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L'otto marzo

di Ciccio Caruso


Non era una bella giornata: le strade erano ancora fresche di pioggia caduta nella notte; il tempo molto incerto e le schiarite si alternavano a rari spruzzi di pioggia.
Nella città, un po' ovunque, da Piazza Duomo al Tribunale, sui due lati di viale Mazzini, all'imbocco delle traverse che da via Vittorio Veneto portano al mare, lungo le parallele che scorrono verso il cimitero e sul piazzale antistante l'ospedale, venditori occasionali offrivano ai passanti per qualche euro rametti di bellissime mimose.
Era la giornata delle donne: un'occasione in più per regalare un fiore, ricambiare un messaggio di amicizia; rinnovare una promessa d'amore.
Ma l'otto marzo è molto di più e per tantissime donne è anche un appuntamento con la memoria, un ponte tra passato e presente per ricordare e non lasciarsi vincere dall'indifferenza o peggio dall'ignavia che impedisce di pensare e riflettere, una delle tante tappe del loro viaggio verso l'indipendenza e la liberazione dalla condizione di soggezione.
In un lontano passato, nel marchesato di Crotone, l'otto marzo non era la giornata delle donne ma la ricorrenza di una immane tragedia: il terremoto che all'alba di centosettanta anni fa nella Calabria Ulteriore Seconda, ha provocato lutti e distruzioni. Dal Corace al Neto, i centri abitati interessati dal sisma sono stati tantissimi e tra quelli più colpiti Crotone e Papamice con oltre duecento morti; e poi ancora Simeri, Crichi, Cropani, Cuturella, Andali, Cutro, Roccabernarda, Rocca di Neto, Le Castella, San Mauro Marchesato, Scandale, Petilia Policastro e Mesoraca. La gente di Petilia Policastro per scongiurare altre tragedie la sera dell'otto marzo sui davanzali delle finestre e sui balconi accendeva un lume. Nel corso degli anni quella manifestazione propiziatoria si è trasformata nella tradizione detta delle luminarie; e dopo la fine della seconda guerra mondiale è stata soppiantata dalla giornata delle donne. Il perché della soppressione non è chiaro: comunque, recentemente, quel rito di preghiera e di partecipazione è stato ripristinato; ed ora, scrive F. Fillottete Rizza, la sera dell'otto marzo, le campane sono ritornate a diffondere il loro messaggio suonando a lutto. A quei rintocchi lenti e mesti, che hanno le note di una nenia struggente, il silenzio cala all'improvviso su tutto il paese: gli anziani che si ritrovano per le vie si tolgono il cappello con gesto riverente; mentre nelle case le donne si segnano affrettandosi di accendere il proprio lume. Le finestre e i balconi splendono di fiammelle; le campagne circostanti si animano di luci e il paesaggio, da una parte all'altra del paese, è tutto un luccicare di fiammelle che danno l'aspetto di un suggestivo presepe.
È una testimonianza di fede, sentimenti antichi di paure e di speranza ma anche di collera che, per quanto grande e diffusa tra la gente, non riesce ad andare oltre i confini della pietà e trasformarsi in coscienza critica, in rivolta civile e morale contro i crimini di tante altre tragedie che già viviamo sulla nostra pelle impotenti.
Ermanno Rea nel suo interessante romanzo inchiesta Mistero Napoletano -Vita e passione di una comunista negli anni della guerra fredda- racconta che: " il tredici giugno del 1940, solo tre giorni dopo l'entrata in guerra dell'Italia, Parigi, il cuore dell'intellettualità, il luogo dove dimora la speranza come fede dell'uomo, come anticorpo della disperazione sociale, politica ed esistenziale brucia e si arrende alle truppe tedesche; e quando Parigi cade nelle mani della barbaria come fai a non sentirti senza speranze, defraudato della dignità, dell'identità e dei diritti?"
Era appena l'inizio della più grande tragedia umana del novecento e quel pomeriggio alcuni militanti dell'antifascismo napoletano tra cui i comunisti Galdo Galderisi, Renzo Lapiccirella, Francesca Spada e Mario Palermo, (che dopo la guerra sarà deputato e sottosegretario alla difesa, nel governo di Unità Nazionale), angosciati e con il cuore gonfio di collera per la notizia della resa di Parigi, come per un segnale convenuto, da punti diversi della città si sono messi in cammino verso la casa di Renato Caccioppoli, il professore di analisi matematica che, tra l'altro, sapeva suonare in modo eccelso il pianoforte ed il violino. Per molti di loro, quel matematico un po' matto era il collante politico, la voce più autorevole, forse la sola che avrebbe potuto placare le inquietudini che avevano dentro, per ciò in quale altro posto potevano andare per trovare il conforto e le risposte che cercavano se non da lui?
"Renzo Lapiccirella ricorda quel pomeriggio come una specie di teatro silenzioso interpretato da gente allibita e rassegnata al peggio, rigidamente seduta nello studio, proprio come si sta seduti accanto al letto del caro estinto, che in quel caso era la libertà, anzi la civiltà stessa, perché questo e non altro simboleggiava la resa di Parigi, e che Renato Caccioppoli, di fronte a quel silenzio glaciale, più che parlare, alzò improvvisamente il coperchio del pianoforte e, in piedi, con la mano destra accennò al motivo della "Marsigliese", pochissime note soltanto senza ritmo, sfibrate, simile ad un flebile respiro", ma sufficienti per stemperare il clima di tristezza, ritrovarsi con lo sguardo e, commossi fino alle lacrime, abbandonarsi in un abbraccio intenso e solidale; e in quel gesto che non aveva bisogno di parole per essere spiegato, c'era tutto: la sofferenza, il rammarico, e la determinazione di continuare la lotta contro il fascismo e la guerra.
Ma quello era il tempo delle tenebre, del Taci, il nemico ti ascolta!, dell'aggressione fascista al mondo civile, ora che invece è tornata a splendere la luce della libertà perché non fare qualcosa di più della preghiera o di qualche sporadica protesta per dare voce ai diritti negati, porre fine alla tragedia della fame e della sete, bloccare la pratica della violenza, del terrorismo e delle guerre umanitarie dei vari Bush e Blair che uccidono e distruggono mille volte di più di tutti i terremoti e le alluvioni messe insieme? È probabile che questi sentimenti di giustizia e di pietà non sono ancora abbastanza radicati dentro di noi: e se non sono abbastanza dentro di noi è inutile cercarli altrove, perché non li troveremo mai da nessuna parte.
L'anno scorso in occasione della giornata della memoria, abbiamo scritto alla signora Springer, una delle poche sopravvissute allo sterminio nei lager nazisti di milioni di persone, uomini, donne, ebrei, russi, nomadi, gay, questa lettera: Carissima Elisa fuori non c'è molto sole e fa freddo ma per noi è come se fosse una bellissima giornata di primavera perché l'Auditorium dell'Istituto "Sandro Pertini" è stracolmo di gente venuta per la "Giornata della Memoria". Siamo proprio in tanti: ragazzi e ragazze che non sanno e vogliono sapere, uomini e donne che invece sanno e non vogliono rinunciare alla verità e al diritto di ricordare. In questa prima Giornata della Memoria, che ripropone tanta tristezza e tantissime speranze abbiamo pensato a te, a Hedy e a i piccoli di Herta e Isaac, Rea e Carmi; e poi ancora a Fanny e a tutti gli altri che ad Auschwitz, Bargen-Belsen, Buchlvald, Mauthausen, Treblynka, Maydanek uomini perversi hanno trasformato in cenere e nebbia. E pensando a te, sono ritornati pressanti nella mente le immagini di altri orrori che, complice anche la nostra indifferenza si consumano quotidianamente nel mondo, dall'Europa al Medio Oriente , dall'Africa al Sud America. Forse hai ragione tu: il nostro impegno contro il Silenzio dei Vivi, che impedisce di pensare a sentimenti veri come la pietà e l'amicizia e allenta la vigilanza, non è stato e non è ancora all'altezza della sfida dei tempi; ma non disperiamo perché le ragioni per continuare a credere in un mondo diverso e migliore sono più forti della frustrazione.
Elisa, queste poche parole per salutarti, esprimenti la nostra gratitudine, parlarti delle nuove paure che si intravedono nell'orizzonte dell'umanità e anche per dirti che oggi non possiamo come non potemmo ieri e nemmeno potremo domani fare nient'altro che pensare alla vostra immane tragedia e amarvi.
Quest'anno l'otto marzo, che ricorda la tragedia di decine e decine di operaie americane arse vive nell'incendio della fabbrica dove il padrone le aveva rinchiuse per non farle partecipare allo sciopero, la mattina, molto presto, all'angolo del Bar del Corso, abbiamo comprato delle mimose: erano tutte per Mally la ragazza curda morta nel mese di ottobre nel mare su quella vecchia carretta che dalla Turchia la stava trasportando verso Crotone; e per Marietta, la giovane donna di Crotone che abbattuta della mitraglia nemica chiese invano l'ultimo bacio al sole morente.
Mally era nata ad Akladrem, aveva appena ventisette anni e sognava di trovare in Europa un posto dove potersi fermare e vivere la sua storia di madre e di sposa, ma non ce l'ha fatta perché il suo cuore logorato dalle privazioni e dalle sofferenze subite si è inceppato, e quando Crotone era già nei suoi occhi non ha più risposto alle sue forti e convulse sollecitazioni. Quella di Mally non è una tragedie della follia, nè il gesto estremo di una giovane donna sola e sconfitta dalla disperazione, ma la spia di un dramma umano molto più grande: il dramma di tutti i poveri e di tutti gli oppressi del mondo; del popolo curdo, milioni e milioni di uomini e donne costretti a disperdersi perché altri uomini potenti e perversi gli hanno rubato tutto, la libertà, la terra e la lingua ereditate dai padri.
Mally era certamente angosciata, ferita nel suo orgoglio di donna, indignata per la sua condizione di persona senza diritti, ma amava tanto la vita al punto di rischiarla, di giocarsela in una partita estremamente difficile pur sapendo che la carta della speranza, l'unica che aveva in mano, da sola poteva non bastare per vincere la battaglia e trovare in qualche posto lontano dalla Turchia quei sentimenti di pietà e quella possibilità di poter anche solo immaginare un' esistenza appena dignitosa che un potere arrogante e dispotico glia aveva sempre negato. Ci ha provato e ha perduto: come Alicia Dolores e le tante altre donne che nel mondo, in Palestina come in Israele o in Nigeria, vivono sulla loro pelle esperienze drammatiche e sconvolgenti di inaudita violenza.
Alicia la protagonista di un'altra storia di emarginazione, ed il suo compagno erano messicani, giovanissimi e molto innamorati. Si conoscevano da sempre perché cresciuti nella stessa strada di un quartiere dell'estrema periferia di una città sulla linea di confine con gli Stati Uniti d'America. Avevano deciso di mettersi insieme: non volevano disperdere le emozioni e i sentimenti che, dal tempo dei giochi, bruciavano dentro di loro passioni e desideri intensi d'amore e che costituivano l'unica vera ricchezza della loro giovane esistenza. Pensavano di trovare un lavoro, costruirsi una casa e mettere al mondo tanti figli come avevano fatto i loro genitori.
Sapevano che nel loro Messico, dilaniato da una crisi economica endemica, quella prospettiva, per quanto modesta, era proibitiva anche solo immaginarla, ma ci provarono. Erano fiduciosi, avevano tanta voglia di lottare e pensavano di potercela fare, ma le cose sono andate molto diversamente: e col passare del tempo nella loro mente, come sarà per Mally, si è fatta strada l'idea di affrontare il rischio, varcare il confine e raggiungere l'America. E così dopo alcuni tentativi falliti trovarono il passo giusto che li portò dall'altra parte del mondo, ma anche la nuova avventura è stata allucinante: per mesi e mesi si sono nascosti nei boschi che confinavano con un villaggio; vivevano alla giornata con quel poco che si procuravano durante le escursioni notturne negli orti dei vicini e con qualche dollaro guadagnato lavorando nei campi quando riuscivano a superare i controlli della polizia. Dormivano in un capanno molto precario, costruito con i rami degli alberi, su un letto di foglie sparse per terra e coperti da stracci. Alicia era stanca ed avvilita; quella vita non era più vita ma un inferno che stava distruggendo un po' tutto: la resistenza fisica e psicologica, la salute, i sogni e il desiderio di amare.
Durante il suo peregrinare alla ricerca di un briciolo di comprensione, di una parola di conforto, di un piccolo sostegno per la concessione di un breve permesso di soggiorno, è stata umiliata, pestata, derubata dei pochi spiccioli che aveva messo da parte e stuprata.
L'inverno con le sue piogge torrenziali era ormai prossimo e per Alice uscire da quel maledetto tunnel era diventata la cosa più urgente ed importante da fare. Vagò ancora per qualche tempo alla ricerca di quell'America Liberal-Democratica, che aveva sognato ed inseguita disperatamente senza trovarla e quando, già , stanca, avvilita ma non vinta, fu sorpresa dalla polizia, più che collera, provò una sensazione di piacevole sollievo; e concluse le formalità burocratiche alla domanda dello sceriffo se avesse qualcosa da dire o da chiedere, rispose che le uniche cose che desiderava prima di essere espulsa erano una doccia calda e un vero letto per riposare almeno una notte da essere umano.
Alicia Dolores è tornata in Messico delusa ma non rassegnata a rinunciare a lottare per cambiare il suo destino di donna; mentre Mally ora riposa nel cimitero del suo paese.
Quel primo settembre del 1941, Marietta percorreva tranquillamente Viale Regina Margherita, quando il fuoco della mitragliatrice di un caccia bombardiere inglese non le lasciò neanche il tempo per un lamento. Al di la della strada sulla banchina del "Molo Giunti", dilaniati dalle bombe morirono altri tre lavoratori: due portuali e un marinaio. Era appena trascorso mezzogiorno e solo pochi istanti prima le bombe sganciate sulla Montecatini avevano provocato decine di morti, tantissimi feriti e ingenti danni agli impianti industriali. Poteva essere una strage ma il caso ha voluto che le prime bombe centrassero la fabbrica quando il grosso degli operai di manutenzione aveva abbandonato i reparti e raggiunto la mensa per consumare il pasto.
Fino a tarda notte una fiumana di persone affluita dalla città aveva assediato la fabbrica alla ricerca di notizie che nessuno era in grado di dare: c'era tanta confusione, tutti cercavano tutti e col passare del tempo l'apprensione e l'inquietudine della gente erano diventate esplosive. Solo la massiccia presenza delle forze dell'ordine e la conoscenza delle reali dimensioni della tragedia placarono un pò gli animi evitando il peggio. Il bombardamento aveva danneggiato gravemente la fabbrica e letteralmente disintegrato il reparto spedizione e gli operai che si trovavano dentro per preparare lo stock di concime da spedire.
L'opera di soccorso dei feriti ed il recupero delle salme, sono stati particolarmente difficili e raccapriccianti: la violenza dell'esplosione delle bombe aveva disseminato quei poveri corpi straziati di operai un po' ovunque. Morirono tredici lavoratori e Felice, il più giovane, non aveva ancora compiuto diciotto anni: il dolore, lo sconforto, i sentimenti di pietà e l'indignazione della gente, le esequie, tutto quel giorno si trasformò spontaneamente in una grande manifestazione di protesta contro la guerra. Marietta era un'ostetrica e quel primo di settembre, dopo aver aiutato un maschietto a separarsi dal pancione e dal cordone ombelicale della madre, stava tornando verso casa. Era mezzogiorno, tutto si era svolto felicemente e Marietta era completamente appagata; fuori il cielo terso si perdeva a vista d'occhio e la luce del sole era calda e trasparente come l'aria: Marietta aveva ancora negli occhi l'immagine di quella creatura appena nata e dentro tantissime emozioni che non ebbe più il tempo di trasmettere a nessuno.
Camminando rimuginava desideri mai rimossi dalla mente: forse pensava alla mamma che sarebbe stata e che non era; o al figlio che avrebbe voluto e che non era arrivato. Si era lasciata andare; aveva voglia di fantasticare e mentre nella memoria scorrevano veloci immagini di vita appena sbiadite dal tempo, quel rumore sinistro di guerra, che probabilmente Marietta aveva scambiato per una dolce melodia, non ha avuto pietà dei suoi crucci e dei suoi sentimenti.



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