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Il Festival

di Giancarlo Mancini


Rinasce in una nuova sede, conservando lo spirito che l’ha originato, il festival di Primavera dei teatri, dopo che se ne era paventata la scomparsa definitiva a causa del totale disimpegno dell’Ente teatrale italiano (ETI) e del comune di Castrovillari che l’hanno sostenuta per ben quattro edizioni. Dunque, grazie all’appoggio dell’Università della Calabria e dei Comuni di Cosenza e di Rende, si sostiene una proposta che compendia la predisposizione verso i nuovi linguaggi della scena con la problematizzazione delle radici del nostro essere ed esistere.
Non è un caso allora che si sia deciso di caratterizzare la scelta degli spettacoli di motivi direttamente legati alla poetica di Scena Verticale, il gruppo che ha ideato e diretto la rassegna, dirimendo i molti fili che dalla storia penetrano nella pratica scenica, passando attraverso le sorgenti dell’oralità e della non rassegnazione verso i revisionismi sempre più opprimenti per la nostra memoria collettiva.
Dunque la paranoica infatuazione di un uomo del sottosuolo per le gesta nichiliste degli esaltati seguaci del principe Borghese e della sua Decima mas, una delle formazioni fasciste a combattere realmente al fianco dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. È un monologare inquieto, disturbato, quello di Bebo Storti dal testo di Renato Sarti, già aspramente contestato dalle odierne destre in una precedente rappresentazione romana, in cui l’inquietante incedere di sogni malati si mescola al ricordo di massacri e attentati ancora non saldati dentro la nostra fragile identità collettiva.
Una strage ancora più recente è quella di Peteano, evocata dal Teatro del Rifo in una favola pinocchiesca in cui il gatto e la volpe sono due fantomatici figuri vestiti in nero, alla ricerca dell’abbecedario del burattino collodiano, per distruggerlo come ultima prova delle malsane collusioni tra apparati dello Stato e terrorismo nero che hanno intriso di fango e mistero i nostri anni recenti.
Ancora più intensa e diretta è lo scambio fra dimensione intima, privata e collettiva nel Teatro di Terra del Teatro delle Ariette, che testimonia la necessità di un ritorno alle proprie radici, la terra appunto, la natura, ripianificando il proprio stare nel mondo e nel teatro a partire da un contatto diverso con i tesori e le scoperte che la vita rurale può offrire. Questa semplicità comunicativa ed esistenziale, scaturita dalla disillusione dell’ottantanove, si dipana attraverso la necessità da parte dello spettatore di partecipare ad una ritualizzazione di brevi frammenti che improvvisamente rompono la degustazione di una zuppa o di un bicchiere di vino, offerti come pasto da consumare per tutta la durata della cena-spettacolo. Sono schegge di un passato con cui fare i conti quotidianamente, senza pause, sovrastrutture artisticizzanti, per provare a rinascere.
La dimensione politica tocca corde strettamente legate alla propria terra di origine ne La stanza della memoria di Scena Verticale in cui si rivivono vicende dolorose di emigrazione, guerre e sogni di famiglie contadine del Sud. Fare i conti con la propria terra è anche l’intento de Il custode, questa volta lasciando da parte il candore e i ricordi per infrangere la statuarietà classica dei Bronzi di Riace proprio dentro al museo (di Reggio Calabria), in cui sono incastonati, sputandogli addosso, come una sfida all’immoto perpetrarsi del destino.
Ancora uno sfondo calabrese è quello di A cascia nfernali, secondo capitolo della trilogia di Francesco Suriano iniziata con Roccu u stuortu allestito da Fulvio Cauteruccio, in cui l’eccentrico protagonista è questa volta nei panni di un artigiano dei fuochi d’artificio, che sta costruendo la salva finale dei giuochi pirotecnici. In una attesa intrisa di atmosfere surreali, i due protagonisti, il mastro ed il suo allievo, spingono la propria immaginazione oltre il cielo in cui divampa l’artificiale luce dei rudimenti pirici, tra l’ansia di abbandonare questa terra di nessuno e la rassegnata ostinazione a sperare nell’improvviso scoppiare di una nuova, autentica, necessità esistenziale. Una attesa che permea di significati e rimandi l’intera cornice del festival, tra l’incanto di artifici e costruzioni spettacolari esplose ancora una volta, seppur in mezzo ad un deserto crescente e l’incertezza di un futuro ancora pieno di interrogativi.
Ha chiuso il festival l’assolo di Franco Scaldati, l’attore-autore palermitano che ha letto, con la sua figura da antico rapsodo, dei brani del suo testo più recente.



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