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L’esodo dalle fabbriche degli operai – Fiat di Melfi

Elisabetta Della Corte,
Quando la fabbrica delude,
Pubblicazioni della Regione Basilicata, vol. 2, Potenza, 2003.


Mi è capitato di incontrare Volponi ad Urbino, si frequentava la stessa osteria, popolata da gente del posto, studenti universitari. Nel tempo passato a bere vino e a giocare a carte, capitava, a volte, di ascoltare le storie di operai partiti dopo la seconda guerra mondiale, per andare a lavorare nelle miniere di Charleroi in Belgio, e poi tornati dopo lunghi anni di fatica e lontananza. Quelle storie ci raccontavano del lavoro, della povertà, dello sfruttamento, dello sradicamento dalla terra (prima la guerra, poi l’emigrazione verso la miniera o la fabbrica), ma soprattutto ci aiutavano a capire. Erano storie simili a quella di Albino Saluggia, protagonista del romanzo di Volponi “Memoriale”. Il Saluggia era rimasto in fabbrica, cercando di “farsene una ragione”, accettando le gerarchie, i tempi, la malattia, una tubercolosi, che nel racconto è segno dell’alienazione psichica, fino a quando non nasce la consapevolezza della propria condizione. La partecipazione ad uno sciopero mette fine al lavoro, Albino viene licenziato, espulso dalla fabbrica per motivi disciplinari. Nel romanzo la condizione umana di fabbrica è descritta nella dimensione quotidiana da Volponi-Saluggia, giacchè “Memoriale” nasce dalla conoscenza diretta della fabbrica, Volponi, infatti, assunto nel 1950 da Adriano Olivetti, aveva ricoperto incarichi manageriali per diversi anni, ed è da questa esperienza che attinge i temi, i personaggi, gli spunti per scrivere la storia di Saluggia, pubblicata nel ’62.
Storia che solo in parte si rispecchia in quelle narrate dagli ex-operai Sata in questo libro, che raccontano dei motivi per cui si abbandona la fabbrica rifiutando la condizione operaia. Negli operai di Melfi non c’è l’identificazione con la fabbrica di Albino, e la maggior parte dei fuoriusciti non è stata licenziata ma ha rassegnato le dimissioni. Strana storia in un contesto con un alto indice di disoccupazione, strana storia in una fabbrica “umanizzata” dalla riorganizzazione del processo produttivo della lean production, che presuppone il coinvolgimento dell’operaio, la collaborazione cooperativa. Per molti anni, il caso degli operai licenziati, dimissionari, non riconfermati allo scadere del contratto di formazione-lavoro della Fiat di Melfi, è stato uno dei tasselli mancanti, nel ricco e variegato numero di lavori teorici e di campo, sulla fabbrica d’auto melfese. Della “fabbrica snella” si conosce, grazie agli studi fatti, l’organizzazione, il processo lavorativo, i tempi, i ritmi, le condizioni di lavoro, il contesto insediativo; mentre dei motivi che spingono gli operai ad abbandonare la Sata si sa molto poco. Questa mancanza ha particolarmente catturato la mia attenzione visto il numero elevato di operai che hanno lasciato la fabbrica, circa 1800 persone da gennaio del ’94 al dicembre 2001 (l’organico era di 5082 persone nel 2001). È sui motivi di quello che possiamo definire un esodo dallo stabilimento Sata, sulle aspettative occupazionali dei giovani, sulle attività lavorative intraprese in seguito, che la ricerca si concentra, cercando di individuare i percorsi di quanti hanno vissuto il lavoro in fabbrica per lasciarselo alle spalle rassegnando le dimissioni, subendo il licenziamento o la mancata assunzione dopo il periodo di formazione lavoro a cui tutti gli operai sono stati sottoposti.
Anche se, il nuovo insediamento Fiat a Melfi aveva suscitato, almeno all’inizio, interesse e aspettative, tra i giovani disoccupati della Basilicata, di cui sono un segno le migliaia di richieste per superare la selezione propedeutica all’ingresso, con il passare degli anni si è registrato un numero significativo di abbandoni, come se la forza d’attrazione iniziale si fosse affievolita in tempi brevi. Già nel ’96, dopo i primi due anni di produzione, il numero di quanti avevano lasciato la Sata era di mille persone. Gli abbandoni non passarono inosservati, anzi, destarono l’attenzione del sindacato; tuttavia, per l’azienda, si trattava di un fenomeno irrilevante, e soprattutto quantitativamente inferiore a Melfi rispetto agli altri stabilimenti del gruppo Fiat (1). Nel ’96 Magnabosco manager Fiat, sosteneva che il fenomeno degli abbandoni in Sata era fisiologico: 400 dei fuoriusciti erano stati trasferiti in altri stabilimenti, 300 persone erano uscite creando, grazie alle competenze maturate in Sata, attività di lavoro autonomo, e i restanti 300 erano stati non riconfermati allo scadere del contratto di formazione-lavoro.
Alla luce dei dati quantitativi e qualitativi raccolti nel corso della ricerca emerge una realtà ben più complessa rispetto all’analisi di Magnabosco. A lasciare la Sata, per licenziamenti, dimissioni, scadenze del contratto di formazione, sono solo ed esclusivamente operai, mentre ad essere trasferiti in altre aziende sono solo impiegati e manager; si tratta quindi, in questo secondo caso di mobilità orizzontale non riconducibile al fenomeno degli abbandoni.
I risultati della ricerca si avvalgono di dati quantitativi e qualitativi.
La ricerca quantitativa è stata fatta sui dati rilevati presso il Centro per l’Impiego di Melfi e sono relativi ad età, sesso, zona di provenienza, e cause formalmente indicate per l’uscita dalla fabbrica (licenziamento, dimissioni, scadenza del contratto di formazione-lavoro). Inoltre è stata svolta un’indagine di carattere esplorativo su 122 di questi soggetti, al fine di verificare, i tempi della disoccupazione, il percorso lavorativo successivo alla Sata, le tipologie di impiego (2).
Le interviste in profondità con ex-operai (licenziati, dimissionari e lavoratori interinali) nella fascia d’età che va dai 20 ai 32 anni, residenti in paesi diversi della Basilicata (Lavello, Rampolla, Melfi, Avigliano, Venosa, Potenza, Rionero), sono servite a dare voce ad una varietà di aspetti soggettivi che i soli dati non sarebbero riusciti a cogliere. Altre interviste, a sindacalisti, manutentori, tecnologi, manager aziendali, politici locali, operatori dei Centri di Salute Mentale, sono servite a capire il contesto.
La condivisione di momenti di socialità della vita quotidiana con ex lavoratori, operai Sata, i loro gruppi di pari, si è rivelata utile all’acquisizione d’informazioni supplementari su aspetti non immediatamente visibili, come ad esempio le abitudini sociali, gli atteggiamenti valoriali, i consumi culturali. Il lavoro sul campo si è svolto nell’estate del 2001 e nella primavera del 2002.
Il percorso espositivo è strutturato in cinque capitoli. Al di là dei dati quantitativi sul fenomeno, il libro consegna al lettore l’immagine dell’intero percorso dei lavoratori usciti dalla Sata: dalla selezione, ai corsi di formazione, alle difficoltà lavorative, ai motivi di maggiore disagio, fino all’abbandono e alle scelte occupazionali successive.
Il primo capitolo presenta i risultati dell’analisi quantitativa sull’entità del fenomeno dell’uscita dalla fabbrica dall’inizio del ’94 all’aprile del 2002, e la descrizione del percorso di selezione e formazione del personale.
Lo studio dell’iter selettivo e formativo del personale è stato finalizzato all’individuazione dei criteri che hanno orientato la scelta degli addetti Sata; i parametri comportamentali e valoriali; le abilità richieste dall’azienda e i comportamenti ritenuti idonei per il lavoro da svolgere. A partire da questo, si è cercato di comprendere la rilevanza delle abilità richieste nella produzione, evidenziando i motivi per cui la comunicazione, la cooperazione, e quanto di più generico vi sia nelle abilità degli individui, ovvero la capacità di “apprendere ad apprendere”, siano necessari al lavoro di fabbrica nella nuova organizzazione del processo produttivo della lean production.
Il secondo capitolo è dedicato al caso dei dimissionari. Sono riportati i dati sull’entità del fenomeno dal ’94 al 2001, l’età, il sesso, il diverso andamento delle dimissioni negli anni. Alla parte quantitativa fa seguito l’analisi dei temi emersi nel corso delle interviste con i dimissionari sul vissuto di fabbrica, le aspettative, i motivi e i tempi della scelta di chi lascia la Sata, le diverse tipologie di dimissionari: quelli volontari, quelli incentivati dall’accesso ai sussidi di disoccupazione, quelli forse raggirati.
Il terzo capitolo tratta dei licenziati e degli operai non riconfermati alla scadenza del contratto di formazione-lavoro. Vengono riportati i dati quantitativi e le testimonianze degli ex-operai.
Nel quarto capitolo viene affrontato il caso degli operai interinali. Si è ritenuto opportuno, infatti, date le modalità di gestione della forza-lavoro temporanea ed “in fitto”, di includere l’analisi relativa al caso degli interinali, per evidenziare analogie e differenze rispetto agli operai assunti direttamente dalla Sata.

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(1) Vedi intervista a Magnabosco, Fiat-Melfi: diario di fabbrica, Quaderni di Regione Basilicata, 1998.
(2) Nell’elaborazione dei dati è risultato fondamentale il contributo di Rossana Zicarelli, a cui va il mio ringraziamento.



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