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Occorre affrontare il tema della "crisi dei partiti"

di Silvio Gambino
(Preside della facoltà di Scienze Politiche - Unical)


Caro Mario,
accolgo di buon grado l'invito rivoltoci da Piero Bevilacqua e da te stesso di avviare una riflessione sulla crisi della politica e sullo stato (penoso) della sinistra (nel Paese come anche nella nostra Regione) orientata anche a cercare qualche traccia di iniziativa sul da farsi. Userò a questo fine la stessa forma di comunicazione avviata da Piero, cioé quella della lettera aperta a te perché sia pubblicata su 'ORA LOCALE'. Invero, devo confessarti che il metodo non è che mi piaccia molto perché la complessità delle questioni in campo imporrebbe una previa discussione politica, una definizione di ambiti di intervento e solo dopo un impegno, affidato a singole persone, di stendere tracce di riflessione per avviare discussioni anche orientate, eventualmente, a farsi prassi politica. Come si può, infatti, ragionevolmente pensare di consegnare a tre/quattro cartelle il peso di una riflessione che è, e da più tempo, dentro ognuno di noi, e che ci rende fortemente insoddisfatti della vita politica presente ma soprattutto preoccupati (e non di poco) di non saper leggere tutti i sintomi di una deriva oligarchica che può bene approdare a forme ancora più gravi di crisi della democrazia? So bene, peraltro, che le condizioni storiche non consentono più una riedizione di forme fasciste di gestione della politica e delle istituzioni. Ma so, parimenti, che la storia non si ripete mai in modo eguale. E pertanto sarebbe veramente da irresponsabili non esercitare quel vaglio critico del tempo presente, attenti a cogliere tutti gli elementi di patologia che possono aiutare i più ad aprire gli occhi e sentirsi in una comunità (al momento solo virtuale) vogliosa di porre fine, una volta per sempre, al degrado della vita democratica nel Paese.
Dicevo poc'anzi che una prassi capace di attrarre soprattutto le giovani generazioni - che a mio giudizio devono costituire i principali referenti della iniziativa culturale cui stiamo dando avvio - impone una previa riflessione sullo stato della crisi: che è crisi dei partiti politici, è crisi delle istituzioni territoriali e nazionali, è crisi della politica come tale.
La questione appare, peraltro, di non facile soluzione se prescindiamo dal rilevare una serie di elementi fattuali che costituiscono la base dell'agire politico e istituzionale, e che per più di mezzo secolo ha caratterizzato la vita democratica del Paese. Voglio dire, senza girare troppo intorno al problema, che io vedo due dati fondamentali, che si riflettono sulla vita dei cittadini e sulla qualità dei servizi che la politica e le istituzioni riescono ad assicurare. Un primo dato è offerto dalla considerazione - banale quanto si vuole ma tuttora centrale da richiamare - che lo sviluppo della democrazia nel Paese, sia pure con luci e ombre, a partire dal secondo-dopoguerra, è dovuto alla capacità storica dei partiti di massa (per il momento non distinguo fra partiti classisti e partiti popolari) di progettare e dare attuazione a scelte costituzionali che hanno positivizzato, ad un livello alto, il rapporto di forza, lo scontro di classe con i ceti conservatori ed ancora intrisi di cultura fascista del mondo agrario, imprenditoriale e burocratico degli anni '50. La verità è che, poi, le istituzioni e la politica costituzionale, via via che è andato sviluppandosi il processo di glabalizzazione dell'economia, hanno perduto gradualmente ed in modo significativo il ruolo e la portata garantistica che erano chiamate ad assicurare. Come non ricordare a questo proposito che la stagione degli anni '70 nel Paese è stata la stagione della scuola di massa, dello statuto dei lavoratori, dell'attuazione del sistema sanitario? è stata cioè - ripeto con luci ed ombre - la stagione dell'attuazione dei diritti sociali, dei diritti cioè di una cittadinanza orientata alla inclusione e non alla esclusione. E come non ricordare, al contempo, come lo sviluppo del costituzionalismo europeo e internazionale, nella fase presente di globalizzazione dell'economia, sta portando alla evanescenza, giorno dopo giorno, di tutti questi diritti (sia pure senza poterli direttamente aggredire negandoli, ma sottoponendoli a vincoli finanziari e limitazioni, che nei fatti ne fanno perdere quelle caratteristiche di indefettibilità e di effettività, come pure assumiano nei nostri studi scientifici)?
Ho richiamato il ruolo centrale svolto nella democratizzazione del Paese dai partiti politici per non limitarmi a lanciare il lamento dell'orfano, di chi cioè, guardandosi intorno e da tempo, non riconosce più un clima politico, culturale e istituzionale in cui ha avuto l'avventura ed il piacere di svolgere la sua prima socializzazione politica e l'impegno volto soprattutto a farsi carico dei soggetti deboli, in un anelito di eguaglianza sostanziale fra i cittadini che ci convinceva teoricamente e che ci esaltava nella cultura e nella stessa azione politica.
Così richiamata brevemente la questione (non scevra di qualche enfasi, di cui mi scuso con il lettore), voglio dire che la storia non comincia con noi, né comincia oggi; abbiamo il dovere e la responsabilità di portare a ragione e alla pratica politica i 'chierici che hanno tradito', i 'preti che non credono più in Dio', in una parola i partiti che si sono ormai cristalizzati come corporazione, attenti (in modo più o meno esclusivo) a logiche di potere e di comunicazione fra soli 'eletti' e dimenticando che i partiti esistono per portare domande di cambiamento e di garanzia nelle istituzioni, facendole divenire decisioni legislative e amministrative, in una parola servizi al cittadino.
In altre parole, un primo tema della nostra discussione riguarda i partiti, il giudizio sul relativo ruolo nella fase attuale ed, in ultima istanza, il 'che fare' con riferimento al ruolo che essi continuano a svolgere nella vita politica e istituzionale del Paese.
Strettamente connesso al tema dei partiti è quello delle istituzioni (territoriali e nazionali). Per non esaltarci in modo eccessivo, io mi limiterei, almeno in una prima fase, ad occuparci delle sole istituzioni territoriali e del rapporto opaco che esse intrattengono con 'questi partiti', già in precedenza definiti come corporazioni con scarsi o inesistenti rapporti con la società (se si prescinde dalla raccolta del voto, senza altra mediazione che quella di dire 'si' o 'no' a candidati sempre più spesso lontani dai territori chiamati a votarli e sempre più spesso, una volta votati, indifferenti ed assenti nel ruolo rappresentativo dei territori e delle domande sociali).
Affrontare il tema del funzionamento 'regolare' delle istituzioni (mi sembra eccessivo parlare di 'modernizzazione', come pure facciamo nelle nostre analisi professionali), ed assumere, in qualche modo, una loro autonomia dai partiti, una loro capacità di operare sulla scorta di regole istituzionali neutre, generali ed astratte, costituisce una pia illusione, a cui non crede più nessuno. Senza scendere nella cronaca istituzionale, come possiamo non pensare che le difficoltà della nostra, come delle altre regioni, a darsi una forma di governo moderna ed efficiente non dipende dalla sola difficoltà tecnica a scrivere e adottare buoni modelli di governo ma, ed in modo esclusivo, dalla volontà dei partiti di 'colonizzare' l'istituto regionale a logiche di parte (appunto di partito)? E perché, dunque, meravigliarsi che tutte ed ognuna delle parti (partiti) cercano il loro tornaconto (istituzionale ovviamente)?
In altri termini, voglio dire che possiamo comprendere la crisi delle istituzioni territoriali (e la loro capacità di porsi come strumenti efficaci, efficienti e trasparenti al servizio dei cittadini) solo ed a condizione di avere ben presente che, per mezzo secolo, ed in ragione di quell'intreccio di cui abbiamo già parlato fra partiti e istituzioni (orientato a sviluppare e diffondere democrazia), si è determinato un processo stabile di politicizzazione delle istituzioni e di amministrativizzazione della politica, che ha fatto perdere nerbo rappresentativo ai partiti ed autonomia/capacità decisionale alle istituzioni. In altri termini, si è creato un'osmosi fra partiti ed istituzioni che ha fatto perdere visibilità ed autonomia ad ognuno dei due soggetti in campo.
Si tratta, sotto questo profilo, di comprendere se tale osmosi sia conclusa solo perché i partiti sono in crisi da più di un decennio o se, al contrario, la crisi dei partiti non abbia scaricato sulle istituzioni tutte le ragioni di una instabilità, di una precarietà funzionale e decisionale e perfino di una perdita completa di trasparenza (il 'concorsone' che ha coinvolto quasi tutte le forze politiche del nostro Consiglio regionale, e fra queste tutte le forze politiche di sinistra, costituisce un segnale 'sinistro' del degrado cui è stato sottoposto la massima assise democratica della Regione). Anche qui, il moralismo è una possibile reazione e certo non fa male. Ma la questione è ben più seria e drammatica, quando noi ci interroghiamo sulla perdita di ogni autonomia che una istituzione deve avere nei confronti dei suoi componenti istituzionali.
Quale conseguenza trarre sul problema visto anche da questo angolo visuale? La mia risposta (o meglio la mia impressione) è che questa non è, non può essere, non deve essere la stagione delle riforme, perché i soggetti che hanno capacità di scrivere nuove regole non hanno quel necessario afflato e legittimazione politica e rappresentativa (parlo in termini politici, ovviamente, perché so bene che, da un punto di vista formale, tale legittimazione è data dal solo voto popolare). In concreto, possono creare più danni che risolvere problemi. Meglio che i partiti, in questa fase storica, si limitino ad avviare una discussione sul loro presente e su cosa vorranno fare da grandi. Quando avranno deciso e le loro idee e programmi saranno apparsi convincenti e fondati si potrà procedere a mettere mano alla macchina per quella necessaria 'manutenzione' di cui abbisognano anche le istituzioni.
Così definito l'ordine delle priorità nel mio discorso, è da chiedersi: la società, la cultura, il mondo associativo e del volontariato possono fare qualcosa o devono limitarsi a fare le prefiche di un processo che ormai sfugge da ogni dove e nel quale la deriva oligarchica e cesaristica costituisce una tendenza che pare non più riguardare solo il leader del partito azienda e capo del governo ma alcune leadership della stessa sinistra tradizionale (e non parlo solo della sinistra moderata)?
A me sembra che serva molta umiltà ma anche molta determinazione nell'analisi ed un confronto chiaro, esplicito e trasparente con i partiti della sinistra, ma solo quando le idee saranno sufficientemente chiare e condivise. A quel punto, il rischio sarà quello della cooptazione. E' già avvenuto in modo chiaro ai tempi dei Comitati per l'Ulivo. Occorre avere il coraggio di riconoscere, per non ripeterne l'errore, che Prodi si è accontentato di qualche spicciolo (seggi limitati alle dita di due mani) da parte del leader pro-tempore dei DS, on. D'Alema. Se le idee, il progetto, la cultura e gli uomini di cui disporremo saranno individuati da tutti come una risorsa positiva ed indiscussa, potremo pensare anche a misurarci elettoralmente; se tutto questo mancherà avremo avuto l'occasione e forse anche il merito di aver sottratto il tempo ai nostri impegni istituzionali e familiari per offrire qualche contributo di riflessione che potrà servire perché altri continuino il nostro discorso. In conclusione, una buona dose di illuminismo non deve mancarci se vogliamo avviare questo percorso.



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