Viviamo oggi una turbolenta e mutevole fase di altrettanto mutevoli
processi socioeconomici, caratterizzati dalla contrazione, a volte
l’annullamento, delle dimensioni del tempo e dello spazio. Vi abbiamo
dapprima riposto incondizionata e inconsapevole fiducia, teorizzata in
modelli economici, quantitativi e utilitaristi, “buoni per tutti” perché
fatti di solo numero e sola misura. L’attore di tali modelli, l’uomo
razionale (homo oeconomicus), “libero” dalla sua comunità e dalla sua
cultura, da un’identità geografica relegata a moderno tribalismo, di fatto
somiglia poco all’homo humanus, quello vero. I valori e i paradigmi del
modernismo, in primis l’atopia (negazione del luogo), sembravano
marginalizzare le culture locali, ignorando la loro capacità di adattarsi al
cambiamento. Lo sviluppo tecnologico avrebbe prodotto un mondo più
stabile e ordinato, più semplice e semplificato.
Ma il mondo e le vite umane tuttora somigliano poco a tali
previsioni. Se le tecnologie informatiche sembrano condurre al
“villaggio globale” senza territorio, d’altra parte vi sono forti espressioni
d’identità collettiva, di sfida all’omologazione sul piano della specificità
culturale e della volontà di controllo sulle proprie vite e i propri
ambienti. Risorge un dispositivo simbolico il cui smarrimento aveva
impoverito la semantica dei luoghi, ridotto l’agire territoriale, estraniato
gli attori locali. Appare una nuova identità. All’enfasi su diversità e
tradizione, che pur rimangono, si affiancano e si integrano la dinamicità
e la relazione. È una prospettiva con la quale vivere il cambiamento
senza lasciare per strada la società e la comunità. L’azione corrente
partecipa alla costruzione di una “cultura genetica sostenibile” di luogo.
Peraltro ogni tradizione è a un certo punto inventata. Non sempre deve
esistere da secoli. Il kilt, le cui origini sembrano perdersi nell’antichità
scozzese, è stato inventato in piena rivoluzione industriale dall’inglese
Rawilson.
Ora, lo studio dell’identità è ritenuto tradizionalmente pertinente a
discipline quali l’antropologia, la linguistica, la letteratura sociologica.
Si può peraltro cogliere un’identità economica, i cui simboli e le cui
pratiche in Calabria Citeriore appaiono vivi. La gassosa al caffè, nei
consumi delle bibite, sostituisce in misura significativa le “cole”.
L’economia del cedro caratterizza il sistema socioterritoriale dell’Alto
Tirreno; e se qualche buon intenzionato vuole misurarne la “redditività”
nella fase primaria, non rileverebbe che “l’arcaico folklore di
anacronistici contadini che si dedicano a un’inutile e non remunerativa
coltura”. Fortunatamente esistono, e non mi sembrano sul punto di
scomparire. Gambi parlava di cultura che non misura in moneta l’entità
delle proprie fatiche. Esiste altresì un dispositivo disciplinare geografico
e geoeconomico che, se ha poco usato il termine identità, comunque
dispone di una vasta letteratura sul “luogo”. Non ultima, per l’esistenza
di altre, esiste una “biologia linguistica dell’identità”. L’identità è
dunque campo di ricerca di quella “nuova alleanza” auspicata da
Prigogine e dalla Stengers, di quell’incerta frontiera tra discipline
numerose e diverse che il geografo Maria Fiori suggerisce per uno
studio costruttivista. Si sente l’esigenza di un uomo multiformemente
olistico, gli aspetti del cui polimorfismo non sono scindibili, e dalla cui
scissione non è possibile ricavare leggi che giustifichino in ultima
analisi la dicotomia sviluppo-sottosviluppo e lo strano rimbalzo dei
nostri territori (cui fa riferimento Piperno nella prima parte di “Vento del
Sud”) dagli ultimi posti di “classifiche” costruite su indicatori
quantitativi ai primi di quelle costruite su indicatori di senso.
È auspicabile che l’attenzione sia rivolta a pratiche diffuse e
collettive. Cersosimo, nel 1996, a proposito di “valori, strutture e attori”
affermava che ogni società produce territori segnati dalla pratica, da
rappresentazioni del vissuto umano, da saperi legati a esperienze locali.
Le pratiche costitutive dell’identità, pur non coincidendo con la
tradizione, hanno ovviamente un’origine. Ogni essere vivente ha una
struttura iniziale che ne condiziona le interazioni e ne delimita i
cambiamenti strutturali indotti da tali interazioni. Nello stesso tempo
nasce in uno specifico ambiente dotato di una dinamica strutturale
propria, operativamente divisa dall’essere vivente. E, nonostante le
zelanti profezie di un modello unico di sviluppo, non c’è sopravvivenza
del più adatto (l’organizzazione economica dominante) ma degli adatti.
Ogni comunità, ogni società, pur negli aspetti caotici e indeterministici
del vivere, con i propri ambienti reciprocamente si adatta, coevolvendosi
in un processo che è costruzione di territorio.
Ma l’identità ha nella tradizione, e nella tradizione economica,
solo uno degli elementi costitutivi. Al contrario del funzionamento di un
organismo, il cui punto centrale è l’organismo stesso, per un sistema
sociale sono centrali il dominio linguistico e la comunicazione. Avrò
pure un’emotività distonica con quel calabriae planctus più tipico della
cipolla rossa, ma sempre più di frequente m’accade di rimanere
piacevolmente sorpreso dal nostro territorio, nonostante mali ingenti e
visibili. E resto tale di fronte al numero di quotidiani locali presenti nelle
nostre edicole. Al dominio linguistico appartiene il tema della
partecipazione. Questo stesso giornale e l’incontro dei Cantieri
Meridionali ne rappresentano, non solo una prodromica promozione, ma
di già una pratica applicazione. Contestualmente alle difficoltà della
democrazia delegata (più volte evidenziate da Gambino), appaiono la
sperimentazione e la costruzione di pratiche di “democrazia diretta”,
anche al di là (non in sostituzione) di strumenti che la Costituzione
mette a disposizione e di cui occorre riappropriarci: referendum,
petizione e iniziativa legislativa popolare.
Che tale rivista accolga queste mie riflessioni mi fa felice, almeno
quanto la sua esistenza, e mi soggeziona, ancor di più nel trarre
conclusioni. Questo giornale e il Cantiere da esso, tra gli altri, voluto,
sono una significativa occasione, un ulteriore evento (che occorre
trasformare in continuativo processo) di una storia che ha sperimentato
l’occupazione delle terre e la Riforma, e che, come il 23 novembre dello
scorso anno, ha costantemente difeso le proprie divergenti identità. Non
è frequente (a parte che non si tratti di convegni o workshop di
discipline sociali) che, in qualità di cittadini, ci si incontri per discutere
sull’idea del proprio territorio e sul cosa fare affinché quest’ultimo a
questa idea somigli.