Lo scorso mese di maggio 2003 è stato teatro, in Italia, di un’invasione
pacifica, attesa e ricercata, fortemente voluta: contaminazione di pensiero e cultura;
incontro con “l’altro”. Uni(di)versité – itinerari italiani del pensiero francese 2003 –
ha rappresentato l’occasione di un convegno policentrico, certamente anche
polifonico, in cui gli Atenei italiani interessati al progetto si sono impegnati, insieme
a quelli francesi, “nella costruzione graduale di un laboratorio permanente di scambio
e dialogo, nel cui ambito l’erudizione e la ricerca potrebbero affrontare i quesiti posti
dalla contemporaneità”. È una pista d’azione per una collaborazione universitaria
italo-francese che si è aperta, ricercando e auspicando anche coinvolgimento e
partecipazione del mondo dell’associazionismo culturale. Un progetto ambizioso –
che ha centrato i suoi obiettivi senza difficoltà alcuna, suscitando grande attenzione e
interesse – e che ha visto in prima fila, per la nostra regione, l’Università della Calabria e il Laboratorio Politico Culturale “La Città Futura”.
Dopo il grande successo del Convegno Internazionale su Gaston Bachelard,
organizzato dal Dipartimento di Filosofia dell’Unical, altrettanta importanza ha avuto
la Conferenza di Marc Augé sul tema “Un mondo senza finalità”. L’incontro, tenutosi
mercoledì 28 maggio rigorosamente in lingua francese, è stato organizzato dai Corsi
di Laurea in Scienze Sociali e in Scienze Turistiche dell’Unical e dall’Associazione
“La Città Futura”: un’occasione per interrogarsi su dove stiamo andando e che cosa
sta accadendo al mondo. Un tema imbarazzante, ma di grande rilevanza nelle
università e nelle scienze sociali; interrogativi che non riguardano, però, solo gli
attori sociali, ma che ineriscono ai problemi che ci si pone sul proprio modo di
studiare come studenti e docenti. È stata, dunque, una conferenza in francese: come
tale, un onere e una responsabilità importanti. Un compito per il quale ci si è
attrezzati con il fine precipuo di coniugare le diversità; e, nel contempo, per
“rammentare al pubblico giovane che l’interesse per l’altro e la curiosità reciproca
depongono vivacemente a favore dell’apprendimento o almeno della comprensione
della lingua del vicino”.
Marc Augé non ha bisogno di presentazioni: direttore di studi in Logica
simbolica e ideologica all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, di
cui è stato a lungo presidente, è l’antropologo che – pur essendo africanista di
formazione – più si è occupato della modernità e della post-modernità in Europa e
negli Stati Uniti; ovvero della “surmodernità”, come egli stesso la definisce, nella sua
dimensione più particolare, ma anche più penosa e terribile: gli spazi dell’anonimato
e della solitudine. I non-luoghi che tutti frequentiamo: i supermercati, gli aeroporti, le
grandi catene alberghiere; quegli spazi che annullano la nostra identità e ci inglobano
nella società di massa.
Ma è un mondo, il nostro, una società che, secondo Marc Augé, per molti versi
“si annoia”: una forma di scoraggiamento capace di sfiorare l’indifferenza. Una
disaffezione e un discredito che non investono solo la politica, come comunemente si
vuol far credere, ma che abbracciano il senso della stessa vita umana nella sua
interezza. Viviamo in un’epoca di transizione, al cui termine “la terra non sarà più
che un punto d’arrivo e di partenza”; e, di fatto, gli uomini già vivono oggi in una
comunità globale che, avendo assunto le dimensioni del pianeta, ha sconvolto e
sovvertito i tradizionali concetti di spazio e tempo. Ci troviamo, qui, ad affrontare
una problematica estremamente rilevante, molto discussa – oltre che in antropologia
– anche in filosofia politica: basti accennare al pensiero di Hanna Arendt sulla
condizione umana, per la quale nell’età moderna “La velocità ha conquistato lo
spazio; e anche se questo processo di conquista trova il suo limite nell’insuperabile
difficoltà che uno stesso corpo sia presente in due luoghi differenti, esso ha reso
indifferente la distanza, poiché nessuna parte significativa di una vita umana – anni,
mesi o anche settimane – è più necessaria per raggiungere alcun punto della terra” (H.
Arendt, “Vita Activa” – IX edizione Tascabili Bompiani, luglio 2001 – pag. 184). Ma
anche Marshall McLuhan, nel 1964, descriveva il celebre “villaggio globale” nei
termini di uno spaesamento; di una abolizione del tempo e dello spazio che, pur
annullando palesemente le distanze finisce col determinare una perdita di senso che è
prima di tutto smarrimento identitario singolare per diventare poi, in ultima analisi,
scomparsa del “senso comune”. È la perdita, cioè, del senso condiviso della realtà;
quella dissoluzione che è causa di noia, stanchezza e disgusto, di quel “conformismo”
diffuso che ammorba il nostro orizzonte quotidiano e fagocita la nostra capacità di
pensiero e di critica. E come non far tornare alla memoria, in questa sede, il “si”
anonimo e pervasivo della filosofia heideggeriana, quello “stato interpretativo
pubblico” che è la situazione media della nostra quotidianità; ovvero l’attore
protagonista della chiacchera e della curiosità che, in quanto versioni degradate del
discorso e della visione, occultano la condizione di base dell’essere umano: essere
sempre coinvolti in un mondo?
Ci troviamo di fronte, per tornare a Marc Augé, alla famosa “accelerazione
della storia”, in un tempo senza spazio che diventa “tempo simultaneo”. Queste
modificazioni brutalmente accelerate hanno fatto del pianeta uno spazio di
comunicazione: grazie ai media si abita sempre più spesso non il mondo, ma la
descrizione del mondo e lo spazio dell’abitare – il luogo – non corrisponde più
necessariamente al suo spazio fisico. Si abitano spazi immateriali, comunità virtuali;
“non luoghi”, ossia spazi denaturati frequentati ogni giorno da una moltitudine
assolutamente indifferente. Ritroviamo, a questo punto, per l’antropologo francese,
un’ambivalenza dell’impensato e dell’impensabile: “impensato del consumo,
immagine di un presente insuperabile definito dall’abbondanza degli oggetti che ci
propone, impensabile della scienza, sempre al di là delle tecnologie che ne sono la
ricaduta”. Il mondo del consumo, per Augé, basta a se stesso, ha sembianze di una
cosmologia, definisce il suo modo d’impiego. La cosmo-tecnologia ha in sé il proprio
fine; definisce la natura e i mezzi di relazione, che gli uomini possono intrattenere
riferendovisi.
Le questioni classiche che vanno riprese vertono, dunque, su tre relazioni
essenziali: la relazione tra le scienze e la società, la relazione tra le scienze e il potere,
la relazione tra le scienze stesse; e sono da collegare con le questioni complementari
della democrazia, della sovranità e del sapere. Il caso delle scienze umane o sociali è,
però, particolare: sono delle scienze storiche (prese nella storia), perché lo stato dei
luoghi fa classicamente parte del loro oggetto; e nella misura in cui le formazioni
politiche e sociali, le ideologie, la sistemazione dello spazio e la demografia
cambiano, queste modificazioni sono oggetto del loro studio e della loro ricerca. La
“conquista dello spazio” fa adesso parte dello stato dei luoghi perché mette in gioco i
parametri dell’avvenire; e l’avvenire della nostra società, l’avvenire del pianeta non
può immaginarsi facendo astrazione dalla scienza perché essa, alla fine, ordinerà il
sociale.
Cosa ne è, a questo punto, del compito dell’immaginazione? L’immaginazione
è un oggetto di ricerca: i racconti, i miti, i riti, i sogni nei quali si depone o si esprime
l’immaginario degli altri sono una materia di scelta per l’etnologo. Ma
“immaginazione” è la condizione di un rinnovamento dell’antropologia: lo shock
inflitto dall’Occidente all’immaginario degli altri non è stato senza conseguenze sul
proprio immaginario e “la colonizzazione e l’occidentalizzazione hanno suscitato una
sorta di big-bang ideologico le cui ricadute si disperdono oggi, con un apparente
disordine, sul mondo mondializzato”. I monoteismi, in generale, aspirano
all’universalizzazione del loro messaggio e gli integralisti esasperano queste
aspirazioni; cosicché l’integralismo si presenta come mondializzazione
dell’immaginario, che può avere conseguenze terribilmente reali, e come
mondializzazione dei poveri. L’eccletismo occidentale, da parte sua, è plasmato dallo
spirito consumistico e ciascuno si costruisce, con l’aiuto delle nuove tecnologie, la
propria cosmologia. In questo senso, il mondo della televisione è esemplare di questo
postmodernismo del povero e questi comportamenti, provocati dalla società
dell’immagine, sono molto simili a quelli comandati dalla fede del semplice: ci si
trova, qui, in una situazione di sopravvivenza; e poiché “siamo tutti ai piedi dello
stesso muro e nella constatazione di ciò che è divenuta la nostra immaginazione
possiamo concepire la necessità di un nuovo sforzo d’immaginazione”.
Dunque Marc Augé, teorico del non-luogo, ci presenta la visione di uno
“spazio pubblico” che – in una società globalizzata in cui “le piazze sono finanziarie
e i mercati borsistici” – sembra essersi estinto: per dirla, ancora una volta, in termini
arendtiani, “ciò che rende la società di massa così difficile da sopportare non è, o
almeno non è principalmente, il numero delle persone che la compongono, ma il fatto
che il mondo che sta tra loro ha perduto il suo potere di riunirle insieme, di metterle
in relazione e di separarle” (idem, pag. 39). E la sensazione terribile che ci
rappresenta Augé è che il potere (potere nelle imprese, potere delle imprese) sia la
finalità dominante dei padroni dell’economia; cosicché, “nell’ora delle
decolonizzazioni, delle fusioni e del mercato mondiale, questo potere non ha bisogno
di essere politico nel senso tradizionale del termine: ha giusto bisogno di alcuni
ricambi politici per liberarsi della gogna della regolamentazione”. È la logica
finanziaria quella che interessa e che fa sì che la finalità del sistema economico
dominante possa essere riassunta nella sua stessa riproduzione, nel mentre – invece –
intere popolazioni sono minacciate dalla fame.
È sulla questione dei fini, in effetti, che per Marc Augé si può misurare lo
smarrimento ideologico del nuovo sistema planetario: questa fine delle finalità apre la
via a tutti gli sfruttamenti. “E sotto i rumori della società comunicazione-
consumismo, dietro lo schermo delle diverse forme di illusioni, non si percepisce che
un silenzio senza precedenti, confessione di una perdita totale di immaginazione: un
silenzio che invade anche le nostre istituzioni, i nostri scambi e le nostre persone”. Ci
sarebbe allora posto, forse, in questa situazione, per un’antropologia del silenzio che
dovrebbe, però, avere un oggetto più che ampio: l’indebolimento, lo svenimento o la
sparizione del linguaggio dei fini; sarebbe la prima tappa di un’antropologia dei fini.
Se l’umanità fosse eroica, generosa e cosciente di se stessa, secondo Augé si
compiacerebbe dell’idea che la conoscenza è il suo fine ultimo: capirebbe che la
divisione dei beni rappresenta per essa la soluzione più economica; non lascerebbe
che la posta del potere oscurasse l’ideale della conoscenza. Ma per l’antropologo
francese l’umanità non esiste, non vi sono che uomini, cioè delle società, dei gruppi,
delle potenze (“Non l’Uomo, ma gli uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la
legge della terra”, scriveva la Arendt in “La vita della mente”, pag. 99 – Il Mulino,
Bologna 1987); e il paradosso di oggi vuole che sia al colmo di tale stato di diversità
disparata che si compia la mondializzazione del mondo. Ma l’avvenire del pianeta
non può considerarsi come quello di una élite ristretta e il quesito dei fini sarebbe
esplicitamente posto e risolto se “l’ideale di ricerca e di scoperta, l’ideale
dell’avventura, dovesse rinforzarsi, diventare l’unico ideale del pianeta (…). Una
società governata dal solo ideale di ricerca non può tollerare né l’ineguaglianza, né la
povertà. Per essa le ingiustizie sociali sono intellettualmente derisorie,
economicamente costose e scientificamente pregiudizievoli”. L’utopia da costruire e
da realizzare, allora, è un’utopia dell’educazione per tutti, necessaria tanto alla
scienza quanto alla società. Si tratta, in ultima analisi, di trovare il “senso del luogo”
tipico della postmodernità: la definizione di uno “spazio glocale” – legato, cioè, alla
identità di un territorio – che attraverso le grandi reti informatiche e di comunicazione
sia sempre e comunque nella società globale; e in questo contesto creare un nuovo
modello di cittadinanza caratterizzato dal diritto “all’accesso” e all’inclusione nella
rete ; dal diritto di partecipazione a un sistema di “relazioni di potere”; infine, dal
diritto individuale di accesso all’uso e/o al godimento delle risorse produttive
complessivamente accumulate dall’intera società.