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Quale sviluppo?

di Piero Bevilacqua


All'interno della sinistra si è tornato a evocare, di recente, il termine socialdemocrazia. Nell'ultimo congresso dei DS esso è diventato un po' un concetto-simbolo per lo meno di una parte larga dello schieramento di quel partito. Io credo che la riemersione nel dibattito politico del riferimento a quella esperienza storica offra oggi, tuttavia, occasione e spunti per una riflessione mirata a problemi diversi da quelli affrontati sinora.
Richiamarsi a quella grande tradizione politica è quanto di più legittimo possa fare una forza politica che intenda realizzare un programma riformatore. I partiti hanno un disperato bisogno di identità, e cercare radici in una ilustre esperienza storica è senza dubbio la scelta più comprensibile e naturale. D'altra parte occorre dire che nello sconfinato deserto ideale che è diventata la politica dei partiti, in Italia come altrove, la socialdemocrazia europea giganteggia alle nostre spalle come una prova storica inattingibile. E' il caso infatti di ricordare che quella corrente riformatrice, dalla Gran Bretagna postbellica di Beveridge alla Svezia di Olof Palme dei primi anni '80, ha segnato una intera epoca della storia contemporanea recente. Attraverso la costruzione dello Stato sociale essa ha compiuto un'opera colossale: ha costretto quel poderoso modo di produzione che è il capitalismo ad esprimere tutte le potenzialità di elevazione sociale e di egalitarismo di cui è capace se governato e indirizzato a tali fini.
Quindi è ovvio che richiamarsi a tale esperienza voglia significare, essenzialmente, ricostituire il governo dello sviluppo secondo nuove finalità sociali: quelle attualmente mortificate dal disfrenamento liberistico dominante. Ma può oggi essere ripristinato - come venti e più anni fa - quello stesso legame positivo tra la potenza della crescita economica e l'arte politica della sua redistribuzione sociale?
Io credo che su tale questione sia drammaticamente assente una riflessione storica e teorica insieme. Il punto fondamentale su cui manca quasi del tutto l'interrogazione è sul termine sviluppo: forse il lemma più religiosamente evocato dalla cultura e dal linguaggio corrente dell'intera società occidentale. Che cos'era lo sviluppo economico nella fase di costruzione dello Stato sociale? Non c'è dubbio che nei decenni che sono seguiti alla seconda guerra mondiale la crescita industriale e i processi di medernizzazione ad essa connessi portavano con sé, direi naturaliter, un carica - sia pure tra aspri conflitti e contraddizioni - umanamente liberatrice. Le popolazioni dell'Europa uscivano progressivamente dalla loro antica penuria alimentare, e approdavano a un livello di possesso di beni e di sicurezza materiale mai prima sperimentato. Venivano allora formandosi vasti ceti medi sorretti da crescenti standard di benessere, si riduceva ad aree marginali l'antica fatica contadina, la classe operaia guadagnava nuove condizioni di lavoro e di vita, i ceti più poveri, sempre meno numerosi, conseguivano condizioni minime di tutela. Ma può, oggi, lo sviluppo, più esattamente la crescita economica, essere considerata portatrice delle stesse potenzialità liberatrici di un tempo? Il limite della riflessione corrente è infatti nell'esaurire il nodo dei problemi nell'auspicio e nella ricerca di una nuova, più equa, meglio governata redistribuzione dei frutti della crescita. E non c'è dubbio che tale esigenza esista e sia rilevante. Ma sicuramente la novità storica gigantesca che si stenta ad afferrare - e da cui dipende l'intero modo di leggere il presente e di progettare il futuro - è che è mutata drammaticamente la qualità di quei frutti.
Attualmente in Europa non esiste più un problema di penuria alimentare. Si da, invece, il caso contrario: una sovraproduzione di beni agricoli che in parte vengono distrutti. In media, in Italia, non diversamente che nel resto del continente, finisce nei rifiuti il 60% circa dei beni alimentari che entrano nella distribuzione. La vera nuova esigenza delle popolazioni europee è semmai di avere cibi sicuri, prodotti in ambienti non inquinati, possibilmente con sapori e caratteristiche organolettiche di prodotti naturali. Alcune delle innovazioni tecniche che hanno fatto epoca nel corso del XX secolo trasformano in segno contrario le loro potenzialità. Si pensi all'automobile: strumento superbo di libertà individuale e di mobilità rapida nello spazio costruito, è ormai una ragione di rassegnata angoscia quotidiana per milioni di persone. Perfino una delle meno discutibili conquiste della cosiddetta globalizzazione - la richezza, rapidità, universalità dell'informazione quotidiana - rivela già il suo pesante contrario: una invadenza totalizzante. Una persona di media cultura che legge almeno un quotidiano, guarda un telegiornale e naviga un po' in internet rischia di non trovare più il tempo per pensare.
Ciò che è mutato, dunque, rispetto alla realtà economica e sociale su cui è fiorita l'esperienza della socialdemocrazia è l'utilità sociale stessa della crescita, la natura del suo segno, la sua desiderabilità generale. Non c'è dubbio infatti che una parte sempre più crescente della produzione di ricchezza si esaurisce nelle produzione di merci superflue, assorbite grazie dall'induzione forzosa al consumo. Essa soddisfa sempre meno bisogni effettivi,e perde perciò, progressivamente le sue antiche, forti motivazioni sociali. Fino a qualche decennio fa la crescita economica rispondeva a bisogni reali e comunque di elevazione civile della popolazione.
Oggi è sempre meno così. Senza molto forzare si potrebbe dire che nelle società postindustriali le popolazioni sono chiamate, di fatto, come produttrici e come consumatrici, a soddisfare i bisogni artificiali della crescita.
Ma questo non è tutto: è solo la faccia paradossale di un più profondo e radicale mutamento di natura del modo di produzione capitalistico. Diciamo che per una lunga fase storica la creazione di valore - vale dire il processo di valorizzazione del capitale - e la creazione di ricchezza sociale - sono stati processi che si muovevano in parallelo. I due fenomeni avevano lo stesso segno (anche se attraversati da reciproci conflitti). Oggi la creazione di valore non significa più necessariamente creazione di richezza. Non soltanto perche essa mette capo alla produzione di merci sempre meno necessarie e sempre più invadenti. Ma soprattutto per una ragione in largissima misura ignota alle società del passato: nel produrre valore, infatti, la società capitalistica tende sempre più a distruggere ricchezza reale. E' oggi noto a tutti che la gigantesca crescita economica presente si regge sul consumo di energia non riproducibile, la diffusione dei concimi chimici obbliga le agricolture di tutto il mondo a diventare irrigue con fabbisogni spaventosi di risorse idriche, il consumo di legname sta distruggento le ultime foreste pluviali della terra, l'inquinamento e le piogge acide annientano annualmente la vita biologica di migliaia di ettari di foreste e le acque di laghi e fiumi sparsi per il pianeta. L'elenco, com'è noto, potrebbe esse molto lungo. Ma tutti dobbiamo accettare questa verità: la crescita economica come produzione di merci lavora all'impoverimento del mondo.
E' allora la natura del fenomeno che continuiamo a chiamare sviluppo ciò che è cambiato radicalmente. Quel che stentiamo ad afferrare è infatti la fine ormai evidente di un modello della civilizzazione umana: quello che oggi minaccia direttamente la sopravvivenza stessa della nostra specie sulla Terra.
E' dunque da questo nuovo scenario universale che una riconsiderazione del ruolo della politica riformatrice dovrebbe oggi prendere le mosse. E non è certo una cosa facile. Occorre un poderoso sforzo di ricerca, di riflessione, di rinnovamento culturale. Ma rimanere al di qua di questa soglia di consapevolezza confina entro un basso orizzonte prospettico, e in una pratica subalterna, i partiti della sinistra. Li condanna - pur essendo storicamente nati per un progetto di trasformazione generale - a non cogliere l'inesplorata portata globale dei nuovi sentieri della politica, della conquista del consenso, del governo degli uomini.



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