L’idea di un Cantiere meridionale in cui ‘ripensare il sud’ sottraendolo al
mito dello sviluppo trae spunto dalla constatazione che le attese quasi
secolari del decollo del meridione mediante una industrializzazione
paragonabile a quella che si era realizzata nel nord e in altri paesi
occidentali sembrano ormai definitivamente deluse.
Fra l’altro, quel modello non è neppure tanto auspicabile se si considera
che la modernità sostenuta dagli idoli del nostro tempo - la potenza delle
tecniche e la logica stretta del mercato - lungi dal realizzare la promessa di
progresso e felicità, ha finito per avvilupparsi in un’ossessione
produttivistica che ha istituito il calcolo economico a principio generale
della convivenza e ha generato insicurezza e perdita di senso, lacerando
legami sociali, familiari e ambientali.
E’ stimolante, pertanto, il proposito di ‘inventare’ un altro modo di essere
della società, partendo da una ‘coscienza dei luoghi’ che riesca a cogliere
nei municipi, nei territori, nelle tradizioni culturali locali un ‘pensiero
meridiano’ e uno ‘spirito pubblico meridionale’ capaci di resistere alla
logica utilitaria del profitto e della produttività.
In questa prospettiva il ‘locale’ assume valore strategico, di alternativa. In
netta contrapposizione alle esigenze del mercato globale che considera il
territorio dei vari paesi come uno spazio economico unico, da usare e
violentare, le cui risorse sono beni da trasformare in prodotti di mercato,
senza alcuna attenzione alla sostenibilità ambientale e sociale dei processi
di produzione. Nella prospettiva del Cantiere meridionale il ‘locale’ non è
una mera dimensione geografica, ma un punto di vista, un approccio, una
qualità dello spazio che esprime le differenze e il carattere distintivo dei
luoghi unitamente alle loro culture e tradizioni. Una caratteristica da
valorizzare nella prospettiva di un modello sociale che, rifiutando la
“perversa pervasività dell’economia globale” (Alcaro), prefiguri uno
sviluppo locale autosostenibile in cui la qualità della vita prevalga sulla
logica distruttiva della produzione illimitata di merci.
E’ forse utile tentare di capire quali dovrebbero essere le forme giuridiche
e le istituzioni adeguate a tale progetto.
Ogni epoca storica si dà una propria concezione dei rapporti sociali, di
produzione e di lavoro a cui fa seguire un corrispondente modello di
giuridificazione che finisce per imporsi.
Le istituzioni e le forme giuridiche del Novecento sono state segnate dalla
cultura della crescita illimitata e della diffusione del benessere su cui si
reggeva lo stato sociale. Un modello che aveva il suo luogo paradigmatico
nella grande fabbrica fordista, attorno alla quale sono nate le grandi
organizzazioni di massa, il partito e il sindacato, e che è stato al centro del
sistema di protezione giuridica dei lavoratori. Attraverso le reti di
protezione sociale e la garanzia del salario questi si sono trasformati da
sfruttati a produttori e quindi da produttori a consumatori, in grado di
acquistare nel mercato le merci che il sistema di produzione di massa
offriva. Si è realizzata così una convergenza tra esigenze della produzione
e forme delle garanzie che ha accompagnato il welfare per gran parte del
secolo scorso. Istituzioni e norme giuridiche sono state modulate su tale
sistema e attraverso il lavoro nella grande fabbrica milioni di lavoratori
hanno acquisito non solo reddito certo e protezione sociale, ma anche
identità, dignità e cittadinanza. Da qui una diffusa ‘etica del lavoro’ che ha
spinto partiti e organizzazioni della sinistra a chiedere, in una perversa
eterogenesi dei fini, non già la liberazione dal lavoro, ma dosi sempre più
massicce di lavoro salariato in fabbrica, unica via di accesso al sistema
delle tutele e della cittadinanza.
Questo sistema produttivo e giuridico si è imposto con una logica
discendente e pervasiva verso la periferia, come espressione della
modernità, senza alcuna attenzione alla compatibilità con le specifiche
realtà locali. Ha così determinato i comportamenti delle classi dirigenti del
sud, protese per decenni a invocare flussi finanziari per realizzare una
industrializzazione imitativa delle realtà del nord, ed ha condizionato anche
il costume di molti meridionali indotti a ritenere che solo la partecipazione
al processo produttivo industriale avrebbe assicurato dignità, identità,
cittadinanza e consentito di entrare nella modernità.
Come è risaputo, da qualche decennio il modello di produzione di massa è
in crisi. Globalizzazione e nuove tecnologie hanno imposto sistemi
produttivi che superano gli schemi del fordismo e la netta separazione tra
tempo di vita e tempo di lavoro che accompagnava la separatezza tra
territorio e fabbrica. Gran parte del lavoro un tempo regolato nell’impresa
si è trasformato in lavoro frammentato, flessibile, eterogeneo, precario,
diffuso nel territorio. Sono quindi entrati in crisi il circuito virtuoso tra
esigenze della produzione e sistema protettivo e quella cultura del
Novecento che collegava i diritti ai momenti di espansione economica. A
dimostrazione che era nel codice genetico dello stato sociale la
ineliminabile tendenza a considerare i diritti quasi il prodotto di una
prodigalità dall’alto, la versione massificata di ciò che era stato un
privilegio e come tale revocabile se superiori esigenze legate allo sviluppo
produttivo lo impongono.
Malgrado ciò, la logica del primato dell’economia e l’ossessione
produttivistica permangono. Dovunque, non solo nelle periferie del mondo,
si tenta ancora di attrarre capitali e investimenti offrendo condizioni di
lavoro a basso costo e ridotte protezioni giuridiche. Incapaci di pensare
sistemi di vita alternativi, le classi politiche meridionali si muovono in
questa direzione ritenendo di raggiungere per questa via quel livello di
industrializzazione da sempre auspicato.
Non è certo questa la sede per una valutazione esaustiva del ruolo storico
svolto per quasi un secolo dallo stato sociale e dalla tendenza verso
l’egualitarismo e l’universalismo dei diritti. Nell’economia di queste note è
sufficiente rilevare che la crisi e la frantumazione delle forme compatte e
concentrate di produzione e la diffusione del lavoro in mille forme nel
sociale sono una occasione per riconsiderare la questione dello sviluppo
meridionale in termini nuovi senza il peso ingombrante e paralizzante del
modello vincente dell’industrializzazione e della massiccia
giuridificazione di matrice statale.
Si può allora pensare a un meridione che sappia valorizzare le sue risorse,
le tradizioni, le culture, l’ambiente, il clima non più per piegarli alle
esigenze della produzione e del profitto ma esclusivamente in funzione di
una migliore qualità di vita, anche a costo di incidere sui consumi e sugli
stili di vita consentiti dal modello vincente.
In questo scenario di futuro l’istituzione che più di ogni altra può diventare
l’attivatore del progetto, stimolando gli attori della trasformazione e
favorendo la partecipazione diretta dei cittadini è l’ente locale, il nuovo
municipio. A condizione che si costruisca come un intreccio di differenti
reti tecniche e sociali e che concepisca lo spazio pubblico, inteso come
espressione delle comunità urbane, come il luogo in cui possano coniugarsi
e anche confliggere saperi, relazioni, interessi diversi in una nuova fase di
sviluppo in cui l’intelligenza collettiva non sia sussunta in un unico codice
standardizzato.
Perché ciò possa avvenire occorre che venga accentuata la funzione di
autogoverno e la potestà normativa delle comunità locali, dei comuni, delle
reti tra comuni in relazione ai servizi alle persone, alla collettività, alla
promozione dello sviluppo economico locale e al riassetto del territorio.
Ciò consentirebbe di riservare alla produzione legislativa statale
standardizzata i principi fondamentali e la tutela dei beni e dei servizi
primari mentre la regolamentazione della vita della comunità dovrebbe
avvenire attraverso processi di autonormazione e norme giuridiche frutto
dall’agire comunicativo dei soggetti del territorio (la ‘reflexive law’).
Troverebbe così maggiore spazio una giuridicità dal basso, calibrata sulle
specificità locali, partecipata e condivisa. Più idonea, quindi, a ridurre
l’inevitabile scarto tra la povertà delle procedure e la ricchezza della vita
sociale che la disadorna linearità della legge non riesce quasi mai a
rappresentare compiutamente.
In una società in cui sta crollando il mito della crescita illimitata è inoltre
inevitabile passare da una concezione della cittadinanza fondata sul lavoro
salariato a una fondata sul reddito sociale di base, che deve però essere
ancorato a decisioni delle autonomie locali, dei municipi o delle reti di
municipi. Solo il nesso tra welfare municipale e reddito sociale può
coinvolgere le realtà territoriali e costruire dal basso percorsi verificabili di
intervento su obiettivi dati e certi, promovendo cultura solidale e
disponibile alle differenze. In tal modo i contesti locali possono diventare i
luoghi più idonei da un lato a contrastare i danni e le derive negative
causate dal liberismo e dall’altro a valorizzare le persone prese in carico e
considerate nella loro complessità di uomini e donne portatori di diritti,
bisogni, aspettative di affettività e socialità. Ciò consentirebbe di
rovesciare il senso della flessibilità e indirizzarla, attraverso una rete di
tutele e garanzie, a sostegno delle scelte individuali. Favorendo le domande
di entrata e uscita dal mondo del lavoro per dedicare il proprio tempo alla
famiglia, allo studio, alla riflessione sulla propria vita, ad interessi culturali
diversi e poi rientrare senza subire pregiudizi economici e normativi,
mantenendo intatte identità e dignità sociale.
Come è facilmente intuibile una tale organizzazione sociale e politica del
sud presuppone una vera e propria rivoluzione culturale. Occorrerà
verificare quindi se e quali danni irreversibili abbia prodotto nelle genti
meridionali la proposizione continua attraverso i media dello stile di vita
connesso al sistema di produzione di merci e di consumi illimitati. Inoltre
ogni proposta concernente la società meridionale resterebbe puro esercizio
declamatorio se non si misurasse con gli effetti che potrebbe avere su ogni
progetto di cambiamento il fenomeno mafioso. Questo da lungo tempo trae
alimento dai flussi economici e finanziari dirottati verso il sud
trasformandosi radicalmente. Lungi dall’essere ancora un esempio di
marginalità e sottosviluppo, espressione di valori e tradizioni delle società
meridionali, la mafia si intreccia sempre più con la politica, gli affari,
l’economia e si presenta ormai come una delle forme della modernità nel
meridione.
Un progetto che intenda valorizzare i luoghi, i saperi, le culture, il
patrimonio ambientale e climatico delle realtà meridionali facendo leva
sulla partecipazione delle comunità locali può dare slancio e
autoconsiderazione a una società mortificata che, stretta tra una pubblica
amministrazione corrotta e inefficiente e una cultura mafiosa arrogante e
predatoria, a lungo è stata costretta a cercare spazi di sopravvivenza nelle
pieghe di una legalità degradata ricorrendo a compromessi e adattamenti
che comunque hanno espropriato gli individui della possibilità di decidere
autonomamente sulle proprie scelte di vita. Per questa via si può togliere
alimento e linfa alla mafia, forse ancor più incisivamente dei classici
strumenti repressivi e di contrasto.
Concludo rilevando che la proposta del Cantiere meridionale ha
un’indubbia carica di suggestione e di utopia prefigurando scenari per ora
solo immaginari. Ma sono convinto in certi momenti, per usare le parole di
Franco Cassano, “solo l’immaginazione può ricondurre gli uomini alla
realtà”.