"Quale scelta per la Regione"
Ho da subito apprezzato la proposta di Piero Bevilacqua per una riflessione ampia e attenta sulla situazione politica in Calabria; o meglio, sull'aporia di un sistema politico occupato e monopolizzato dai partiti, che diventano il "non luogo" della democrazia in cui sta finendo per consumarsi definitivamente la frattura fra istituzioni e società civile. Iniziativa proprio più apprezzabile, e apprezzata, perché lanciata e sostenuta da uno studioso la cui onestà intellettuale, politica e morale è sempre stata fuori discussione; e il cui disinteresse personale è garanzia di interesse generale nei confronti di una regione tormentata dalla cupidigia dei suoi figli prediletti. Ciò non di meno, non era mia intenzione intervenire in un dibattito che consideravo e considero importante, ma i cui sviluppi rischiavano, a mio avviso, di essere bloccati dal solito rigurgito di centralismo partitocratrico ben presente e vivo a Cosenza ed in Calabria. Così è già stato, del resto, per le interessanti iniziative che soggetti quali Ora Locale e La Città Futura hanno, in questi anni, coraggiosamente messo in campo; e che si sono scontrate con il muro innalzato dai partiti e dai loro dirigenti, strenui difensori di interessi e privilegi di cordata. Ed è lecito, allora, far tornare alla memoria quanto Kafka diceva a proposito dei manifestanti - secondo Janouch - osservando una manifestazione operaia: "Essi sono padroni della piazza e si credono padroni del mondo. E tuttavia si ingannano. Dietro di loro si avanzano già i segretari, i burocrati, i politicanti professionali, tutti i sultani moderni dei quali essi preparano l'accesso al potere" (M. Lowy, Rédemption et utopie, Paris 1988, p. 108).
Non me ne vogliano Carlo Mileto e Filippo Veltri, ma anche la mia penna è senza peli; ed è per me evidente che la loro è una filosofia dell'autorità, in quanto non riconosce l'altro; filosofia del soggetto (in questo caso il "soggetto collettivo", il Partito come unica istanza di razionalità e di verità), che esclude l'altro fagocitandolo e autoaffermandosi come unica e sola fonte di verità.
Una siffatta razionalità politica è proprio quella ormai messa sotto accusa dalla nostra società. Già Habermas ci aveva indicato, invece, nella ragione comunicativa un diverso modo di presentarci all'altro; filosofia dei soggetti dialoganti che è il senso vero, io credo, della proposta di Piero Bevilacqua. In questo senso, la verità può trovarsi nella discussione e nell'incontro, a patto però di osservare le necessarie regole di "onestà semantica".
Vorrei preliminarmente dire che non occorre, credo, ritornare sulle cause del "terremoto" del '92, perché a tutti troppo note. Certo è da lì, però, che inizia una stagione di "trasformismo" caratterizzata non solo e non tanto dal passaggio da una parte all'altra di singoli personaggi politici, ma dalla modificazione e dal cambiamento di interi gruppi e partiti; e se in alcuni casi ciò era auspicabile e anche necessario, in altri ha provocato una crisi di rappresentanza senza pari. Cadute le ideologie, in una società diventata d'improvviso tutta "moderata e liberale", destra e sinistra hanno finito col perdere per strada le loro differenze peculiari. E non sorprende, di fronte a una sinistra che ha portato avanti una politica "di destra", che coloro che erano stati gli attivi militanti dei partiti abbiano progressivamente disertato sezioni e federazioni. E' da questa situazione - caratterizzata dall'autoreferenzialità dei gruppi dirigenti dei partiti - che è venuto meno il legame con la base sociale e con la gente. Centralismi, personalismi, mera occupazione di poltrone, difesa dello "status quo": sono questi i "peccati" che hanno provocato la dura reazione dei movimenti e della società civile. Far finta di nulla, oggi, è ancora più grave; ed è suicida denegare le istanze di cambiamento della gente. Né, mi pare, che nella proposta di Bevilacqua si nasconda una concezione elitaria e terzinternazionalista; è nella concezione del partito come del soggetto che conosce e può imporre la "volontà generale", per mezzo di una élite che rappresenta la "coscienza" di una massa altrimenti "tradunionista", che io ritrovo invece lo schema "bolscevico" (e, in ultima istanza, giacobino). Sottovalutare, poi, l'apporto e la presenza degli intellettuali come centro sollecitatore di sviluppo è errore storico di grande rilevanza: è stato Gramsci a comprendere l'importanza degli intellettuali nella conquista dell'egemonia; e proprio nel saggio sulla "Questione Meridionale" ne ha individuato il ruolo fondamentale per il mantenimento del famigerato "blocco agrario". Un ceto, quello intellettuale, che in Calabria è maturato, producendo un'inversione di tendenza, e che oggi rappresenta veramente un'avanguardia che propugna e ricerca il cambiamento. Ma che cosa intendo, io, per intellettuale? Intendo, sicuramente, la figura che disegnava Gramsci, che si lega strettamente alla definizione di Bevilacqua delle classi dirigenti: imprenditori, studiosi, professori e studenti universitari, professionisti, tecnici, sindaci, amministratori comunali, ecc. In questo senso, la classe politica è stata, fino a ieri, anche ceto intellettuale; non così oggi, che è purtroppo ripiegata su se stessa e interessata solo alla sua infinita clonazione e alla conservazione dei suoi antichi privilegi.
Detto questo, mi sembra chiaro che l'analisi della società civile, su cui poggia la proposta di Ora Locale, non è sbagliata; e non è difficile dimostrare come il ceto politico calabrese abbia sempre fatto da "tappo" alle sue potenzialità. Migliaia di miliardi di vecchie lire, di fondi statali e comunitari, sono andati persi e si perdono tutt'ora per l'incapacità della classe politica regionale a svolgere una seria programmazione del territorio e delle risorse; e qui non faccio differenze, né di destra né di sinistra e né di centro. Se i partiti avessero espresso, ed esprimessero, una capacità e una volontà progettuali appena un po' più serie, le condizioni economiche e sociali della Calabria certamente sarebbero altre. Come rispondere, si è chiesto Bevilacqua, alla ricerca di lavoro di tanti giovani? I partiti si sono interrogati - aggiungo io sommessamente - sulla possibilità di utilizzo produttivo dell'immenso patrimonio di beni culturali, e naturali, come volano di sviluppo sostenibile - e di sviluppo con autonomia - del nostro territorio?
Sono questi i temi che Piero Bevilacqua, con la saggezza della sua "ragione umile", ha posto come materia di discussione collettiva. Senza questa discussione, a ben vedere, non servono né primarie né comizi. E se democrazia significa consenso, per "saper vincere" è assolutamente necessario e imprescindibile stabilire perché, e per chi, si vuole vincere.