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Democratizzando la democrazia: un convegno a Roma
di Michelangelo Cimino


Un ventennio abbondante di politiche neoliberiste, attuate in forme e gradazioni diverse da tutti i governi dell'Occidente capitalistico, nessuno escluso, e associate ad una massiccia intensificazione degli scambi a livello planetario, hanno radicalmente mutato il paesaggio sociale ed economico di interi continenti e paesi. In Italia, ad esempio, l'effetto forse meno visibile, ma più devastante per gli equilibri di una società in cui termini come equità e solidarietà non erano mere enunciazioni di principio, è stata una artificiale scomposizione fra la sfera economica, sociale e politica. E la successiva ri-composizione sotto il segno dominante dell'economico. L'ambito economico, insomma, sembra aver inglobato e riassunto in sé quello che in passato era il perimetro proprio del politico e del sociale. I casi di numerose attività di volontariato o delle grandi macchine mediatico-organizzative costruite per facilitare la spedizione di aiuti a popolazioni bisognose, che spesso divengono occasioni di reddito, camuffate da finalità umanitarie e politiche, sono forse i più emblematici. E, d'altro canto, chi non ricorda la missione "Arcobaleno" ai tempi della guerra del Kossovo?
Questo prevalere di un singolo elemento a scapito degli altri due, di cui ha scritto a più riprese anche Mario Alcaro, la dice lunga sulla centralità acquisita dall'economia in epoca di globalizzazione neoliberista e di "pensiero unico". E, soprattutto, sul contestuale impoverimento registrato dalla vita politica e democratica di intere comunità.
Ora, se è vero che come ha sostenuto Saskia Sassen è iniziata "la crisi del progetto globale neoliberista e delle istituzioni" ad esso legate (Fmi, Wto, Banca mondiale), si potrebbe aprire qualche spiraglio per riportare ad unità ciò che è stato impropriamente scisso. Detto altrimenti: il momento attuale si presterebbe, come mai da vent'anni in qua, per iniziare a pensare in maniera alternativa al modello economico imperante. Anche se, occorre sottolineare con forza, non siamo certo all'anno zero. E difatti, le prove di "un'altra economia" che per usare una formula marxiana prediliga il valore d'uso al valore di scambio, e guardi all'ambiente e al territorio come risorse da tutelare e valorizzare, sono una realtà in crescita. Il commercio equo e solidale, il consumo critico, il turismo responsabile, la finanza etica, non si basano forse sulle relazioni e l'arricchimento interpersonale, sulla solidarietà verso i meno fortunati a scapito della ricerca ossessiva del profitto? Non guardano, forse ai bisogni, ai saperi, alle tradizioni di ogni territorio, in alternativa al modello unico di crescita imposto dalla globallizzazione neoliberista? E, in alcuni casi, non sono frutto di partecipazione collettiva? L'alternativa ad una crescita economica incontrollata, che divora a ritmi esponenziali le residue risorse del pianeta, può essere data proprio da uno sviluppo responsabile, perché tarato sulle esigenze delle comunità e progettato in ambito locale, mediante la partecipazione di circoli, associazioni e comitati di quartiere. La scelta del "partire da sotto casa", non è dettata da una ossessione per il piccolo, per il micro, e tanto meno da preconcetti negativi nei confronti dei soggetti economici tradizionali, che operano su scala macro, ma "dalla ricerca del risultato visibile". Un concetto che è stato ripetuto più volte nel corso di un convegno internazionale dedicato allo Sviluppo locale partecipato (Roma, 7 settembre 2004).
Ma l'aspetto forse più interessante di questi esperimenti, che uniscono amministratori e cittadini, è dato dalla molteplicità dei percorsi che si possono costruire nella ricerca di modelli di sviluppo alternativi. Non c'è bisogno di aggiungere che ogni città paese o borgo presenta problematiche, potenzialità e situazioni spesso uniche. E che uniche - o quasi - debbano essere le risposte da fornire: perché "non esistono ricette facili da applicare ovunque" - ha sostenuto Luigi Nieri, assessore alle Politiche per le periferie e lo sviluppo locale del Comune di Roma -; ma "è richiesto un continuo esercizio del dubbio, della critica e della ragionevolezza" (che è propria del politico e si oppone al "razionale dell'economico").
A oggi, quindi, uno dei pochi percorsi di partecipazione non episodici è dato dalla discussione e dal confronto sul "bilancio partecipato": uno strumento che si inscrive in un logica che vede il tramonto della "politica parlata", in favore delle "pratiche agite nei territori locali" - ha scritto Giovanni Allegretti, nell'introdurre un testo di Boaventura de Sousa Santos, Democratizzare la democrazia - I percorsi della democrazia partecipativa, Città Aperta (pp. 548, 30,00) -. Perciò, nel richiamare criticamente l'uso strumentale e propagandistico che ne hanno fatto alcune amministrazioni locali italiane, egli sostiene che il bilancio partecipato "non si proclama, si pratica. E spesso a partire dalle periferie". Il fine ultimo di questo strumento essendo la partecipazione "non episodica", per l'appunto, del cittadino alla vita della polis.
Per il resto non esistono certezze sulle quali cullarsi. Anzi, nel promuovere la partecipazione dei cittadini delle grandi periferie cittadine, Nieri invita alla prudenza. E afferma: "occorre tener conto della degenerazione del tessuto sociale, della supremazia dei modelli consumistici, delle alienazione individuali e collettive. Quindi attenzione agli slanci superficiali e poco ponderati, che rischiano di degenerare in populismo e modalità concertative". Ma a tutto questo non dovrebbe dare una risposta la politica? Sia come sia, l'unica certezza che egli nutre, per il momento, riguarda le metodologie: che per evitare equivoci ed errori, ritiene debbano essere "chiare, trasparenti, includenti, flessibili secondo i contesti". E' già qualcosa.



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