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«Nel Mezzogiorno ecco come rinasce la lotta di popolo»

«Perché la politica esca dalla crisi deve rapportarsi con i movimenti e la cultura». Il rapporto tra intellettuali, società e partiti nell’analisi del segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti
"Quotidiano della Calabria" - 25 Marzo 2004-


Intervista di M. Cimino a Fausto Bertinotti


In una risposta ad uno scritto di Ernesto Galli della Loggia, pubblicata sul Corriere della Sera dell’8 marzo scorso, lei, onorevole Fausto Bertinotti, ha sostenuto che l’attuale solitudine dei riformisti è dovuta (citiamo alla lettera) “alla mancanza di un progetto di società”. Questa mancanza – è stata la conclusione della sua analisi – provoca un “disimpegno degli intellettuali” e una “fuga del popolo”.
Ciò premesso, viene spontaneo domandarle: trova politicamente produttivo il fatto che un gruppo di intellettuali, riuniti intorno alla rivista Ora Locale-Lettere dal Sud, bypassi un ceto politico – chiuso in se stesso, refrattario ai cambiamenti, lontano dai bisogni reali delle persone – per porre la questione – centrale in tempi di crisi della politica e della rappresentanza – della partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica e democratica?

“Sul terreno dell’analisi – risponde il segretario del Partito della rifondazione comunista – mi pare che ci siano pochi dubbi: siamo di fronte, e dentro, ad una crisi della politica. Ma questo produce non solo un impoverimento della politica, ma anche un impoverimento della società civile. E in ogni caso, il discorso tocca gli intellettuali stessi. Perché non è che le responsabilità dei riformisti e le dimensioni modeste della sinistra alternativa esonerino gli intellettuali dalla militanza civile. Anche perché i movimenti che sono cresciuti in questi anni – dal movimento no global al movimento per la pace – inducono ad una domanda forte di partecipazione della società. E quindi, si può muovere una critica agli intellettuali, che corre parallela alla crisi della politica. E cioè una critica ad una sorta di diserzione dall’impegno, che a sua volta va analizzata criticamente”. E’ un fenomeno che sui grandi numeri trova certamente più di un riscontro. Ma in un panorama pressoché uniforme, il caso della Calabria rappresenta, molto probabilmente, se non un caso unico, certamente un caso a sé. “Non dico che tutti gli intellettuali disertino l’impegno; ma mi pare difficile sostenere che gli intellettuali italiani, oggi, presentino lo stesso livello di impegno che presentavano agli inizi degli anni Settanta. Certo, a Genova, a Firenze, a Porto Alegre ci sono state numerose presenze; si è trattato di una presenza importante di aree intellettuali, ma ristretta rispetto all’ampiezza del movimento. E dunque, il problema che secondo me si pone è quello dell’uscita dalla crisi della politica, a cui gli intellettuali possono dare un contributo rilevante se scelgono la collocazione sul versante dei movimenti. Il versante dei movimenti è il terreno fecondo sia per l’uscita dalla crisi della politica, che per una ricostruzione di un ruolo civile degli intellettuali”.
Ma abbandoniamo per un momento i cieli delle grandi analisi e proviamo a scendere su un terreno concreto. In Calabria, ad esempio, c’è un’insoddisfazione e un malessere generalizzato che, a dire il vero, non è immediatamente riconducibile alle insufficienze e ai guasti – pur innegabili – della attuale Giunta di centro-destra, ma risalgono a decenni fa. Per dirla con un linguaggio non molto alla moda, il problema della politica in Calabria è di ordine strutturale e non congiunturale. Come voltare pagina?
“Sulla questione calabrese penso che il rapporto sia quello fra le forze di opposizione e i movimenti. Anche perché, a mio parere, stiamo assistendo ad una rinascita poderosa dei fenomeni di partecipazione popolare nel Mezzogiorno. Vediamo popolazioni intere riprendersi la parola, con una capacità straordinaria di mobilitazione. Mi viene in mente Scanzano, che è la situazione più nota. Ma pensiamo a Terlizzi, in Puglia, dove intorno alle vicende di un ospedale si è ricostituita una comunità; ai disoccupati organizzati a Napoli; alle proteste degli abitanti di Ariano Irpino. Nel Mezzogiorno, siamo di fronte – mi pare – ad una rinascita forte di una lotta di popolo e di comunità. E questo secondo me è la leva del cambiamento”.
Ma come si esce da una situazione di crisi, di incertezza e di sbandamento: ridando alla politica un primato non solo sull’economia – com’è forse giusto e sacrosanto – ma anche sulla cultura e sulla società?
“Penso che l’uscita della crisi della politica dipenda dal suo rapporto con i movimenti, la cultura e la società. Penso quindi ad un rapporto che sia scambio e dialettica. E da questo punto di vista, a me pare che gli intellettuali e la politica, oggi, siano di fronte ad uno stesso passaggio, che è un passaggio storico. Entrambi dovrebbero rispondere al quesito: come si fa di fronte ad una globalizzazione capitalistica, che produce guerra e una vera e propria crisi di civiltà a ricostruire il tessuto di una politica di cambiamento e di trasformazione?”.
Perché mai ad un tale interrogativo, impegnativo come pochi, dovrebbero rispondere sia la cultura che la politica? “Perché penso che il rischio di catastrofe sia un rischio incombente e che risieda precisamente in questa forma di modernizzazione, che per la prima volta nella storia moderna separa l’innovazione tecnologica e scientifica dal progresso sociale. E anzi tende a proporre un rapporto tra l’innovazione e la regressione sociale e civile. Come si vede dalla coppia guerra – terrorismo. Per questa ragione penso sia banale lo schema che spesso viene proposto: e cioè di una società civile – entro cui c’è la cultura – come regno del bene; e della politica come regno del male. In realtà, io penso che la cultura e la politica siano di fronte alla stessa sfida”.
Si dice che l’attuale modello di sviluppo capitalistico, basato sull’equazione più crescita produttiva uguale maggiore sviluppo e progresso socio-economico, sia ormai giunto al capolinea. In primo perché per vivere e prosperare, esso deve necessariamente depredare le residue risorse del Pianeta. E in secondo luogo per la sua insostenibilità ecologica. Ora Locale- Lettere dal Sud propone come alternativa una tipologia di sviluppo che alla crescita quantitativa, di produzione e di consumo, sostituisca, per dirla con Mario Alcaro, una” valorizzazione dei beni ambientali e delle risorse umane”.
“E’ un programma su cui noi abbiamo lavorato, modestamente, ma fermamente in tutti questi anni della rifondazione. La nostra critica alla globalizzazione capitalista, poi definita globalizzazione neo – liberista, è questa. La nostra polemica con le culture diciamo così apologetiche, che per tutti gli anni Novanta hanno pensato che si potesse trarre da questo tipo di sviluppo ricchezze e distribuzione delle medesime, come da una cornucopia è stata costante; e per un certo periodo ci ha visti abbastanza soli nel panorama politico – culturale italiano. Soprattutto quando, come dicevano gli amici di Le monde diplomatique correvano i tempi del “pensiero unico”. Per fortuna, la nostra solitudine è finita quando è nato e si è sviluppato il movimento di critica alla globalizzazione: un movimento antagonista a questo tipo di sviluppo. E antagonista per ragioni che riguardano la qualità della vita, dell’ambiente, del rapporto fra le persone: che faceva propria, cioè la critica più radicale che si possa apportare ad un uno sviluppo distruttivo non solo di risorse, ma direi di umanità. L’idea che ci ha mosso è quella che l’Italia e l’Europa potessero sottrarsi a questo modello, anche in grazia della loro collocazione territoriale e della loro vocazione storica: quella di essere un ponte tra Nord e Sud del Mondo; di essere nel Mediterraneo e con il Mediterraneo un luogo del dialogo e, direbbe Etienne Balibar, della “traduzione”. L’obiettivo è stato quello di esaltare queste potenzialità al fine di dar luogo ad un modello sociale e di sviluppo completamente diverso da quello della globalizzazione, di cui uno degli elementi è proprio lo sviluppo autocentrato: cioè la valorizzazione del territorio e delle culture; insomma dell’originalità di una collocazione territoriale, vista come una leva sia per la critica della globalizzazione che per la costruzione di quello che con termine impreciso si dice nuovo e diverso tipo di sviluppo”.
Sembrerebbe di capire che la dimensione prescelta per la critica alla globalizzazione neo- liberista sia quella micro, locale.
“E’ una critica che parte dal “locale” e dal generale. Parte dal generale perché come abbiamo imparato a Bombay senza una dimensione mondiale, senza un movimento mondiale per la pace, siamo costretti a subire la guerra. E anche dalla dimensione locale: perché senza la possibilità di valorizzare delle risorse negate da questo tipo di sviluppo, che affondano le loro radici nella cultura e nella civiltà, e dunque nel territorio l’alternativa non è praticabile”.
Se ne deduce, dunque, che le posizioni sue e quelle del partito sulla valorizzazione delle identità locali – che una parte della sinistra ritiene regressive e addirittura pericolose – siano tutt’altro che critiche. Verrebbe così a cadere un’antica pregiudiziale, che affonda le proprie radici nel pensiero illuministico e universalistico, di cui, nel Novecento si è nutrita la sinistra storica.
Sul pensiero illuministico si può discutere: non è detto che lo sia. Universalista lo è certamente, ma io penso che la storia recente ci ha detto che la dimensione locale e quella universale stanno in relazione positiva tra di loro. In realtà, l’una e l’altra vengono massacrate dalla globalizzazione. La globalizzazione non è un meccanismo universale. La globalizzazione è un meccanismo di inclusione e, contemporaneamente di esclusione; è un meccanismo che per valorizzare delle risorse ne schianta delle altre; è un meccanismo che per individuare dei poli di sviluppo costruisce delle voragini di abbandono e di emarginazione. Dunque, la globalizzazione non è l’assunzione della dimensione universale, ma al contrario è la dimensione dell’assunzione dello squilibrio. E penalizza il territorio perché impone non una legge universale, ma la legge dei monopoli: impone Mc Donald’s là dove è possibile inseguire la forza per pagarla al prezzo più basso, anche se questo comporta violenza, distruzione di diritti, ecc. Questa è la globalizzazione, a cui bisogna opporre un modello universale fondato sulla valorizzazione del territorio e delle culture”.



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