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Istituzioni e forme giuridiche: le proposte del Cantiere meridionale

di Renato Greco


L’idea di un Cantiere meridionale in cui ‘ripensare il sud’ sottraendolo al mito dello sviluppo trae spunto dalla constatazione che le attese quasi secolari del decollo del meridione mediante una industrializzazione paragonabile a quella che si era realizzata nel nord e in altri paesi occidentali sembrano ormai definitivamente deluse.
Fra l’altro, quel modello non è neppure tanto auspicabile se si considera che la modernità sostenuta dagli idoli del nostro tempo - la potenza delle tecniche e la logica stretta del mercato - lungi dal realizzare la promessa di progresso e felicità, ha finito per avvilupparsi in un’ossessione produttivistica che ha istituito il calcolo economico a principio generale della convivenza e ha generato insicurezza e perdita di senso, lacerando legami sociali, familiari e ambientali.
E’ stimolante, pertanto, il proposito di ‘inventare’ un altro modo di essere della società, partendo da una ‘coscienza dei luoghi’ che riesca a cogliere nei municipi, nei territori, nelle tradizioni culturali locali un ‘pensiero meridiano’ e uno ‘spirito pubblico meridionale’ capaci di resistere alla logica utilitaria del profitto e della produttività.
In questa prospettiva il ‘locale’ assume valore strategico, di alternativa. In netta contrapposizione alle esigenze del mercato globale che considera il territorio dei vari paesi come uno spazio economico unico, da usare e violentare, le cui risorse sono beni da trasformare in prodotti di mercato, senza alcuna attenzione alla sostenibilità ambientale e sociale dei processi di produzione. Nella prospettiva del Cantiere meridionale il ‘locale’ non è una mera dimensione geografica, ma un punto di vista, un approccio, una qualità dello spazio che esprime le differenze e il carattere distintivo dei luoghi unitamente alle loro culture e tradizioni. Una caratteristica da valorizzare nella prospettiva di un modello sociale che, rifiutando la “perversa pervasività dell’economia globale” (Alcaro), prefiguri uno sviluppo locale autosostenibile in cui la qualità della vita prevalga sulla logica distruttiva della produzione illimitata di merci.
E’ forse utile tentare di capire quali dovrebbero essere le forme giuridiche e le istituzioni adeguate a tale progetto.
Ogni epoca storica si dà una propria concezione dei rapporti sociali, di produzione e di lavoro a cui fa seguire un corrispondente modello di giuridificazione che finisce per imporsi.
Le istituzioni e le forme giuridiche del Novecento sono state segnate dalla cultura della crescita illimitata e della diffusione del benessere su cui si reggeva lo stato sociale. Un modello che aveva il suo luogo paradigmatico nella grande fabbrica fordista, attorno alla quale sono nate le grandi organizzazioni di massa, il partito e il sindacato, e che è stato al centro del sistema di protezione giuridica dei lavoratori. Attraverso le reti di protezione sociale e la garanzia del salario questi si sono trasformati da sfruttati a produttori e quindi da produttori a consumatori, in grado di acquistare nel mercato le merci che il sistema di produzione di massa offriva. Si è realizzata così una convergenza tra esigenze della produzione e forme delle garanzie che ha accompagnato il welfare per gran parte del secolo scorso. Istituzioni e norme giuridiche sono state modulate su tale sistema e attraverso il lavoro nella grande fabbrica milioni di lavoratori hanno acquisito non solo reddito certo e protezione sociale, ma anche identità, dignità e cittadinanza. Da qui una diffusa ‘etica del lavoro’ che ha spinto partiti e organizzazioni della sinistra a chiedere, in una perversa eterogenesi dei fini, non già la liberazione dal lavoro, ma dosi sempre più massicce di lavoro salariato in fabbrica, unica via di accesso al sistema delle tutele e della cittadinanza.
Questo sistema produttivo e giuridico si è imposto con una logica discendente e pervasiva verso la periferia, come espressione della modernità, senza alcuna attenzione alla compatibilità con le specifiche realtà locali. Ha così determinato i comportamenti delle classi dirigenti del sud, protese per decenni a invocare flussi finanziari per realizzare una industrializzazione imitativa delle realtà del nord, ed ha condizionato anche il costume di molti meridionali indotti a ritenere che solo la partecipazione al processo produttivo industriale avrebbe assicurato dignità, identità, cittadinanza e consentito di entrare nella modernità.
Come è risaputo, da qualche decennio il modello di produzione di massa è in crisi. Globalizzazione e nuove tecnologie hanno imposto sistemi produttivi che superano gli schemi del fordismo e la netta separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro che accompagnava la separatezza tra territorio e fabbrica. Gran parte del lavoro un tempo regolato nell’impresa si è trasformato in lavoro frammentato, flessibile, eterogeneo, precario, diffuso nel territorio. Sono quindi entrati in crisi il circuito virtuoso tra esigenze della produzione e sistema protettivo e quella cultura del Novecento che collegava i diritti ai momenti di espansione economica. A dimostrazione che era nel codice genetico dello stato sociale la ineliminabile tendenza a considerare i diritti quasi il prodotto di una prodigalità dall’alto, la versione massificata di ciò che era stato un privilegio e come tale revocabile se superiori esigenze legate allo sviluppo produttivo lo impongono.
Malgrado ciò, la logica del primato dell’economia e l’ossessione produttivistica permangono. Dovunque, non solo nelle periferie del mondo, si tenta ancora di attrarre capitali e investimenti offrendo condizioni di lavoro a basso costo e ridotte protezioni giuridiche. Incapaci di pensare sistemi di vita alternativi, le classi politiche meridionali si muovono in questa direzione ritenendo di raggiungere per questa via quel livello di industrializzazione da sempre auspicato.
Non è certo questa la sede per una valutazione esaustiva del ruolo storico svolto per quasi un secolo dallo stato sociale e dalla tendenza verso l’egualitarismo e l’universalismo dei diritti. Nell’economia di queste note è sufficiente rilevare che la crisi e la frantumazione delle forme compatte e concentrate di produzione e la diffusione del lavoro in mille forme nel sociale sono una occasione per riconsiderare la questione dello sviluppo meridionale in termini nuovi senza il peso ingombrante e paralizzante del modello vincente dell’industrializzazione e della massiccia giuridificazione di matrice statale.
Si può allora pensare a un meridione che sappia valorizzare le sue risorse, le tradizioni, le culture, l’ambiente, il clima non più per piegarli alle esigenze della produzione e del profitto ma esclusivamente in funzione di una migliore qualità di vita, anche a costo di incidere sui consumi e sugli stili di vita consentiti dal modello vincente.
In questo scenario di futuro l’istituzione che più di ogni altra può diventare l’attivatore del progetto, stimolando gli attori della trasformazione e favorendo la partecipazione diretta dei cittadini è l’ente locale, il nuovo municipio. A condizione che si costruisca come un intreccio di differenti reti tecniche e sociali e che concepisca lo spazio pubblico, inteso come espressione delle comunità urbane, come il luogo in cui possano coniugarsi e anche confliggere saperi, relazioni, interessi diversi in una nuova fase di sviluppo in cui l’intelligenza collettiva non sia sussunta in un unico codice standardizzato.
Perché ciò possa avvenire occorre che venga accentuata la funzione di autogoverno e la potestà normativa delle comunità locali, dei comuni, delle reti tra comuni in relazione ai servizi alle persone, alla collettività, alla promozione dello sviluppo economico locale e al riassetto del territorio. Ciò consentirebbe di riservare alla produzione legislativa statale standardizzata i principi fondamentali e la tutela dei beni e dei servizi primari mentre la regolamentazione della vita della comunità dovrebbe avvenire attraverso processi di autonormazione e norme giuridiche frutto dall’agire comunicativo dei soggetti del territorio (la ‘reflexive law’). Troverebbe così maggiore spazio una giuridicità dal basso, calibrata sulle specificità locali, partecipata e condivisa. Più idonea, quindi, a ridurre l’inevitabile scarto tra la povertà delle procedure e la ricchezza della vita sociale che la disadorna linearità della legge non riesce quasi mai a rappresentare compiutamente.
In una società in cui sta crollando il mito della crescita illimitata è inoltre inevitabile passare da una concezione della cittadinanza fondata sul lavoro salariato a una fondata sul reddito sociale di base, che deve però essere ancorato a decisioni delle autonomie locali, dei municipi o delle reti di municipi. Solo il nesso tra welfare municipale e reddito sociale può coinvolgere le realtà territoriali e costruire dal basso percorsi verificabili di intervento su obiettivi dati e certi, promovendo cultura solidale e disponibile alle differenze. In tal modo i contesti locali possono diventare i luoghi più idonei da un lato a contrastare i danni e le derive negative causate dal liberismo e dall’altro a valorizzare le persone prese in carico e considerate nella loro complessità di uomini e donne portatori di diritti, bisogni, aspettative di affettività e socialità. Ciò consentirebbe di rovesciare il senso della flessibilità e indirizzarla, attraverso una rete di tutele e garanzie, a sostegno delle scelte individuali. Favorendo le domande di entrata e uscita dal mondo del lavoro per dedicare il proprio tempo alla famiglia, allo studio, alla riflessione sulla propria vita, ad interessi culturali diversi e poi rientrare senza subire pregiudizi economici e normativi, mantenendo intatte identità e dignità sociale.
Come è facilmente intuibile una tale organizzazione sociale e politica del sud presuppone una vera e propria rivoluzione culturale. Occorrerà verificare quindi se e quali danni irreversibili abbia prodotto nelle genti meridionali la proposizione continua attraverso i media dello stile di vita connesso al sistema di produzione di merci e di consumi illimitati. Inoltre ogni proposta concernente la società meridionale resterebbe puro esercizio declamatorio se non si misurasse con gli effetti che potrebbe avere su ogni progetto di cambiamento il fenomeno mafioso. Questo da lungo tempo trae alimento dai flussi economici e finanziari dirottati verso il sud trasformandosi radicalmente. Lungi dall’essere ancora un esempio di marginalità e sottosviluppo, espressione di valori e tradizioni delle società meridionali, la mafia si intreccia sempre più con la politica, gli affari, l’economia e si presenta ormai come una delle forme della modernità nel meridione.
Un progetto che intenda valorizzare i luoghi, i saperi, le culture, il patrimonio ambientale e climatico delle realtà meridionali facendo leva sulla partecipazione delle comunità locali può dare slancio e autoconsiderazione a una società mortificata che, stretta tra una pubblica amministrazione corrotta e inefficiente e una cultura mafiosa arrogante e predatoria, a lungo è stata costretta a cercare spazi di sopravvivenza nelle pieghe di una legalità degradata ricorrendo a compromessi e adattamenti che comunque hanno espropriato gli individui della possibilità di decidere autonomamente sulle proprie scelte di vita. Per questa via si può togliere alimento e linfa alla mafia, forse ancor più incisivamente dei classici strumenti repressivi e di contrasto.
Concludo rilevando che la proposta del Cantiere meridionale ha un’indubbia carica di suggestione e di utopia prefigurando scenari per ora solo immaginari. Ma sono convinto in certi momenti, per usare le parole di Franco Cassano, “solo l’immaginazione può ricondurre gli uomini alla realtà”.



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