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Per una politica sociale dell’ambiente

di Osvaldo Pieroni e Alberto Ziparo


La Calabria del terzo millennio è dotata di un’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, di uno specifico assessorato, di una commissione per la Valutazione d’Impatto ambientale, di piani d’assetto idrogeologico, ecc. ecc. Strumenti e politiche che – all’evidenza dei fatti – non soltanto non hanno contrastato il degrado, ma paiono averlo accompagnato. Decisori, risorse finanziarie e mezzi che non si sono accordati con la struttura fisica e climatica della regione, ma paiono aver favorito il dissesto.
L’accelerazione del processo di degrado, con l’appesantimento delle coste ed il mancato rinascimento dei litorali, la cementificazione, l’imbrigliamento degli alvei e la cancellazione delle fiumare, l’occupazione dei demani, l’apertura di cave e i continui prelievi, l’impermeabilizzazione dei suoli, tutto ciò trova un degno coronamento nella delibera di sanatoria per l’abusivismo approvata dalla Giunta Regionale proprio nel dicembre 2003, su proposta dell’assessore all’urbanistica.
Il nostro contributo intende inquadrare alcune linee interpretative del territorio calabrese nell’ambito di un approccio “territorialista” di riqualificazione sostenibile dell’assetto ecosociale. Prima di riprendere temi e problematiche presentate oggi dall’ambiente calabrese ci si soffermerà su una serie di nodi teoretici.
Il primo punto da considerare è di carattere molto generale e concerne il modo in cui si guarda e si definisce l’ambiente. Sosteniamo che non vi è alcuna natura “da proteggere” (o da cui proteggersi) in quanto l’ambiente, compreso l’ambito più propriamente ecologico e naturale, non è separato dall’agire umano e della evoluzione della società. Una politica ambientale pertanto non è concepibile come settore separato: questioni ambientali sono immediatamente questioni sociali, così come questioni sociali sono per converso inevitabilmente questioni ambientali.
Se una specifica politica ambientale ha un senso, questo riguarda soltanto aspetti operativi nell’ambito di una divisione di compiti tra competenze che in ogni caso non possono agire separatamente e coltivare linguaggi che emergono da differenti paradigmi. La questione ambientale è non soltanto trasversale, ma più precisamente interna a ciascun settore della società, della cultura, della tecnica e dell’economia. Nel superare una concezione che separa natura e società e che ha prodotto il disastro ecologico e sociale che caratterizza la nostra epoca, l’ecologia è politica per definizione.
Il secondo punto che occorre tener presente riguarda il superamento di un’altra fittizia dicotomia che, così come ha posto su due fronti opposti natura e società, ha separato quest’ultima dall’economia, definendo la sfera economica come sistema autonomo ed autoregolato.
Il concetto di sviluppo sostenibile – nelle sue differenti versioni, ivi comprese le più “forti” – è l’estremo, ambiguo tentativo di giustificare siffatte separazioni. Esso si fonda su di una contraddizione insormontabile. Esso dovrebbe conciliare tre imperativi: la crescita economica, la riduzione della povertà e la preservazioni degli ecosistemi. Nell’assolvere questo compito l’imperativo della crescita economica è considerato come la condizione necessaria per il raggiungimento degli altri due obiettivi. In questo quadro la crescita è necessariamente quantitativa (riguardando produzione di beni) e lo sviluppo – anche nei suoi aspetti qualitativi (cultura, istruzione, salute, benessere, etc.) – passa attraverso l’aumento continuo della produzione. Sia da un punto di vista liberista – che pone la crescita economica dei paesi più ricchi come modello di sviluppo da imporre necessariamente ai poveri -, sia da un punto di vista non strettamente liberale l’assioma della crescita è fuori discussione. Se i secondi riconoscono i guasti prodotti dalla crescita economica sull’ambiente e sulla società (disuguaglianza, ingiustizia, ecc.) e si appellano allo sviluppo come concetto differente ed obiettivo da perseguire, non possono negare che quest’ultimo contiene come condizione la stessa crescita economica.
Un concreto esempio della strada che non occorre assolutamente percorrere e, quindi, della prospettiva che occorre assolutamente battere ci è fornito dal recente intervento di Aurelio Misiti (vedi inserto “Il Portafoglio” de Il Quotidiano del 7.12.03) e dal programma elettoralistico della sua associazione “Pro-Calabria”. Il riferimento alle risorse, alle intelligenze calabresi ed alle nuove tecnologie è una pura menzogna che si risolve infatti in un programma di cementificazione del territorio, di costruzione di strade, dighe, centrali elettriche ed altri pesanti interventi ingegneristici fino alla glorificazione del ponte sullo Stretto di Messina “nella prospettiva di sviluppare come si deve l’industria più adatta al territorio che è il turismo di qualità e di massa.” (sic!) Peraltro la logica che sottende il programma di crescita del PIL calabrese abbozzato da Misiti mostra un’assoluta incapacità, anche tecnica, di misurarsi con il nuovo (ivi comprese le sbandierate nuove tecnologie) e con la specifica realtà calabrese. Se le tecniche per gestire e strutturare il territorio sono numerose, articolate e possiedono anche grandi potenzialità, sia in termini di efficacia sia di efficienza di sistema, le soluzioni proposte ed adottate (ponti, autostrade, dighe, centrali…) sono invece preconfigurate e semplificate da una procedura ripetitiva, resa possibile dalla nulla considerazione dell’ambiente e del sistema territoriale calabrese in cui si inseriscono.
Al contrario la via da percorrere appare già, almeno embrionalmente, tracciata da importanti esperienze d’ambito locale quali – ad esempio - gli experimenta in cantiere presso il Parco nazionale d’Aspromonte (dalle energie alternative, alla salvaguardia dagli incendi attraverso forme – contratti - di responsabilità collettiva fino al recupero dell’estetica dei borghi), la valorizzazione delle produzioni agricole locali e di qualità (in particolare nell’ambito del biologico), le esperienze di turismo responsabile e di progettazione/riqualificazione ecologica dei piccoli centri interni (come nei villaggi dell’area grecanica), l’istituzione di parchi letterari che coniugano storia-ambiente e cultura (come nel caso del Parco Horcinus Orca), l’adozione delle nuove tecnologie pulite di produzione e stoccaggio dell’energia (come nel progetto “Soveria ad idrogeno”), il richiamo ad una seria Valutazione di Impatto Ambientale (che, ad esempio, la Legge Obiettivo ha cancellato) per opere – non solo “grandi” - ed insediamenti nuovi, tale che coinvolga non soltanto esperti e tecnici, ma anche le popolazioni interessate (come già diversi comuni richiedono).
Qui di seguito, seguendo una tradizionale partizione ecologica, tipica dei geografi, dei sociologi del territorio e degli economisti agrari più attenti alle problematiche ambientali, indichiamo schematicamente alcune possibili iniziative che – certamente tra molte altre – potranno dar corpo ad un programma di politica ambientale.
La montagna. Il problema dello spopolamento delle aree interne è ancora rilevante. Non possiamo quindi semplicemente limitarci a proteggere l'ambiente naturale. Sulla nostra montagna, così bella e così selvaggia, si può invece sperimentare veramente un nuovo modello, in base a quello che Tonino Perna chiama “principio dell'adozione del territorio”. Dalla cancellazione degli usi civici in poi sono scomparsi nel meridione i legami comunitari con la gestione delle risorse ambientali. Le comunità locali non hanno più da decenni interessi da tutelare collettivamente.Vi è allora una nuova generazione di donne ed uomini istruiti, di intellettuali, di artisti (anche non calabresi) disposta a progetti di costruzione di una “appartenenza cognitiva”, tale che può scegliere l’adozione, appunto, di questi luoghi, tornando a rivitalizzarli e magari vivendoci per scelta. Ma anche per chi ha sofferto e soffre l’isolamento delle aree interne vi sono nuove possibilità. Qui l’economia forestale - che pure ha profonde tradizioni, non soltanto distruttive - può tornare ad essere vitale e centrale. Non si tratta soltanto di proteggere quel che resta dei boschi, ma - attorno ai parchi ed in zone caratterizzate da diffusa e tradizionale antropizzazione - di progettare oculate attività di produzione rinnovabile di essenze pregiate, in grado di alimentare l’artigianato e l’industria del legno. La vivaistica, come produzione vantaggiosa di verde per il consumo pubblico e privato, è un’altra valida possibilità. Lo è parimenti il ripopolamento faunistico che non serve soltanto i parchi, ma può alimentare attività di ristorazione tipica. La montagna è la sede degli itinerari naturalistici controllati, dell’escursionismo guidato, dell’agriturismo montano, di molti sport salutari e puliti e richiede decine e decine di alte competenze, iniziativa imprenditoriale e cooperazione. La montagna è ricca di laghi interni, che possono essere valorizzati adeguatamente, piuttosto che progettare attorno ad essi ed ai corsi d’acqua nuove dighe speculative, cave, sbancamenti e deforestazione. La montagna calabrese, battuta dallo scirocco, non è pendio sciabile e non servono funivie o impianti di risalita per fallimentari stazioni sciistiche. Ma la sua peculiarità è proprio qui, nel suo clima e nella sua conformazione, nella sua flora – a volte unica – e nella sua fauna. Da questo punto di vista la Regione Calabria, in deroga alle direttive europee vanta un piano faunistico che da solo autorizza in pratica un “prelievo” (si legga strage) pari a quanto autorizzato da sei Regioni messe insieme. Il Piano faunistico della Calabria – come ad esempio ricorda il WWF - autorizza "in deroga" l'abbattimento di 1.480.000 fringuelli, 2.220.000 passeri e 3.700.000 storni.
La collina. In Calabria è sede di un’incredibile biodiversità che rischia di perdersi. I vecchi danni del latifondo si sommano a quelli più recenti dell’abbandono o delle monocolture industriali che durano qualche stagione lasciando il deserto. Ma i danni possono essere riparati. Può essere recuperato il valore economico di tanti alberi che un tempo popolavano le colline: il gelso, il sorbo, il corbezzolo, il giuggiolo, il fico... ora quasi rari. Alberi che segnavano il paesaggio, le economie locali e la vita delle genti, la vitalità delle poche aree di piccola proprietà contadina condotta con lo stile del “buon padre di famiglia”. La macchia mediterranea oggi spesso brucia. Ciò che si perde è un enorme laboratorio scientifico ed economico. Solo la follia e la vendetta del fuoco o la disperazione dell’abbandono possono disperdere questa ricchezza. Qui invece ricerca e sviluppo economico, nel campo della farmacia, della cosmesi, della economia verde, ecc., possono coniugarsi ottimamente. Un discorso specifico, inoltre, meriterebbe l’olivicoltura (che investe anche la pianura), la quale rappresenta in primo luogo un grande patrimonio ambientale e paesaggistico totalmente trascurato e sfruttato invece per una produzione di bassa qualità e molto spesso in funzione di integrazioni illegittimamente accaparrate.
La pianura. Perché continuare ad inseguire miti fallimentari di improbabili avventure industriali in comparti per i quali non v’è alcuna vocazione o socializzazione produttiva endogena? Perché arrischiare strade intasate dalla concorrenza? L’agroindustria, rinvigorita da produzioni di qualità, è la regina di queste terre che offrono a chi le cura la frutta, gli ortaggi, l’olivo. La trasformazione manifatturiera di questi prodotti sconta difficoltà e problemi che occorre non nascondersi, ma che non paiono insuperabili. I vantaggi della localizzazione geografica, una sorta di monopolio naturale offerto dal clima (dai molteplici microclimi), dalle giaciture, dall’irraggiamento e così via non possono essere trascurati. I pochi esempi di successo lo dimostrano. Vi sono poi saperi locali, culture produttive, pratiche relative all’uso dei beni agricoli e di molti vegetali spontanei che riguardano non solo i rami della trasformazione e della conservazione alimentare, ma anche la farmacopea, la dietetica e la salutistica e sconfinano nei settori della tintura e della manifattura artigianale. Si tratta di saperi ed abilità sommersi, che con urgenza dovrebbero essere recuperati, prima che svaniscano del tutto. Si tratta di competenze che mercati raffinati ricercano e che dovrebbero essere valorizzate con ampi e sensati progetti, invece di relegarle - al massimo - nei ristretti e manipolati ambiti del folklorismo consumista.
Nell'ambito di "Bioitaly" sono stati individuati 212 siti calabresi di primario interesse per caratteristiche floro-faunistiche. Fra di essi numerosi sono i biotopi d'acqua ferma fra cui le ultime zone paludose. Va sottolineata, tuttavia, l'urgenza di mettere sotto un vincolo di tutela più efficace le poche altre zone umide rimaste. Il vincolo di "oasi di protezione" è debole: vieta in pratica soltanto l'esercizio della caccia, ma non garantisce che sia rispettata l'integrità dell'ambiente naturale: è il caso – tra gli altri - dell'oasi di protezione "Foce del Neto", dove ogni anno una fetta della palude e del residuo bosco planiziale è distrutto per far posto alle coltivazioni.
Il mare. E’ stato, per troppi secoli, il “grande assente”, pur se circonda la Calabria per quasi 800 km. Se ne ritorna a parlare oggi con il boom del Porto di Gioia Tauro ed il transhipment. Qui trovano occupazione un migliaio di persone, ma - oltre a salari e stipendi - ben poco è quel che resta all’economia regionale. (Molto, non bisogna nasconderselo, è invece quel che è restato e resta tuttora alla mafia,... ma questo è un altro discorso). Tuttavia il mare calabrese non può essere considerato soltanto “autostrada” di merci: una simile concezione non è soltanto riduttiva, ma rischia di aprire prospettive distruttive. Le coste calabresi sono oggi l’esempio emblematico della discarica. Non ci riferiamo tanto all’inquinamento - che il grande mare riesce ancora con fatica (ma non per molto) a smaltire - quanto piuttosto alla informe colata di cemento che ha ricoperto i litorali. Se fosse applicata la saggia Legge Galasso, piuttosto che ricorrere a nuovi perniciosi condoni, ad occhio e croce, almeno l’80% delle costruzioni costiere dovrebbe scomparire. Sarà doloroso, ma questo percorso va intrapreso. Quanto ciò sia possibile è dimostrato dalla esperienza ormai in corso da diversi anni nel Rossanese. Si può avanzare una provocazione: l’abbattimento programmato delle costruzioni, il riciclaggio dei materiali e la rigenerazione dei litorali possono costituire un affare economico di importanti proporzioni e consentire su basi diverse un rilancio qualitativo del settore edilizio, della ristrutturazione rispettosa e di un turismo sostenibile. Le possibilità durature del turismo sono in realtà legate al successo di questo tipo di operazioni. Piuttosto che un’economia della cementificazione, quale quella che abbiamo dolorosamente conosciuto, occorrerebbe inaugurare quella che possiamo chiamare “economia della sottrazione”, finalizzata a liberare spazi per la fruizione collettiva e la ricostituzione della bellezza. Perseguire irrealizzabili modelli di infrastrutturazione e cementificazione alla Cesenatico o, peggio ancora, alla Miami, magari dotati di specchi d’acqua artificiali, aquaparks, piscine a bordo spiaggia, etc. servirà soltanto ad esaurire risorse e generare spreco. Spiagge pulite, acque incontaminate, serenità e pulizia acustica, un’estate che va da aprile a novembre sono le risorse che giacciono sotto le immondizie della speculazione e della rendita, della invasione d’asfalto, cemento di pessima qualità, automobili e motorini schiamazzanti. La vela, l’osservazione subacquea (diving libero e guidato), la talassoterapia e l’elioterapia sono prospettive concrete e redditizie che accompagnano una proposta turistica rinnovata. Non serve, a questo proposito, il proliferare di nuovi progetti di porti (in particolare turistici per imbarcazioni da diporto, come l’insensato progetto nell’area di Capo Vaticano), che – oltre all’insostenibile impatto ambientale – sarebbero del tutto antieconomici, dato il rapporto già equilibrato tra natanti in circolazione e posti barca disponibili. Si tratta piuttosto di sistemare e rendere funzionale l’esistente. Di istituire aree protette di ripopolamento e rigenerazione della flora e della fauna marina.
Ma vi sono anche concrete possibilità di valorizzazione di una pesca non di rapina che miri alla conservazione del mare, che si indirizzi in parte verso l’itticoltura e l’allevamento fino alla mitilicoltura. In questo settore esistono tradizionali capacità e saperi importanti per la trasformazione e la conservazione del pescato, sia artigianale sia industriale.
I paesi-presepio, le città vecchie, i beni culturali ed archeologici sono altri preziosi tesori sommersi dalle immondizie. Non possiamo - per brevità - dilungarci su questi aspetti che offrirebbero enormi possibilità all’ampio “capitale umano” di giovani qualificati e professionisti nei campi dell’ingegneria, dell’architettura, dei servizi alle persone, della cultura. Possibilità di lavoro competente e grandi possibilità di attrazione, oltre che innalzamento evidente della qualità di vita di tutti, possono emergere da una prospettiva che consideri le risorse naturali, la loro relazione con i beni culturali e la loro diversità come fattore di nuovo benessere. La possibilità di iniziative nei settori della industria piccola e media e, soprattutto, nei relativamente nuovi settori dell’informazione e dell’informatica avranno a nostro avviso valore se compatibili e dunque sinergiche rispetto alle prospettive sopra indicate.
Le fiumare costituiscono l’elemento che storicamente fungeva da collante tra i differenti ambienti regionali (montagna, collina, pianura, mare): i circa 200 corsi d’acqua calabresi formavano autentici sottosistemi, complessi ma organici, sociali, ambientali e territoriali. Essi erano connotati da forti dinamiche socioculturali e alti valori ecologici e espletavano funzioni di cerniera tra gli ambiti interni, le corone pericolinari e le cimose litoranee. Tale fondamentale ruolo delle fiumare è stato affatto dimenticato e negletto nelle ultime fasi, come dimostrano i continui stravolgimenti degli alvei negati, ricoperti, tombinati, sconvolti, cancellati; salvo i drammatici e catastrofici risvegli registratisi nei momenti delle alluvioni. Il principale elemento di relazione del territorio calabrese era stato ridotto a rango di peggiore nemico. Neppure il Piano di Assetto Idrogeologico, che pure doveva avere un’attenzione mirata alla protezione dei suoli, ha saputo cogliere e dispiegare il citato ruolo delle fiumare rispetto ad un assetto regionale adesso da riqualificare. Uno scenario complessivo di interpretazione del quadro regionale ci è stato offerto da studi recenti (ITATEN, RETURB, ecc.). Queste elaborazioni restituiscono un disegno del territorio calabrese, oltre che degradato, frammentato; separato in ambiti quasi non comunicanti. Il dissesto ecosociale ha dunque cancellato le antiche forti relazioni tra ambienti subregionali. Oggi lo scenario calabrese presenta una figura polarizzata sostanzialmente attorno a due grandi formazioni peraltro segnate da rotture e discontinuità al loro interno. Da una parte sta l’enorme spazio interno, montano e collinare, un ambiente tanto importante dal punto di vista paesistico quanto fragile dal punto di vista socioeconomico, dopo il declino dell’economia agraria. In queste parti della regione la grande istanza per il prossimo futuro è legata alla capacità di reintroduzione di economie autosostenibili. L’altra parte del quadro è costituita da costa e pianura urbanizzata: su una superficie pari a poco più del 15% dell’intera area regionale si concentrano più del 60% degli insediamenti e più del 80% degli investimenti. Tale situazione da’ luogo a nove città allargate “diffuse” o “estese” (il Reggino, la Piana di Gioia Tauro, la Locride, il promontorio del Poro, Lametia-Catanzaro, il Crotonese, l’Alto Tirreno, il Cosentino, il basso Crati) che presentano armature urbane ormai moderne e consolidate, in grado di rapportarsi e competere con molte realtà urbane italiane e continentali. In queste aree i problemi sono legati alla presenza di degrado ecosociale da congestione urbanistica e talora perdurante precarietà dell’organizzazione economica. E’ dunque evidente la domanda di riteritorrializzazione.
Al di là delle problematiche interne alle situazioni territoriali indicate la grande scommessa della politica ambientale calabrese può essere quella della ricostituzione di un tessuto denso e vivace di relazioni tra il grande patrimonio paesaggistico, non solo interno, e le strutture sociali urbanizzate spesso carenti proprio di qualità ecologica.



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