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Per Cesare Curcio

di Pietro Ingrao


Ho conosciuto Cesare Curcio nel mese di marzo del 1943. In quel tempo io ero clandestino. Facevo parte da circa 5 anni di una organizzazione comunista, che agiva dagli anni trenta a Roma, e che aveva tra i suoi promotori Antonio e Pietro Amendola, (figli di Giovanni, martire antifascista assassinato da sicari di Mussolini) e Bruno Sanguinetti, Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli, Paolo Bufalini. A questo gruppo, che si considerava parte militante del PCI, allora costretto alla clandestinità, si aggiunsero altri giovani della stessa generazione: Mario Alicata, Antonello Trombadori, Antonio Giolitti e io stesso. Avevamo dei collegamenti con gruppi di operai antifascisti e la polizia fascista aveva più volte colpito quella cellula comunista romana. Alla fine del 1942 un’ultima retata di arresti colpì Mario Alicata, che allora con me era alla testa di quel gruppo romano. Io invece riuscii a sfuggire alle manette e a raggiungere Milano, dove il compagno Salvatore Di Benedetto, mi aiutò a sfuggire alle ricerche degli sbirri fascisti, fino a quando, alla fine di febbraio,divenne assai rischiosa la mia permanenza a Milano.
Fu allora che da Milano trovai rifugio e salvezza in Calabria, dove Di Benedetto aveva un collegamento con il coraggioso gruppo clandestino comunista che agiva a Cosenza.
Ricordo come fosse ora l’alba di quel mattino di marzo in cui scesi alla stazione di Cosenza. Era una mattina fredda ma serena. Salii su una carrozzella e con il cuore in tumulto mi presentai all’officina di Bebè Cannataro che era il punto di recapito segreto che mi era stato indicato. Bebè mi condusse a casa sua e poi mi fece conoscere il compagno Ciccio Andretti, che- con gli altri compagni casentini- elaborò un progetto di rifugio che mi salvasse dalla polizia che ormai mi cercava furiosamente. Per alcuni giorni abitai nascostamente in casa dei fratelli Burza, giovani ospiti allegri e generosi. Ma continuare a stare a Cosenza poteva essere pericoloso.
Allora fui accompagnato in Sila, a Camigliatello, in cui vissi celato in una casa abitata da operai boscaioli, che non sapevano nulla di me, ma dai miei incontri periodici con i compagni cosentini facilmente capirono che ero un cospiratore, braccato dalla polizia, e sempre tuttavia furono con me generosi e ospitali.
Poi ci giunse improvvisamente una segnalazione che parlava di carabinieri visti circolare in quelle zone di Camigliatello in cerca di un clandestino.
L’allarme era grave . Così fui trasferito in fretta a Spezzano in casa di un vecchio compagno, Edoardo Zumpano.
La sua casa si prestava a nascondermi, perché dal lato interno affacciava su un giardino, in cui avrei potuto calarmi e tentare la fuga in caso arrivasse la polizia. In quella casa trovai quello che per me era un tesoro: salvate in soffitta c’erano le collezioni dell’ Ordine nuovo e dell’Avanti, giornali rossi nella cui lettura io mi sprofondai, ansioso com’ero di conoscere le lotte e il pensiero dei comunisti e dei socialisti in quei primi anni Venti, quando lo squadrismo fascista- dopo la “marcia su Roma”- ormai dilagava nel Paese.
Presto però giunse un nuovo allarme che rese insicuro quel rifugio nella casa di Zumpano. E così io un giorno mi misi in viaggio fino alle porte di Pedace, dove incontrai per la prima volta Cesarino Curcio e un altro gruppetto di compagni. Se ricordo bene, per una notte dormii in una casa alla periferia di Pedace, paese che mi salvò e verso cui io sento sempre una grande gratitudine. La mattina seguente con il mio piccolo bagaglio, mossi verso un podere di campagna di proprietà di Curcio. Fra coloro che mi accompagnarono c’era, sulla schiena di un asinello, c’era il padre di Cesare Curcio: ‘Zu Peppino, se ricordo bene il nome. Poco dopo arrivammo in un pezzo di campagna solitaria che non dimenticherò mai. Al centro, o quasi, di quel podere c’era una capanna , fatta da una cintura di pietre e per copertura un cono di paglia . Di fianco ad essa era un gabbiotto, dove con ‘Zu Peppino, poco dopo mezzogiorno, consumavamo un pasto fatto di pane, patate, frutta e qualche volta un uovo sodo. Spesso dai bordi alti di quel gabbiotto apparivano topi enormi che per qualche momento, si fermavano a fissare dall’alto noi due, curiosi esseri umani- come per un’azione di vigilanza- e poi sparivano.
‘Zu Peppino lavorava anche il pomeriggio e rifiutava energicamente ogni aiuto mio. Io trascorrevo le ore scapicollandomi tra i muretti di quelle campagne che calavano verso un torrente gonfio delle piogge invernali. Avevo avuto- non so se dai compagni di Pedace o in casa di Zumpano- una traduzione del Capitale di Carlo Marx, fatta da Carlo Cafiero, l’anarchico: era una traduzione un po’ rozza, ma per la prima volta leggevo tutto di fila quell’opera famosa di Marx. I momenti più emozionanti per me però furono alcuni incontri che Cesare organizzò con compagni contadini e operai di quella fascia silana: fratelli di lotta, gente coraggiosa del mondo del lavoro, che partecipavano, nei loro modi, alla cospirazione contro il regime. Quegli incontri mi emozionavano, mi davano coraggio, mi aiutavano a conoscere il popolo che volevamo chiamare alla ribellione.
Il momento più duro della giornata era quando veniva il tramonto. ‘Zu Peppino saliva sull’asino per tornare a Pedace. Io prendevo una brocca d’acqua e andavo ad una fonte che era al bordo del campo per procurarmi l’acqua per la sera. E quella solitudine del tramonto mi metteva una malinconia struggente. Pensavo ai compagni lontani, alla donna con cui era sorto un amore che durò tutta una vita.
Poi bisognava prepararsi per la notte. La capanna in cui dormivo serviva ad abbrustolire le castagne. Sotto la cupola di paglia aveva un lungo solaio di legno, che era una specie di regno dei topi i quali scorrazzavano e lanciavano stridi, come se combattessero anche loro una guerra.
Prima di addormentarmi accendevo al centro della capanna un buon fuoco ardente: quel fuoco azzittiva i topi. Non era proprio facile poiché- per far uscire la massa di fumo- bisognava aprire la porticina della capanna da cui entrava il gelo della notte. In ogni modo, fatto il silenzio, mi precipitavo sul mio letto- assai semplice in verità- e m’abbandonavo al sonno che cancellava tutto. E io avevo un sonno robusto.
Poi vennero su Cosenza i bombardamenti aspri degli eserciti angloamericani che volevano accelerare la resa di quel regime fascista già in ginocchio. Cosenza patì molto. Stranamente proprio in quei giorni il compagno Andretti mi dette l’annuncio del mio trasferimento a Cosenza. Solo dopo capii: i bombardamenti avevano cacciato via la gente dalla città, che cercava salvezza nelle campagne. E divenne libero un appartamento, dove m’aggiravo in assoluta solitudine, salvo i momenti brevi in cui veniva ad incontrarmi e a portarmi il cibo,Ciccio Andretti.
Non so dire la gioia che provai quando un giorno a quell’appartamento bussò Cesare Curcio. Con improvvisa nostalgia gli chiesi notizie di ‘Zu Peppino, e del capraio, una persona piena di spirito, con cui- accanto al gregge o nel capannetto dove si mangiava- avevamo fatto lunghi discorsi sul mondo, a cui quel capraio guardava con intelligente e sarcastica ironia. E qualche volta sembrava volermi dire: “che cavolo volete fare, voi intellettuali, se non ci fosse ‘Zu Peppino a smuovere la terra….”.
Poi d’improvviso venne per me l’ordine di tornare a Milano. S’avvicinava la caduta del regime: lo sentivamo. Prima di partire per il Nord, incontrai Fausto Gullo: aveva una gentilezza umana che suscitava molta simpatia. Non immaginavo che tra pochi mesi sarebbe stato il primo comunista fatto ministro in Italia
Dopo la vittoria contro i nazisti volli tornare presto a Pedace a riabbracciare Cesare e la popolazione di quella città fiera che m’aveva protetto. Solo più tardi conobbi tutta la drammatica storia antifascista di Cesarino: le congiure, gli arresti, le trame che avevano segnato la sua coraggiosa vita.
Girai poi a lungo la Calabria. E là mi chiamarono ancora al tempo dei “boia chi molla”. Ebbi l’orgoglio che il partito chiese a me di fissarmi a Reggio in quei giorni di fuoco; e fui io a tenere il primo drammatico comizio in piazza quando ancora i “boia chi molla” tenevano in pugno la città. Ci stetti molti giorni: ancora quando da tutta Italia vennero le rappresentanze dei lavoratori a tenere convegno a Reggio.
Cesare lo rividi in Parlamento: non mi sembra che gli piacesse. A me il rivederlo restituiva la gioia emozionante e la passione di quegli incontri silani, che sono stati l’episodio più bello e più singolare della mia lunga militanza. Grazie a te, ‘Zu Peppino, e a tutta la città e la terra di Pedace.
- Roma 18 novembre 2004 -



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