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Tra due mari,
l'ultimo romanzo di Carmine Abate

di Giuseppe Muraca


Con Carmine Abate la letteratura calabrese - dopo un periodo di appannamento - è riuscita a raggiungere di nuovo una risonanza nazionale e internazionale, vuoi per la singolare qualità dei suoi romanzi e vuoi perché la Calabria non viene considerata in maniera angusta e provinciale ma rappresenta per lui crocevia e tramite di collegamento fra diverse civiltà e culture. Infatti, Abate non è solo uno scrittore ben radicato nella nostra realtà regionale, cioè che avverte in maniera profonda il senso di appartenenza alla comunità di origine, ma è al tempo stesso uno scrittore europeo che è riuscito dalle sue vicende biografiche a trarre lo spunto per un discorso dai risvolti letterari e antropologici molto complessi e ad inserirlo in un orizzonte più ampio, universale. Nella sua vicenda umana e intellettuale tre dati sembrano contare in maniera particolare: le sue origini arberesh, la sua appartenenza alla comunità calabrese e gli anni trascorsi in Germania durante la sua giovinezza. Questa formazione culturale poliedrica e multietnica è riscontrabile in tutti i suoi romanzi e si riflette direttamente nel suo stile vario e colorito, nel suo plurilinguismo che non diventa mai una fredda esercitazione ma rispecchia spontaneamente una determinata realtà.
Dopo aver pubblicato alcuni libri di poesia, di racconti e un saggio sociologico sugli immigrati italiani in Germania, Abate si è imposto all'attenzione dei critici e dei lettori con i due bellissimi romanzi Il ballo tondo (Marietti, 1991, 2 edizione, Roma, Fazi, 2000) e La moto di Scanderbeg (Roma, Fazi, 1999), che in questi ultimi anni sono diventati un piccolo caso letterario e che sono stati tradotti in varie lingue, riscuotendo un certo successo.
Ciò che maggiormente colpisce di questo scrittore è il suo stile limpido e misurato, la sua vena felice che conserva sempre un legame profondo con la storia millenaria, le tradizioni e i costumi della nostra regione. La sua scrittura mantiene infatti il ritmo, l'armonia e le suggestioni delle rapsodie e dei racconti popolari, mentre gli avvenimenti i personaggi sono immersi in un alone fantastico, quasi mitico, da cui emergono grazie ad un processo di rievocazione e di scavo mnemonico, spesso doloroso e drammatico. Non a caso il ricordo e la memoria svolgono nella sua narrativa una funzione primaria, quasi catartica e liberatoria.
Con il suo terzo romanzo, Fra due mari, pubblicato da poco dall'editore Arnoldo Mondadori (pp. 202, € 14,60) e già recensito favorevolmente da vari quotidiani e periodici, Abate conferma fino in fondo le sue doti e le sue qualità di narratore, però la sua nuova storia non è più ambientata ad Hora, il paesino di origine arberesh dei suoi libri precedenti, bensì nella piccola comunità di Roccalba, situata a un centinaio di chilometri più a sud, nell'istmo tra il golfo di Santa Eufemia e quello di Squillace. La figura centrale del libro è rappresentata da un certo Giorgio Bellusci, una sorta di patriarca, forte e testardo, che come tutti i personaggi principali della narrativa di Abate, anche lui insegue il suo sogno, il suo grande progetto: quello di ricostruire la locanda "Il fondaco del fico", di proprietà di un antenato, in cui nel lontano 1835 aveva fatto sosta, insieme ad un suo amico pittore e ad un cane di nome Milord, un singolare viaggiatore straniero, nientedimeno che lo scrittore francese Alessandro Dumas. Così dopo una giovinezza avventurosa ed errabonda mette mano agli attrezzi e dà via ai lavori. Ad un certo punto però il suo progetto viene ostacolato dalla 'ndrangheta locale, ma lui non ha alcuna intenzione di arrendersi e così si ribella e uccide un mafioso, finendo in prigione.
La vicenda di Giorgio Bellusci viene rievocata da suo nipote Florian, mezzo calabrese e mezzo tedesco, che ad un certo punto tramuta la sua iniziale antipatia per il nonno in amore viscerale. Ed è proprio questo intenso legame con il mondo dei suoi avi e il richiamo dei valori arcani e sacri della civiltà contadina calabrese che lo spingono ad abbandonare quasi definitivamente la Germania e a stabilirsi per diversi mesi dell'anno a Roccalba. Alla fine Giorgio Bellusci viene sconfitto, ma non dalla 'ndrangheta, bensì dalla legge ingiusta della natura, ossia dalla malattia e dalla morte, ma a realizzare il suo progetto ci pensa suo nipote Florian, che a conclusione del romanzo consegna allo scrittore, camuffato da finto viaggiatore, quasi alla stessa stregua di Alessandro Dumas, la sua storia accorata, quasi a voler suggellare con il suo racconto una vicenda unica e irripetibile, come la vita di un uomo.
Fra due mari si conclude così, con questo tono di amarezza e di rimpianto, con questo senso di fatalità e di tristezza, ma anche con la speranza e la certezza che l'eredità dei vecchi (e quindi i loro sogni di riscatto, che in fondo sono il motore e la linfa della stessa vita umana) non andrà mai perduta, bensì verrà raccolta e custodita gelosamente e continuata dalle nuove generazioni, che hanno il compito di proseguire il cammino millenario dell'uomo.



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