Capita molto spesso, negli ultimi tempi, di assistere ad un abuso dell’aggettivo “etnico/a” con
riferimento alla musica moderna. Infatti, nel linguaggio comune corrente è ormai invalsa l’abitudine
di usare il termine “musica etnica” per indicare una molteplicità di prodotti musicali (e non solo
musicali), che nulla hanno a che fare con la tradizione e con l’autenticità dell’espressione orale (nel
caso della musica) della cultura popolare.
Il fenomeno è tanto ampio da meritare sicuramente qualche riflessione e qualche, più che
opportuna, precisazione. Da anni si parla di “contaminazione” tra generi e stilemi diversi, in
particolare fra musica “leggera”, musica “colta” o musica accademica, jazz, ecc. e musica etnica.
Termini quali word music, etnomusic, new age ecc. sono divenuti di gran famigliarità.
In verità l’evoluzione del linguaggio musicale, da sempre, si nutre di benefiche osmosi con la
tradizione orale della musica popolare: basti pensare al rapporto tra la prassi compositivo-
interpretativa della musica accademica (musica classica) e la tradizione orale della musica popolare
dai tempi più remoti fino ad arrivare ai giorni nostri. In generale, la presenza della componente
etnica (di solito in rapporto di minoranza) all’interno dell’espressione artistica appartenente ad altri
generi musicali apporta un contributo “culturale” che apre nuovi orizzonti alle creatività
compositiva e determina sviluppi artistici pluridirezionali di grande autenticità, dove è possibile
riscontrare sempre un grado di ri-conoscimento e di legittimazione reciproci tra generi all’interno di
un rapporto di parità e di non sopraffazione.
In ambito umanistico (in etnomusicologia in primis) il termine “etnico/a” è, quindi, usato
principalmente con riferimento alle musiche di tradizione orale.
In che cosa consiste allora la problematicità riportata ai tempi correnti?
Oggi assistiamo ad un’enorme produzione di prodotti musicali che costituiscono
un’indifferenziata pluridiversità di proposte che il mercato discografico, per questioni di marketing,
“etichetta” alla stregua di come sono etichettati i generi alimentari: usa, quindi, il termine per
definire semplicemente un prodotto destinato al mercato.
D’altra parte è bene osservare che ci sono ben diversi modi, da parte di singoli artisti o di
gruppi, di rapportarsi alle musiche tradizionali, ma non tutti hanno la stessa valenza culturale.
La musica Jazz è la musica del Novecento che maggiormente si sta dimostrando disponibile
ad un rapporto con le varie componenti etniche, con risultati in molti casi d’estremo interesse sul
piano dei risultati artistici, in altri casi invece con risultati non sempre validi, anzi del tutto deludenti
soprattutto quando si lascia andare a forme di pura e semplice contaminazione, alla realizzazione di
prodotti del tutto furbeschi ed ammantati di patinato edonismo.
Ciò vale per qualunque espressione e genere musicale, e non sarà difficile riconoscere nel
prodotto artistico finale i tratti salienti dell’autenticità e della qualità quando questi realmente
esistono.
I gruppi folkloristici, ad esempio, generalmente (ma non sempre per fortuna) semplificano e
nei casi peggiori banalizzano l’idioma tradizionale a favore di una musicalità più “addomesticata”
adatta ad un pubblico poco attento e poco esigente. La conseguenza più grave è data dal fatto che
queste espressioni musicali possono diffondere errate stereotipizzazioni della musica di tradizione
orale. E’ il caso, per esempio, di “Calabrisella mia”, valzer che nulla ha che fare con la musica
etnica e tanto meno con la tradizione musicale calabrese, e costituisce un vero e proprio capolavoro
di banalizzazione di figure retoriche della musica e della poesia tradizionale calabrese.
Procedere verso questa direzione significa via via perdere contatto con l’essenza più profonda
della nostra musica tradizionale, per ritrovarsi infine di fronte ad un involucro vuoto, senza vita.
Diverso è il caso di chi effettua ricerche sul campo per riproporre “filologicamente” canti e
musiche di tradizione orale. Ovviamente si può obiettare che trasportare così come sono le musiche
tradizionali su un palco corrisponde ad una loro “decontestualizzazione” perché quella musica che
era componente essenziale, parte fondamentale di un complesso di valori e di situazioni particolari
(l’evento nel quale l’azione musicale si dispiegava), è riproposta in un contesto completamente
altro, perciò l’effetto è di far perdere alla musica sapore e fragranza che è insita nell’espressione
originaria, è come servire una pietanza senza sale. Ma nei contesti giusti (ad esempio la lezione-
concerto) abbinare l’esecuzione di musica filologica a delle brevi spiegazioni sul contesto e le
funzioni originarie di questa, può porre le basi per una prima riflessione sul valore della nostra
cultura, per iniziare un processo di recupero delle proprie radici e la riappropriazione della propria
identità, o anche suscitare delle semplici ma importanti curiosità nel pubblico a proposito degli
strumenti e dei repertori e stimolarne un (ri)avvicinamento.
Le prospettive che offrono questo tipo d’operazioni artistico-culturali vanno viste nell’ottica
della valorizzazione del “local” nel “global”.
Quindi va detto sì alla riproposta (nei contesti adatti) ed alla rielaborazione (nell’ambito di un
rapporto etico, intellettualmente aperto al confronto) in chiave moderna dell’idioma tradizionale.
Vanno invece smascherati tutta una serie di gruppi che fanno della “contaminazione” il
proprio credo. Il riferimento è a chi, senza un minimo di compenetrazione critica, mischia materiali
provenienti da diverse aree del mondo con l’elettronica, e peggio ancora, non interessato al mondo
che va a saccheggiare, considera tale mondo solo un immenso archivio di “suoni” da combinare e
mettere assieme. In tali casi si pone un problema prima di tutto di carattere etico, prima che estetico.
Perché un’immane quantità, uniformemente confezionata, di prodotti è immessa nel mercato
globale ed è finalizzata unicamente al profitto (un prodotto unico da destinare in ogni parte del
globo). Tale produzione, indifferenziata e priva di qualità, intercetta fatalmente la domanda, perché
il processo di globalizzazione tende inesorabilmente ad uniformare abitudini e comportamenti,
estraniando dalle autentiche radici culturali locali.
Nella maggior parte dei casi chi opera in questo modo non ha alcun interesse a fare ricerca sul
campo, non interagisce con la cultura in questione, anzi annulla le specificità culturali, mischiando
acqua santa e diavolo, acqua ed olio. Il prodotto privo d’autenticità e qualità è contrabbandato dal
mercato discografico come prodotto da soggetti che “fanno musica etnica”.
Bisogna stare molto attenti, dunque, e cominciare a distinguere, intanto, l’abissale distanza
qualitativa fra un modernismo che parte dal “local” per arrivare al “global”, l’autenticità ed il gran
valore della musica etnica e della tradizionale orale popolare, e la mistificata e mistificante logica
del profitto inserita in una globalizzazione sonora pura e semplice, che non lascia spazio al dialogo
tra diverse identità ed alla comprensione fra i popoli del mondo.