Mi è capitato di incontrare Volponi ad Urbino, si frequentava la stessa osteria,
popolata da gente del posto, studenti universitari. Nel tempo passato a bere vino e a
giocare a carte, capitava, a volte, di ascoltare le storie di operai partiti dopo la
seconda guerra mondiale, per andare a lavorare nelle miniere di Charleroi in Belgio, e
poi tornati dopo lunghi anni di fatica e lontananza. Quelle storie ci raccontavano del
lavoro, della povertà, dello sfruttamento, dello sradicamento dalla terra (prima la
guerra, poi l’emigrazione verso la miniera o la fabbrica), ma soprattutto ci aiutavano
a capire. Erano storie simili a quella di Albino Saluggia, protagonista del romanzo di
Volponi “Memoriale”. Il Saluggia era rimasto in fabbrica, cercando di “farsene una
ragione”, accettando le gerarchie, i tempi, la malattia, una tubercolosi, che nel
racconto è segno dell’alienazione psichica, fino a quando non nasce la
consapevolezza della propria condizione. La partecipazione ad uno sciopero mette
fine al lavoro, Albino viene licenziato, espulso dalla fabbrica per motivi disciplinari.
Nel romanzo la condizione umana di fabbrica è descritta nella dimensione quotidiana
da Volponi-Saluggia, giacchè “Memoriale” nasce dalla conoscenza diretta della
fabbrica, Volponi, infatti, assunto nel 1950 da Adriano Olivetti, aveva ricoperto
incarichi manageriali per diversi anni, ed è da questa esperienza che attinge i temi, i
personaggi, gli spunti per scrivere la storia di Saluggia, pubblicata nel ’62.
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(1) Vedi intervista a Magnabosco, Fiat-Melfi: diario di fabbrica, Quaderni di Regione Basilicata, 1998.
Storia che solo in parte si rispecchia in quelle narrate dagli ex-operai Sata in
questo libro, che raccontano dei motivi per cui si abbandona la fabbrica rifiutando la
condizione operaia. Negli operai di Melfi non c’è l’identificazione con la fabbrica di
Albino, e la maggior parte dei fuoriusciti non è stata licenziata ma ha rassegnato le
dimissioni. Strana storia in un contesto con un alto indice di disoccupazione, strana
storia in una fabbrica “umanizzata” dalla riorganizzazione del processo produttivo
della lean production, che presuppone il coinvolgimento dell’operaio, la
collaborazione cooperativa. Per molti anni, il caso degli operai licenziati,
dimissionari, non riconfermati allo scadere del contratto di formazione-lavoro della
Fiat di Melfi, è stato uno dei tasselli mancanti, nel ricco e variegato numero di lavori
teorici e di campo, sulla fabbrica d’auto melfese. Della “fabbrica snella” si conosce,
grazie agli studi fatti, l’organizzazione, il processo lavorativo, i tempi, i ritmi, le
condizioni di lavoro, il contesto insediativo; mentre dei motivi che spingono gli
operai ad abbandonare la Sata si sa molto poco. Questa mancanza ha particolarmente
catturato la mia attenzione visto il numero elevato di operai che hanno lasciato la
fabbrica, circa 1800 persone da gennaio del ’94 al dicembre 2001 (l’organico era di
5082 persone nel 2001). È sui motivi di quello che possiamo definire un esodo dallo
stabilimento Sata, sulle aspettative occupazionali dei giovani, sulle attività lavorative
intraprese in seguito, che la ricerca si concentra, cercando di individuare i percorsi di
quanti hanno vissuto il lavoro in fabbrica per lasciarselo alle spalle rassegnando le
dimissioni, subendo il licenziamento o la mancata assunzione dopo il periodo di
formazione lavoro a cui tutti gli operai sono stati sottoposti.
Anche se, il nuovo insediamento Fiat a Melfi aveva suscitato, almeno
all’inizio, interesse e aspettative, tra i giovani disoccupati della Basilicata, di cui sono
un segno le migliaia di richieste per superare la selezione propedeutica all’ingresso,
con il passare degli anni si è registrato un numero significativo di abbandoni, come se
la forza d’attrazione iniziale si fosse affievolita in tempi brevi. Già nel ’96, dopo i
primi due anni di produzione, il numero di quanti avevano lasciato la Sata era di mille
persone. Gli abbandoni non passarono inosservati, anzi, destarono l’attenzione del
sindacato; tuttavia, per l’azienda, si trattava di un fenomeno irrilevante, e soprattutto
quantitativamente inferiore a Melfi rispetto agli altri stabilimenti del gruppo Fiat (1).
Nel ’96 Magnabosco manager Fiat, sosteneva che il fenomeno degli abbandoni in
Sata era fisiologico: 400 dei fuoriusciti erano stati trasferiti in altri stabilimenti, 300
persone erano uscite creando, grazie alle competenze maturate in Sata, attività di
lavoro autonomo, e i restanti 300 erano stati non riconfermati allo scadere del
contratto di formazione-lavoro.
Alla luce dei dati quantitativi e qualitativi raccolti nel corso della ricerca
emerge una realtà ben più complessa rispetto all’analisi di Magnabosco. A lasciare la
Sata, per licenziamenti, dimissioni, scadenze del contratto di formazione, sono solo
ed esclusivamente operai, mentre ad essere trasferiti in altre aziende sono solo
impiegati e manager; si tratta quindi, in questo secondo caso di mobilità orizzontale
non riconducibile al fenomeno degli abbandoni.
I risultati della ricerca si avvalgono di dati quantitativi e qualitativi.
La ricerca quantitativa è stata fatta sui dati rilevati presso il Centro per
l’Impiego di Melfi e sono relativi ad età, sesso, zona di provenienza, e cause
formalmente indicate per l’uscita dalla fabbrica (licenziamento, dimissioni, scadenza
del contratto di formazione-lavoro). Inoltre è stata svolta un’indagine di carattere
esplorativo su 122 di questi soggetti, al fine di verificare, i tempi della
disoccupazione, il percorso lavorativo successivo alla Sata, le tipologie di impiego (2).
Le interviste in profondità con ex-operai (licenziati, dimissionari e lavoratori
interinali) nella fascia d’età che va dai 20 ai 32 anni, residenti in paesi diversi della
Basilicata (Lavello, Rampolla, Melfi, Avigliano, Venosa, Potenza, Rionero), sono
servite a dare voce ad una varietà di aspetti soggettivi che i soli dati non sarebbero
riusciti a cogliere. Altre interviste, a sindacalisti, manutentori, tecnologi, manager
aziendali, politici locali, operatori dei Centri di Salute Mentale, sono servite a capire
il contesto.
La condivisione di momenti di socialità della vita quotidiana con ex lavoratori,
operai Sata, i loro gruppi di pari, si è rivelata utile all’acquisizione d’informazioni
supplementari su aspetti non immediatamente visibili, come ad esempio le abitudini
sociali, gli atteggiamenti valoriali, i consumi culturali. Il lavoro sul campo si è svolto
nell’estate del 2001 e nella primavera del 2002.
Il percorso espositivo è strutturato in cinque capitoli. Al di là dei dati
quantitativi sul fenomeno, il libro consegna al lettore l’immagine dell’intero percorso
dei lavoratori usciti dalla Sata: dalla selezione, ai corsi di formazione, alle difficoltà
lavorative, ai motivi di maggiore disagio, fino all’abbandono e alle scelte
occupazionali successive.
Il primo capitolo presenta i risultati dell’analisi quantitativa sull’entità del
fenomeno dell’uscita dalla fabbrica dall’inizio del ’94 all’aprile del 2002, e la
descrizione del percorso di selezione e formazione del personale.
Lo studio dell’iter selettivo e formativo del personale è stato finalizzato
all’individuazione dei criteri che hanno orientato la scelta degli addetti Sata; i
parametri comportamentali e valoriali; le abilità richieste dall’azienda e i
comportamenti ritenuti idonei per il lavoro da svolgere. A partire da questo, si è
cercato di comprendere la rilevanza delle abilità richieste nella produzione,
evidenziando i motivi per cui la comunicazione, la cooperazione, e quanto di più
generico vi sia nelle abilità degli individui, ovvero la capacità di “apprendere ad
apprendere”, siano necessari al lavoro di fabbrica nella nuova organizzazione del
processo produttivo della lean production.
Il secondo capitolo è dedicato al caso dei dimissionari. Sono riportati i dati
sull’entità del fenomeno dal ’94 al 2001, l’età, il sesso, il diverso andamento delle
dimissioni negli anni. Alla parte quantitativa fa seguito l’analisi dei temi emersi nel
corso delle interviste con i dimissionari sul vissuto di fabbrica, le aspettative, i motivi
e i tempi della scelta di chi lascia la Sata, le diverse tipologie di dimissionari: quelli
volontari, quelli incentivati dall’accesso ai sussidi di disoccupazione, quelli forse
raggirati.
Il terzo capitolo tratta dei licenziati e degli operai non riconfermati alla
scadenza del contratto di formazione-lavoro. Vengono riportati i dati quantitativi e le
testimonianze degli ex-operai.
Nel quarto capitolo viene affrontato il caso degli operai interinali. Si è ritenuto
opportuno, infatti, date le modalità di gestione della forza-lavoro temporanea ed “in
fitto”, di includere l’analisi relativa al caso degli interinali, per evidenziare analogie e
differenze rispetto agli operai assunti direttamente dalla Sata.
(2) Nell’elaborazione dei dati è risultato fondamentale il contributo di Rossana Zicarelli, a cui va il mio ringraziamento.