moscoviti.
Lo spettacolo che ho più amato è Quadrat, una storia
d'amore: una donna salva un criminale e lo porta fuori dalla prigione. Non si
tratta di un vero criminale, ma di un uomo qualsiasi. Il finale è tragico
perché il protagonista, anche se è fisicamente fuori dal quadrato, in realtà
vi resta imprigionato e muore. Il tema dello spettacolo è la morte come parte
della nostra esistenza, la luce come fonte del buio. La morte, un tema costante
nel teatro di Nekrošius è la presenza di qualcosa, non è l'assenza, sta nel
cerchio delle personificazioni mitologiche.
Come ha rappresentato il regista la morte a teatro? Il
prigioniero si strappa la camicia e mette in un pezzo di stoffa della sabbia e
lo consegna a sua moglie e ai suoi figli: non va via dal mondo, ma si unisce al
mondo, come in un rito ortodosso: dare qualcosa di sé per avvicinarsi ai
viventi. Gli attori non recitano ma assumono una posizione spirituale".
Una parte altrettanto affascinante del discorso di Ivanov, in
cui cronaca, storia, riflessione teorica e rievocazione si mescolano con
sapienza, è quando tocca con profonda competenza personaggi e fatti del teatro
russo più lontani nel tempo.
"Sin dagli anni Trenta il cosiddetto sistema di
Stanislavskij è stato statalizzato, il che significa che paradossalmente il
regime ha confuso la ricerca di verità di Stanislavskij con il teatro
naturalistico e illusionistico. Dopo la morte di Stalin sembrava che dovesse
verificarsi anche un dopo-Stanislavskij. Ma in realtà, registi come Efros o
Tostogonov percepivano Stanislavskij come letteratura dissidente, non come
dogma, per loro rappresentava la via che portava alla ricerca della verità,
tratto, questo, oscurato al tempo di Stalin. A differenza di Stanislavskij, che
è inesauribile in quanto cercava la verità, Mejerchol'd cercava di manipolare
lo spettatore attirandolo verso le sue idee. Stranamente, Mejer'hold non ha
avuto successo".
Che cosa ha perso, si chiede Ivanov, il teatro in Russia,
dopo il crollo del regime socialista? "C'è stata liberazione dal partito
comunista, che non ha portato la libertà, perché oggi la dipendenza più forte
è quella economica.La libertà politica ha prodotto crisi negli intellettuali e
negli artisti, perché (all'epoca di Breznev) l'arte viveva in una zona limite
ed eravamo abituati a vivere in una situazione di lotta, ad avere un nemico che
non ti poteva fucilare (come aveva fatto con Mejerchol'd). Questa situazione è
stata molto feconda. Nel sistema sovietico sia il teatro come luogo fisico che
le compagnie appartenevano allo Stato (veniva definito "feudalesimo di
velluto"), ogni regista tendeva a creare la sua compagnia e ad avere un suo
teatro, con una sua identità, anche se aveva degli obblighi nei confronti dello
Stato (produrre spettacoli sovietici). Costruire una famiglia è stata la
tendenza dei registi russi motivati a fare ricerca, ad approfondire il lavoro
teatrale. Teatro tempio era la formula. Nella Russia sovietica il teatro
è stato il luogo della libertà, dei dissidenti. Oggi è solo cultura, non più
tempio. Negli anni '90, subito dopo il crollo del regime socialista, il teatro
visse un momento catastrofico perché tutto l'interesse era rivolto alla
politica e la vita era superiore al teatro, come fonte di suspence. La casa
teatro è la vera tradizione del teatro russo che oggi è stata distrutta a
favore del teatro commerciale che scrittura gli attori per una sola stagione:
mantenere la casa. Nekrošius o Dodin sono costretti a fare continue
tournée all'estero. Oggi il teatro deve cercare di attrarre spettatori, per cui
sia il successo che l'insuccesso di uno spettacolo possono essere pericolosi.
Con le riforme economiche del dopo-perestroika tutto è diventato più
costoso e gli spazi teatrali sono condizionati dal mercato. Quando gli attori si
mettono insieme per un solo spettacolo e rimangono insieme solo finché c'è il
pubblico, allora il teatro è gravemente in pericolo".