Ora Locale

(Digita o Clicca su "Ora Locale" per tornare indietro)


VENTO DEL SUD

di Franco Piperno


Tengo innanzitutto a ringraziare gli organizzatori ed i numerosi anzi numerosissimi delegati a questa assemblea del movimento "no-global" ovvero, per dir meglio, "new global" che si svolge qui nella Aula Magna dell'Università della Calabria, a seguito della raffica di mandati di cattura emessi dalla Procura di Cosenza; raffica che ha portato in prigione venti militanti del movimento, accusati di "cospirare contro la globalizzazione" ; incriminati quindi, grazie a degli articoli del Codice penale di origine fascista tuttora in vigore nel nostro paese, per reati d'opinione.
Questa assemblea, dove sono presenti delegati non solo italiani ma anche di altri grandi paesi d'Europa, mi sembra una delle rare occasioni di discussione dove sia possibile presentare, all'Italia ed all'Europa tutta, questo processo di "rinascimento municipale" che è cominciato nel Mezzogiorno ed al quale la nostra città partecipa a pieno titolo. Infatti, a far data dall'inizio degli anni novanta, il meridione d'Italia si sta scrollando di dosso non solo il vecchio ceto politico che governava dalla fine della seconda guerra mondiale, ma soprattutto si sta liberando da quella colonizzazione interiore che aveva depositato nel senso comune un sentimento di accidia e di autodisprezzo per il quale, per i meridionali stessi, il Sud era una realtà sottosviluppata il cui decollo era irrimediabilmente legato all'accesso a risorse culturali e finanziarie provenienti dall'esterno, dal Nord industrializzato e perciò stesso ricco,civile e maturo.
Nella misura in cui il Sud recupera la memoria, restaura i suoi centri storici, rientra in rapporto con il paesaggio, riafferma la sua temporalità, il sentimento del limite, le abitudini urbane fondate sul privilegiamento dell'amicizia e sulla cultura del dono, la familiarità con la morte; nella misura in cui tutto questo accade, un vento si alza, il vento del Sud che investe il paese ed il continente intero; e riporta le città all'origine, alla condizione in cui versavano prima che la modernità ovvero la forma stato le soffocasse.
Questa discussione ha quindi per noi, ancora una dimensione "seminale": piantare il chicco, anche se occorrerà ancora del tempo e dell'energia per cogliere il frutto.In questo spirito e con questo augurio porto ai delegati qui convenuti il benvenuto dell'antica Città dei Bruzii e del suo Sindaco.
Il dibattito, in corso qui tra di noi, mostra come alla sinistra non manchino certo le idee; forse ne ha troppe, e in contrasto tra di loro. Ma anche questa circostanza, secondo me, non è poi così negativa, giacché testimonia del travaglio attuale, dello sforzo collettivo di pensare; e la cosa può anche, da qui a qualche tempo, rivelarsi una risorsa.
E per entrare subito con i piedi nel piatto, dico, per prima cosa, che mi sento assai distante da tutti questi programmi planetari e penso con orrore cosa sarebbe un mondo in cui c'è un ufficio dell'ONU che assicura i diritti agli esseri umani; meglio il suicidio.
Pensate: l'ONU ha già dato abbondantemente prove di sé nel costruire dei non luoghi, nel rendere la cosiddetta globalizzazione una specie di prevaricazione mascherata di un luogo su altri luoghi. A questo proposito, val la pena ricordare che Chomskji definiva così la differenza fra la lingua e dialetto: "La lingua è un dialetto che possiede una marina, un'aviazione ed un esercito". Parafrasando lo studioso americano, si può dire che il globale è un locale che ha la forza dalla sua parte.
L'ONU è nient'altro che una sorta di comitato intergovernativo addetto a coprire, con un manto retorico-giuridico, gli interessi economico-militari dei paesi militarmente ed economicamente più forti. E' l'ONU, ad esempio, ad avere legittimato la creazione di Israele, un esempio aberrante di non-luogo, una entità astratta, inventata grazie a procedure internazionali; il cui risultato è sotto gli occhi di tutti: gli unici esseri umani che abitavano veramente quei luoghi sono quelli che sono stati scacciati o sopravvivono in condizioni disumane.
Diffido radicalmente, quindi, di queste generalizzazioni; e trovo che è proprio della cattiva tradizione socialista, riproporre forme giuridiche e diritti universali, che possono poi essere impiantati solo dalla forma dello stato. Una di queste trasposizioni astratte l'abbiamo subita nel Meridione, dove l'industrializzazione è arrivata grazie solo all'intervento pubblico, consolidando quella complicità segreta che esiste da sempre in Italia fra socialismo e statalismo. Il socialismo italiano ha fatto propria questa tendenza allo statalismo, ovviamente nelle sue correnti di maggioranza. Do' atto che nel movimento socialista e persino nel partito comunista, ci sono stati dei filoni diversi. A ben vedere però, la realtà cosentina del socialismo è in grandissima parte legata alla presenza della mano pubblica nazionale, attraverso cui sono stati affermati dei diritti. So, ovviamente, che le intenzioni erano tra le migliori, ma le intenzioni non hanno mai salvato nessuno.
Bisogna giudicare malissimo tutti questi discorsi, che tendono a realizzare dei diritti per vie che astraggono dalla realtà dei luoghi; e questo non solo in riferimento alla tradizione socialista in senso stretto.
Penso male anche delle conclusioni cui perviene un gruppo di studiosi del pensiero politico, pure, per altri aspetti, a me molto vicini.
Non mi convince, ad esempio, la proposta, avanzata da Toni Negri nel suo libro "L'Impero", incentrata sul un reddito garantito a livello planetario. Immaginate che sorta di burocrazia pletorica verrebbe messa in piedi per assicurare che nel più piccolo villaggio di Ceylon così come a Stoccolma ci sia il reddito garantito in euro o in dollari; e poi assicurato da chi? dal Segretario dell'ONU? Si può essere sicuri che in questo caso il costo degli impiegati e della macchina burocratica supererebbe di gran lunga il valore dei servizi erogati-- come già accade per la FAO che, da mezzo secolo, si occupa della fame nel mondo senza che gli affamati se ne siano mai accorti.
Si tratta, con ogni evidenza, di prospettive da incubo; che, va da sé, non verranno mai realizzate; e che testimoniano quanto lontano siamo andati da una situazione in cui invece erano i luoghi a proporre le soluzioni per i loro problemi. E' questa una cattiva deriva che proviene dall'Illuminismo; e da qui trae origine il difetto principale del movimento operaio: l'idea, condivisa dalla borghesia e quindi dal pensiero liberale, secondo la quale, grazie alla scienza, si può modificare la condizione umana per renderla libera e consapevole tramite l'intervento dello Stato assicurando a tutti il godimento dei diritti di cittadinanza; senza chiedersi minimamente se, per caso, l'idea stessa dei diritti del cittadino non sia una creazione specifica, nata in certi paesi specifici; per cui essa, per altre culture e forme di vita, non ha alcun senso, è letteralmente priva di significato.
Va da se che questa mia affermazione è calata in un contesto politico culturale preciso; nel farla qui ho accettato ovviamente il palcoscenico e lo scenario della sinistra e della sua tradizione;allo stesso modo, beninteso, in cui uno si rassegna ad un irrimediabile errore adolescenziale; o meglio, nel senso in cui uno conviene d' essere nato in una famiglia; e anche quando si considera sfortunato, riconosce che fa parte di quella famiglia, che non può mica cambiare.
Questi famosi e fumosi "diritti dell'uomo e del cittadino" hanno una origine ben determinata; e sarebbe un grave errore intellettuale scordarsene. Essi vengono dritti dritti dalla Guerra d'Indipendenza americana; per poi essere ripresi e dilatati a dismisura dalla Rivoluzione Francese.
E tuttavia è sempre esistito, nella tradizione di sinistra, un filone, per quanto minoritario ed eretico, che ha smascherato la miseria terrena che si nasconde sotto il cielo dei diritti universali; e sostenuto l'equità contro la giustizia. E questo filone ha avuto un peso di rilievo proprio nella costruzione del movimento comunista. Potrei citare, per quelli di voi che arricciano il naso quando sentono la parola comunista e invece si beano quando sentono socialismo e liberalesimo, un autore come Korsch, o anche Lukacs giovane; e tutta quella corrente politica che in Germania si chiamava LinksKomunism; di cui han fatto parte proprio quegli intellettuali del "pensiero critico" che sono stati tra i più significativi degli anni Venti e Trenta; anche se, per la verità, qualcuno di loro è poi finito male; penso a Lukacs, che in piena maturità, ha scelto d'occhieggiare allo stalinismo.
Così nelle riviste, nei libri, nella pittura, nel teatro, nel cinema tra le due guerre si delinea un percorso politico-culturale di straordinaria luminosità, si apre una possibilità per l'organizzazione sociale che riprende la promessa apparsa ai movimenti di resistenza contro l'industrializzazione nella prima metà dell'Ottocento.
A vero dire, questo percorso è già indicato negli ultimi scritti di Marx; ma qui, per non affliggervi con le citazioni, basterà ricordare che questo sforzo di pensiero ha cercato di rimettere con i piedi per terra il discorso sui diritti. I diritti dell'uomo nascono da individui e gruppi sociali storicamente determinati; e sono una garanzia solo per questi. Non esiste una soluzione scientifica al problema dell'organizzazione della società; perché l'organizzazione della società è strettamente legata alla storia di quella società, quindi ai luoghi in cui essa è collocata; occorre, quindi, contrapporsi agli universali che sono delle generalizzazioni del particolare-come quelle libertà esportate,dalla Francia napoleonica o dalla Russia di Lenin,in altri luoghi sulla punta delle baionette.
Ho svolto queste considerazioni-digressioni per sottolineare la necessità, per il pensiero critico, di riprendere un discorso che metta al primo posto il territorio.
A questo punto, per entrare nel concreto, risulta più interessante ritornare alla dimensione dell'agire politico; e quindi dibattere di ciò che possiamo fare qui ed ora. Secondo me, uno degli interventi più significativi è proprio quello di riflettere sulla Città come luogo dell'abitare.
Le Città, a far data almeno dalla metà dell'Ottocento, sono state tutte ripensate o meglio stravolte in termini funzionali, per consentire loro di organizzare il flusso produttivo, cioè di assolvere ai compiti derivanti dalla produzione e distribuzioni delle merci. Ma storicamente la città è nata dalla socialità animale dell'uomo, dall'esigenza di abitare insieme, che faceva premio su qualsiasi altra funzione.
Si tenga presente che le nostre città, le città del Mediterraneo, non sono nate avantieri, hanno una tradizione antichissima, non sono state inventate dagli architetti, dai pianificatori, non sono come Brasilia, né come le città americane, che so, città che cent'anni fa non c'erano e che fra cent'anni non ci saranno; città nelle quali appena ci si va ci si rende conto della cesura che esse rappresentano rispetto al paesaggio che le circonda, pianificate secondo linee geometriche, inventate dal criterio costi-benifici per assicurarne la funzionalità produttiva o burocratica; insomma, sembrano progettate a tavolino e costruite in serie.
I nostri insediamenti urbani,al contrario, si adagiano nel paesaggio e vi fanno nido; e per questo hanno, ciascuno di essi, una aura irrepetibile e inconfondibile; le case, le strade, le piazze, i vicoli si sono venuti via via formando e modificando per l'opera anonima ed ingegnosa del sapere comune. Le nostre città,quindi, devono ritornare all'origine; che non significa tornare indietro ma piuttosto ritrovare nell'abitare la loro possibilità di sviluppo; e quindi porre la valorizzazione del territorio -- delle forme di vita, dei saperi e delle tecniche ad esso connesse-al centro dello sviluppo, del nostro sviluppo; e non di quello, freddo e statistico, che i canoni europei vorrebbero burocraticamente imporci.
Del resto, lo stesso errore di astrazione dalla nostra realtà, per come si è storicamente delineata, è riscontrabile nell'adozione degli indicatori di sviluppo. A questo errore partecipano purtroppo anche le università meridionali ed in particolare l'Unical, cioè l'Università della Calabria.
Noi abbiamo bisogno di indicatori dello sviluppo, che siano indicatori locali; non possiamo avere come unico indicatore il reddito medio pro capite che è un feticcio, nato negli Usa e quindi irrimediabilmente provinciale. Una città non può essere paragonata ad un'altra città sulla base del fatto che può disporre di 20 milioni di reddito annuo medio per cittadino, mentre l'altra dispone di un reddito di 40 milioni. Non è vero che una città che ha 40 milioni di reddito annuo pro capite ha una qualità della vita doppia di quella che ne ha 20 milioni; non è così, basta semplicemente aver visitato più di dieci città per sapere che le cose non stanno così.
Tutta questa storia di usare il reddito come indicatore del benessere di una città è qualcosa che impedisce l'autoconsapevolezza dei cittadini. Noi abbiamo bisogno di indicatori della qualità della vita che facciano, prima di tutto, riferimento al paesaggio dove la città è inserita; cioè alle caratteristiche fisiche dell'ambiente, ed in particolare alla " misura del disordine " cioè a quella grandezza che in termodinamica si chiama entropia. Sostanzialmente più industrie voi impiantate in un posto e più aumenta l'entropia di quel luogo; cioè aumenta il disordine e diminuisce l'attitudine del luogo ad accogliere le diverse forme di vita. Questo è, in genere, un indicatore del tutto ignorato;sicché nel momento in cui l'autorità pubblica o l'imprenditore decidono di realizzare un investimento industriale, nessuno calcola il danno entropico che ne deriva.
L'altra classe d'indicatori significativi è quella incentrata sui servizi a disposizione dei cittadini. Assicura meglio una " buona vita " una città che eroga molti servizi con un reddito pro capite modesto di quanto accada in una città con redditi alti e servizi scarsi o inefficaci.
Per condensare queste osservazioni in una battuta, io ritengo malefico uno scenario che veda un aumento del reddito nel Meridione; se poi addirittura duplicasse sarebbe una vera catastrofe.
Non si può, infatti, prescindere, dalla struttura dei consumi per valutare l'impatto che l'aumento del reddito ha sulla qualità della vita. Per quanto paradossale possa sembrare, un aumento del reddito in presenza di consumi perversi porta ad un peggioramento della qualità della vita.
Immaginate cosa accadrebbe a Cosenza, nel centro storico, se il reddito raddoppiasse. Già ora abbiamo cittadini assistiti dal comune che hanno più di una macchina a testa; spesso queste macchine sono vecchie e scassate; ma questo non è certo un attenuante giacché provocano un significativo inquinamento. Ad un raddoppio del reddito conseguirebbe una sorta di quadruplicazione delle automobili e dei consumi ad esse legati; con un degrado definitivo della vita urbana.
Il punto di volta per ridare preminenza all'abitare è quindi una profondo rinnovamento della struttura dei consumi. Va da se che questa modificazione non possa avvenire in maniera autoritaria, non è che sia possibile ordinare: " Ecco, da domani tu consumi sano e non consumi più automobili, telefonini e coca cola". Diventa, quindi, elemento decisivo di questa strategia del "ritorno all'origine" la democrazia nel senso non della rappresentanza ma della partecipazione diretta dei cittadini. Noi abbiamo bisogno della democrazia, come una risorsa per correggere i nostri consumi. Voglio portare un esempio. Penso che non riusciremo mai, anche se aumentassero i vigili al triplo dell'organico attuale, a correggere le cattive abitudini che i cosentini mostrano di avere riguardo al traffico.
Molti, ad esempio, hanno, nei riguardi dell'automobile, che sembra l'abbiano acquistata avantieri, uno strano atteggiamento : vorrebbero arrivarci fino in camera da letto; e questo li porta a commettere molte infrazioni. Da noi sono, in grande maggioranza, i cittadini normali, voglio dire le persone per bene che violano continuamente le regole del codice della strada, e non già solamente coloro che vivono nell'asocialità o nella devianza. A Montreal, per fare un esempio, le infrazioni sono opera, per lo più, dei prepotenti e degli emarginati; da noi sono delle persone assolutamente perbene, delle persone che non hanno niente da rimproverarsi, che hanno, in genere, un comportamento del tutto urbano; salvo che per il traffico, dove mostrano una completa indifferenza, quando non ostilità ,nei riguardi del bene comune.
Allora un'opera di rimonta di questo genere, secondo me, è possibile solo con una forte tensione, con una pronunciata autoconsapevolezza di che cosa è la qualità della vita; ed il conseguente gran rifiuto dell'ideologia quantitativa, la cessazione di questo feticismo per le cifre, per stabilire se siamo, nelle stranite classifiche dell'Istat al 35° o al 72° posto, se l'anno precedente abbiamo aumentato il reddito dello 0,4% piuttosto che dello 1,2%. Val la pena notare come tutto questo turbinio di cifre nasconda il baratro della falsa coscienza cioè dell'ignoranza: la maggioranza dei nostri concittadini non sa neppure che le rilevazioni statistiche, come tutte le misure, comportano un margine d'errore ineliminabile.



Ora Locale

(Digita o Clicca su "Ora Locale" per tornare indietro)


L'edizione on-line di Ora Locale e' ideata e progettata da
Walter Belmonte