La forte tendenza alla visionarietà e - a giudicare col senno di poi - uno sguardo talmente penetrante sul futuro da sfiorare a tratti il 'vaticinio', creano uno scarto molto vistoso tra i contenuti del volume e il tipo di letteratura cui pure esso, visti i molteplici interessi dell'autore, si pensava appartenesse. Nulla di più sbagliato.
Giorgio Agamben, in questo libriccino pubblicato per la prima volta nel 1990 presso la Einaudi, affronta il tema de La comunità che viene e cioè del tempo presente (che egli definisce nella Postilla "come [il] tempo che viene dopo l'ultimo giorno, come [il] tempo in cui nulla può accadere perché il novissimo è tuttora in corso"), facendo ricorso di volta in volta all'ontologia, ad esempi tratti dal Talmud, a giudizi critici verso taluni aspetti del capitalismo (tra Marx e Guy Debord). Ma senza accenti apocalittici e annunci di catastrofi prossime venture; bensì (e detto un po' all'ingrosso) intravedendo nel processo di svuotamento del linguaggio, già verificatosi del tutto, e nella riappropriazione, da parte dell'uomo, di un' "esperienza" legata "alla propria essenza linguistica" una via di uscita per la sua 'salvezza' terrena.
Rimane da chiarire - e non è affatto un aspetto secondario - di quale uomo si tratti; e soprattutto a quale tipo di comunità egli appartenga. L'uomo "nuovo" che esce dalla penna di Agamben, è privo di qualsiasi forma di identità: dati i tempi in cui viviamo può infatti risultare inutile, e perfino dannoso, rincorrere le vecchie identità, espressioni di comunità locali coese, e saldate intorno a valori condivisi; inutile opporsi in questo modo all'indistinto che crea lo stato accentrato, in nome di identità ormai consegnate al tempo che fu - e di cui soltanto in pochi conservano memoria diretta (quella tramandata è quasi inesistente o, se ve ne è rimasta traccia, essa risulta annacquata da elementi posticci). I temi fatti propri dal comunitarismo nostrano, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, non appartengono al discorso di Agamben. In lui vi è piuttosto il tentativo, ricercato con un puntiglio e una erudizione davvero sorprendenti, di definire le caratteristiche dell'"uomo che viene": ovvero delle "singolarità qualunque" in cui si è trasformata "la piccola borghesia [che] ha ereditato il mondo [...]; la forma in cui l'umanità è sopravvissuta al nichilismo".
Per "le singolarità qualunque", che tutti ci avviamo dunque a divenire - privi come siamo di un linguaggio che non rivela se non "il nulla di tutte le cose", ostaggi di un regime "democratico-spettacolare in cui il capitalismo ha confinato il corpo mercificato", eppure liberi in potenza - esiste una politica che sciolga le invisibili catene da cui siamo avviluppati? Giorgio Agamben ritiene che sì, la "politica della singolarità qualunque, cioè di un essere la cui comunità non è mediata da alcuna condizione di appartenenza (l'esser rosso, italiano, comunista) ma dall'appartenenza stessa", si ritrovi pari pari in un evento tragico che ha segnato gli inizi degli anni Novanta ( e, a quanto sembra, di una nuova èra). A dimostrazione egli intitola l'ultimo dei diciannove capitoli (più un capitolo finale, che può essere letto come un commento al capitolo 9 di Essere e tempo e alla prop. 6.44 del Tractatus di Wittengstein) in cui si articola il libro, Tienanmen: come a dire che in quella piazza è stata inaugurata un tipo di politica nuova (antistatale; sovversiva, ma in un senso tutto particolare del termine). Certo, sino a quel momento sconosciuta. Si tratta, per l'appunto di una politica delle "singolarità qualunque": di esseri che fanno "comunità senza rivendicare un'identità", senza che essi "co-appartengano rivendicando una condizione di appartenenza".
Il problema, tuttavia, è che lo stato non può permettere che una moltitudine di individui facciano comunità senza rivendicare un'identità precisa. Di qui gli scontri avvenuti in quella piazza, simbolo di un'umanità "che viene", il cui scopo principale, però, non è affatto la conquista dello stato (le rivendicazioni di democrazia e libertà essendo ormai troppo generiche e scontate), ma "l'appropriazione [della loro] appartenenza, [del loro] essere-nel-linguaggio, declinando ogni identità".