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A proposito di identità:
non più arcaico tribalismo ma
valore geo-socio-economico necessario

di Angelo Morrone


Viviamo oggi una turbolenta e mutevole fase di altrettanto mutevoli processi socioeconomici, caratterizzati dalla contrazione, a volte l’annullamento, delle dimensioni del tempo e dello spazio. Vi abbiamo dapprima riposto incondizionata e inconsapevole fiducia, teorizzata in modelli economici, quantitativi e utilitaristi, “buoni per tutti” perché fatti di solo numero e sola misura. L’attore di tali modelli, l’uomo razionale (homo oeconomicus), “libero” dalla sua comunità e dalla sua cultura, da un’identità geografica relegata a moderno tribalismo, di fatto somiglia poco all’homo humanus, quello vero. I valori e i paradigmi del modernismo, in primis l’atopia (negazione del luogo), sembravano marginalizzare le culture locali, ignorando la loro capacità di adattarsi al cambiamento. Lo sviluppo tecnologico avrebbe prodotto un mondo più stabile e ordinato, più semplice e semplificato.
Ma il mondo e le vite umane tuttora somigliano poco a tali previsioni. Se le tecnologie informatiche sembrano condurre al “villaggio globale” senza territorio, d’altra parte vi sono forti espressioni d’identità collettiva, di sfida all’omologazione sul piano della specificità culturale e della volontà di controllo sulle proprie vite e i propri ambienti. Risorge un dispositivo simbolico il cui smarrimento aveva impoverito la semantica dei luoghi, ridotto l’agire territoriale, estraniato gli attori locali. Appare una nuova identità. All’enfasi su diversità e tradizione, che pur rimangono, si affiancano e si integrano la dinamicità e la relazione. È una prospettiva con la quale vivere il cambiamento senza lasciare per strada la società e la comunità. L’azione corrente partecipa alla costruzione di una “cultura genetica sostenibile” di luogo. Peraltro ogni tradizione è a un certo punto inventata. Non sempre deve esistere da secoli. Il kilt, le cui origini sembrano perdersi nell’antichità scozzese, è stato inventato in piena rivoluzione industriale dall’inglese Rawilson.
Ora, lo studio dell’identità è ritenuto tradizionalmente pertinente a discipline quali l’antropologia, la linguistica, la letteratura sociologica. Si può peraltro cogliere un’identità economica, i cui simboli e le cui pratiche in Calabria Citeriore appaiono vivi. La gassosa al caffè, nei consumi delle bibite, sostituisce in misura significativa le “cole”.
L’economia del cedro caratterizza il sistema socioterritoriale dell’Alto Tirreno; e se qualche buon intenzionato vuole misurarne la “redditività” nella fase primaria, non rileverebbe che “l’arcaico folklore di anacronistici contadini che si dedicano a un’inutile e non remunerativa coltura”. Fortunatamente esistono, e non mi sembrano sul punto di scomparire. Gambi parlava di cultura che non misura in moneta l’entità delle proprie fatiche. Esiste altresì un dispositivo disciplinare geografico e geoeconomico che, se ha poco usato il termine identità, comunque dispone di una vasta letteratura sul “luogo”. Non ultima, per l’esistenza di altre, esiste una “biologia linguistica dell’identità”. L’identità è dunque campo di ricerca di quella “nuova alleanza” auspicata da Prigogine e dalla Stengers, di quell’incerta frontiera tra discipline numerose e diverse che il geografo Maria Fiori suggerisce per uno studio costruttivista. Si sente l’esigenza di un uomo multiformemente olistico, gli aspetti del cui polimorfismo non sono scindibili, e dalla cui scissione non è possibile ricavare leggi che giustifichino in ultima analisi la dicotomia sviluppo-sottosviluppo e lo strano rimbalzo dei nostri territori (cui fa riferimento Piperno nella prima parte di “Vento del Sud”) dagli ultimi posti di “classifiche” costruite su indicatori quantitativi ai primi di quelle costruite su indicatori di senso.
È auspicabile che l’attenzione sia rivolta a pratiche diffuse e collettive. Cersosimo, nel 1996, a proposito di “valori, strutture e attori” affermava che ogni società produce territori segnati dalla pratica, da rappresentazioni del vissuto umano, da saperi legati a esperienze locali. Le pratiche costitutive dell’identità, pur non coincidendo con la tradizione, hanno ovviamente un’origine. Ogni essere vivente ha una struttura iniziale che ne condiziona le interazioni e ne delimita i cambiamenti strutturali indotti da tali interazioni. Nello stesso tempo nasce in uno specifico ambiente dotato di una dinamica strutturale propria, operativamente divisa dall’essere vivente. E, nonostante le zelanti profezie di un modello unico di sviluppo, non c’è sopravvivenza del più adatto (l’organizzazione economica dominante) ma degli adatti. Ogni comunità, ogni società, pur negli aspetti caotici e indeterministici del vivere, con i propri ambienti reciprocamente si adatta, coevolvendosi in un processo che è costruzione di territorio.
Ma l’identità ha nella tradizione, e nella tradizione economica, solo uno degli elementi costitutivi. Al contrario del funzionamento di un organismo, il cui punto centrale è l’organismo stesso, per un sistema sociale sono centrali il dominio linguistico e la comunicazione. Avrò pure un’emotività distonica con quel calabriae planctus più tipico della cipolla rossa, ma sempre più di frequente m’accade di rimanere piacevolmente sorpreso dal nostro territorio, nonostante mali ingenti e visibili. E resto tale di fronte al numero di quotidiani locali presenti nelle nostre edicole. Al dominio linguistico appartiene il tema della partecipazione. Questo stesso giornale e l’incontro dei Cantieri Meridionali ne rappresentano, non solo una prodromica promozione, ma di già una pratica applicazione. Contestualmente alle difficoltà della democrazia delegata (più volte evidenziate da Gambino), appaiono la sperimentazione e la costruzione di pratiche di “democrazia diretta”, anche al di là (non in sostituzione) di strumenti che la Costituzione mette a disposizione e di cui occorre riappropriarci: referendum, petizione e iniziativa legislativa popolare.
Che tale rivista accolga queste mie riflessioni mi fa felice, almeno quanto la sua esistenza, e mi soggeziona, ancor di più nel trarre conclusioni. Questo giornale e il Cantiere da esso, tra gli altri, voluto, sono una significativa occasione, un ulteriore evento (che occorre trasformare in continuativo processo) di una storia che ha sperimentato l’occupazione delle terre e la Riforma, e che, come il 23 novembre dello scorso anno, ha costantemente difeso le proprie divergenti identità. Non è frequente (a parte che non si tratti di convegni o workshop di discipline sociali) che, in qualità di cittadini, ci si incontri per discutere sull’idea del proprio territorio e sul cosa fare affinché quest’ultimo a questa idea somigli.



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