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Totò e Vicè di Franco Scaldati

a cura di Antonella Di Salvo e Valentina Valentini,
“Teatro contemporaneo d’autore”
Rubbettino editore, Soveria Mannelli, 2003 (€ 14.00).

di Carlo Fanelli


Franco Scaldati, autore-attore palermitano, pur essendo una delle figure più rilevanti nella scena italiana della seconda metà del ‘900 è, di contro, anche lo scrittore più appartato. Nonostante la ricchezza, la sua produzione per il teatro (e non solo) è in buona parte inedita, nonostante si tratti di un’opera di notevole valore artistico che egli ha prodotto dagli anni Settanta a oggi. Scaldati ha svolto, dagli anni Settanta, un’attività degna di rilievo, ha aperto teatri indipendenti (Teatro & C., Re di Coppe, Il Piccolo Teatro). Ha ospitato compagnie di punta nella ricerca (Cecchi, Corsetti, Martone, Leo), ha animato la vita teatrale di Palermo in anni in cui le istituzioni non erano così illuminate come oggi. Ha rappresentato per molti giovani che poi si sono dedicati al teatro, alla letteratura, all’arte un percorso artistico esemplare.
Totò e Vicè sono i due personaggi che animano il testo di Franco Scaldati che oggi vede la luce rivisto dopo la prima versione del ’92. Creature dai tratti surreali, personaggi di improbabili scenette, folli e savi allo stesso tempo, completamente avulsi dalla normale condizione di un quartiere periferico di Palermo, eppure conosciuti da tutti. Alla stessa stregua di un’apparizione i loro faccia a faccia verbali, mai vicendevolmente aggressivi, rappresentano il tessuto poetico sul quale si stende la scrittura del testo. Questo secondo volume, il primo è stato pubblicato nel 1997 e contiene Lucio, altro testo di Scaldati, propone alcune riflessioni scaturite dalle giornate di studio sulla drammaturgia di Scaldati, tenute due anni fa all’Università della Calabria. Valentina Valentini nella sua introduzione al volume, Totò e Vicè: coincidentia oppositorum, pone in oggetto la scrittura di Scaldati per il teatro. Convivono in essa «tratti epici e lirici», veicolati dal «corpo-voce» dell’autore-attore, che produce «un flusso narrativo in grado di evocare mondi senza il bisogno di rappresentazione». Totò e Vicè assumono nella loro assoluta leggerezza, costruita con la loro innocenza, l’impossibilità di essere ridotti ad una precisa categoria umana e reale o, al contrario, sovrumana e surreale, ad un luogo preciso. Essi spingono ad una riflessione profonda sull’esistenza, anche se mai in modo tormentato, con la semplicità e la consapevole rassegnazione dello scorrere inesorabile della vita, della quale sono testimoni. Essi assumono il vivere su se stessi, come due bambini in un continuo interrogarsi su invalicabili significati, evocando un mondo lontano, animato dalle favole, legato all’oralità che è una dimensione consueta nei testi teatrali di Scaldati, che la considera come depositaria di verità, a scapito della scrittura che invece la “tradisce”.
Il volume presenta il testo (con trasposizione - o «metatraduzione» come afferma la traduttrice Antonella Di Salvo - a fronte, che viene predisposta in modo da non tradire l’originale, lasciando le parole intraducibili nell’originale palermitano) di Totò e Vicè, dalla cui lettura scaturisce quel senso di «non-finito» tipica dei testi scaldatiani. La conversazione con l’autore, inclusa nel volume, ci conduce fra i meandri della sua scrittura, anche se il tentativo di bloccare un momento preciso della sua prassi, oppure individuarne un metodo, o peggio, una tecnica, risulta impossibile. Negli scritti che seguono, poi, vengono proposte alcune possibili “letture” della drammaturgia scaldatiana. Matteo Palumbo, nel saggio Per un teatro della peste, definisce quella di Scaldati, «drammaturgia della modernità», richiamando a sostenere questa idea attraverso il paradigma del cosiddetto «teatro della crudeltà» di Artaud, secondo la nota definizione di Derrida. In primo luogo l’idea di «teatralità come esistenza e carne» che Derrida esprimeva per il teatro artaudiano, diviene nella scrittura di Scaldati la distinzione tra «spettacolo e macerie», il primo «abbellisce i fallimenti, le sconfitte, le perdite che il passato consegna alla vita e sottrae il peso di questa angoscia allo sguardo pigro dello spettatore. Le macerie, al contrario, sono il segno indistruttibile di ciò che il teatro assume dalla vita “orrida e vera”». Il paradigma artaudiano aggancia poi l’idea della fuga da un teatro di rappresentazione o che metta in scena storie e psicologie; e in Scaldati il dato eloquente, che lo porta nell’identica dirittura, è, come dice Palumbo, quello di un teatro animato da archetipi «clown metafisici e lunari, alla maniera di Totò e Buster Keaton, più che singole creature». Drammaturgia, quindi, antinaturalistica e antirappresentativa, in cui l’evento teatrale non è la riproduzione dell’esistente, ma evidenza mentale che scaturisce dal testo. In questo, consapevolmente, la drammaturgia di Scaldati è affidata alla voce, alla sua phonè, incastonata tra le sonorità della voce e la vocalità dei versi, e anche per questo sciolta da qualsiasi vincolo con la verosimiglianza o la rappresentazione, con «l’impiego della lingua e della parola in funzione non mimetica, quanto soprattutto lirica ed espressiva».
Un altro approccio alla drammaturgia di Franco Scaldati, che si congiunge al senso sonoro e musicale dei suoi versi, è quello fornito da Francesco Stumpo, nel saggio La musica finale: riferimenti sonori e musicali nel teatro di Franco Scaldati, che si sofferma sulla «co-occorrenza del linguaggio dei suoni […] importante per quanto sommersa e sottesa, e nemmeno tropo causale», che riscontra nei testi dell’autore siciliano.



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