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Pitagora e il tabù delle fave

di Anna Chiara Greco


Lo studio affrontato dall’antropologo Giovanni Sole nel testo: Il tabù delle fave. Pitagora e la ricerca del limite, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, rimanda alla filosofia pitagorica sviluppatasi tra il VI e il V secolo a.C. L’autore si sofferma in particolare sulla ricerca del significato di una proibizione che il filosofo stesso all’interno della sua scuola, impose ai suoi discepoli: quello di astenersi dal mangiare o toccare fave, un tabù che, appunto come tale, risulta ancora oggi inspiegabile, misterioso ed oscuro.
La scuola pitagorica era legata ad elementi di natura religiosa e si basava su rigide regole che obbligavano alla segretezza. La dottrina doveva essere trasmessa oralmente da maestro a discepolo, difatti nulla ci è stato lasciato di scritto e tutto rimane avvolto nel mistero.
Il tabù delle fave, è un “pretesto” per riflettere sul perché l’uomo crea i tabù in genere, vi nasconde dei significati e li esprime in un linguaggio simbolico, criptico, non accessibile agli altri. Il testo è un percorso verso la ricerca dei molteplici significati che vi sono racchiusi: l’espressione di un inconscio sociale, una sapienza primordiale; nei tabù gli uomini vi si proiettano, vi trasferiscono ansie e desideri in base ai loro bisogni. Essi sono costruzioni degli uomini legati all’ambito magico-religioso, ma non si distaccano dalla realtà, anzi, vi si riferiscono, sono veicolo di aspetti profondi dell’ideologia sociale, espressione psicologica, rappresentazione del logos, ma anche del mithos, espressione di un pensiero teogonico e cosmogonico. Per loro natura i tabù sono una realtà culturale estremamente complessa che ha diverse prospettive e che richiede una molteplicità di letture e di interpretazioni, ciascun suo elemento rimanda all’altro investendo tutti gli ambiti umani e sociali mutevoli nel corso dei secoli.
In ogni capitolo Giovanni Sole espone le diverse interpretazioni elaborate sulla creazione del tabù delle fave e dimostra come ognuna di esse potrebbe avere un proprio fondamento: può essere infatti valida l’ipotesi che i tabù pitagorici facevano parte di una mentalità superstiziosa, magica, religiosa ed etica, frutto del terrore dell’uomo per il soprannaturale, dell’esistenza che nel mondo della natura vivessero potenze demoniache. “Le fave erano infatti considerate piante magiche e infernali, dotate di una potenza misteriosa e cosmica, sede di esseri soprannaturali in grado di influenzare negativamente o positivamente la vita degli uomini, degli animali e delle piante”. Le fave erano, inoltre, oggetto di tabù, perché considerate pianta degli dei degli inferi e cibo dei morti; infrangere il divieto significava mettere in moto contro di sé forze misteriose che punivano i trasgressori o con l’oggetto tabù o con disgrazie. Altra ipotesi è che la proibizione delle fave derivasse da un certo legame religioso di matrice orfica. Pitagora, credeva che l’anima, sepolta nel corpo per i suoi peccati e immersa nella materia come in una prigione, poteva progressivamente ricongiungersi alla sua origine sacra. Dunque, attraverso un graduale processo di perfezionamento del corpo e dello spirito, poteva passare ad un livello superiore di esistenza e di conoscenza sino a somigliare agli dei. La privazione alimentare, compresa quella di non mangiar fave, era uno dei comandamenti che i pitagorici dovevano rispettare per raggiungere il livello di perfezione e la vicinanza tra la condizione umana e divina.
L’origine del tabù delle fave poteva derivare anche da ragioni di prevenzione sanitaria; esse erano ritenute tossiche e capaci di provocare quella terribile malattia che nell’Ottocento sarà chiamata «favismo», anemia emolitica acuta. Altra interpretazione è che i tabù imposti da Pitagora come regole di vita ai suoi discepoli, fungessero da vero e proprio strumento educativo. Questi sono solo alcuni esempi delle diverse interpretazioni sul divieto delle fave di Pitagora che anche se apparentemente illogiche e misteriose , non sono molto distanti dal nostro pensiero e risultano strettamente legate alle diverse realtà dell’esperienza umana.
Per comprendere il «mistero» del tabù delle fave è necessario inquadrarlo all’interno del pensiero dualistico di Pitagora che rifletteva l’opposizione fondamentale tra il bene e il male: quello fra limite e illimitato. Egli concepiva l’universo come un tutto armonico e ordinato, fatto di proporzione, numero, forma, limite, e convinto che la società del suo tempo fosse in balìa del disordine e del libero arbitrio, proponeva di fondare un nuovo codice morale (attraverso i divieti), come meccanismo logico per ordinare il reale contraddittorio. Il suo insegnamento doveva mirare alla pratica della misura nei riguardi degli istinti, dei desideri e delle pulsioni corporee; all’individuazione di ciò che era lecito e ciò che era illecito, di ciò che era puro e ciò che era impuro, ciò che era sacro e ciò che era profano. L’obiettivo era quello di tradurre il caos in armonia ed equilibrio, un cosmo razionalmente ordinato fatto di parti diverse. Attraverso la pratica della filosofia l’uomo si prepara alla salvezza dell’ anima che con la conoscenza si purifica e si libera dal suo continuo errare, sino a raggiungere il divino da cui proviene.



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