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La Repubblica voluta da Hitler

di Dino Greco


Vogliamo concentrare la nostra riflessione su alcuni aspetti che hanno un diretto impatto sulla vicenda politica attuale, nel loro intreccio con il ruolo del movimento operaio nella lotta antifascista e nella costruzione della Repubblica: un ruolo fecondo che ancora produce i suoi frutti.
Della Repubblica di Salò interessa sottolineare in primo luogo un aspetto: si trattò del simulacro di un governo, perché privo di qualsiasi autonomia, legato (anzi: avvinghiato, in senso letterale) all’alleato tedesco, formalmente presente solo nelle zone presidiate militarmente dalle truppe d’occupazione germaniche, senza la qual cosa la R.S.I. non sarebbe sopravvissuta neppure per quella breve stagione.
Si trattò della tipica commedia di un governo fantoccio, in balia di un umiliante servaggio al padrone tedesco, costretto a questuare ai nazisti minimi spazi di autonomia politica e amministrativa che peraltro non ebbe mai, impegnato nel parodistico e fallimentare tentativo mussoliniano di recuperare il programma sociale del fascismo delle origini, naufragato fra farsa e tragedia; un governo privo di un esercito proprio che non poteva più esservi e che fu sostituito dalla militarizzazione di ciò che rimaneva del partito fascista, le milizie nere nelle loro diverse articolazioni, il “reparto servizi speciali” impegnati nelle peggiori efferatezze che mente possa concepire contro i partigiani e contro la popolazione civile. E poi, le famigerate SS italiane, i 20.000 che così solennemente giurarono: “davanti a Dio presto questo sacro giuramento: che nella lotta per la mia patria italiana contro i suoi nemici sarò in maniera assoluta obbediente ad Adolf Hitler, supremo comandante dell’esercito tedesco e che, quale soldato valoroso, sarò pronto in ogni momento a dare la mia vita per questo giuramento”.
L’alleanza fra Italia fascista e Germanica nazista non è stato un incidente della storia, né un’invenzione propagandistica. Ebbene, è a costoro, è ai reduci di Salò di tutte le risme (dalle brigate nere alla X MASS, dalla legione Muti alla guardia nazionale repubblicana, alle forze di polizia, ai banditi di Mario Carità e a tutte le formazioni che vennero a costituire il “corpo ausiliario delle squadre d’azione delle camicie nere”) che il governo italiano in carica vorrebbe riconoscere lo status di militi belligeranti, sancendone così la completa equiparazione morale e materiale, alle formazioni partigiane.
È chiaro che questa velleità revisionistica non ha per posta tanto (o soltanto) lo stato giuridico degli individui che si schierarono con i fascisti e con i nazisti contribuendo attivamente a che 40.000 italiani venissero deportati nei campi di sterminio, mentre 650.000 soldati italiani marcivano nei campi di prigionia in Germania.
Il bersaglio, l’obiettivo vero è la messa in discussione dei fondamenti dello stato repubblicano, la sua identità e la sua legittimazione storica. La loro preoccupazione non è riscrivere la storia di ieri, ma plasmare quella di domani, facendola deragliare dai binari dell’antifascismo.
È questo , in definitiva, che si nasconde dietro la retorica insistita della pacificazione.
“Fascismo e antifascismo sono una coppia indissolubilmente unita: insieme vivono e insieme muoiono”, diceva Fini al congresso di Fiuggi: “l’antifascismo è sopravvissuto per cinquant’anni alla morte del fascismo per ragioni internazionali e interne oggi non più presenti”. E dunque “è tempo che l’antifascismo raggiunga il fascismo perché entrambi affrontino il giudizio della storia…” e si costruisca finalmente una memoria condivisa.
Dunque, con queste lenti strabiche, fascismo e antifascismo diventano scelte equivalenti, separate da un esile diaframma fatto di casualità e condizionato da episodi inscritti nelle biografie personali. E allora perché non riconoscere un risarcimento postumo (come fa già ogni anno il sindaco di Milano Albertini) ai caduti della repubblica di Salò dimenticati da una storia a senso unico scritta dai vincitori?
C’è in tutto questo un’insopportabile menzogna, una plateale mistificazione, quella di cui ci parla Gianni De Luna a proposito del pietoso indugiare sui “ragazzi di Salò”, come a voler confinare quella vicenda nella dimensione adolescenziale dei ragazzi della via Paal: tutti i bambini irresponsabili. Come a svilire il significato di una scelta -ridotta ad un’aneddotica individuale- fra chi si compromise fino in fondo con il fascismo e chi -come recitano le parole che Italo Calvino regalò ad una bella canzone della Resistenza- prese la strada dei monti.
Per non parlare di quella spessa coltre di oblio che si vorrebbe stendere non solo sulla resistenza armata del periodo ’43-’45, ma su quell’universo cospirativo che si misurò prima contro il fascismo squadristico delle origini e che poi fronteggiò per vent’anni l’oppressione quotidiana del fascismo regime, parlo degli uomini e delle donne del confino e della galera, di quelli che non smisero mai di combattere anche quando ogni strada sembrava chiusa e la lotta senza prospettive, parlo di quel grande incubatoio politico e morale senza il quale sarebbe difficile pensare alla stessa Resistenza e, tantomeno, alla Costituzione. E, intrecciato con esso, quell’altro tema che percorre come un filo rosso la storia d’Italia, dalla sconfitta operaia del biennio rosso ’19-’20, attraverso la Resistenza, fino alla resa del fascismo e alla costruzione della repubblica democratica fondata sul lavoro ed oltre, per stagliarsi lungo la ormai ultracinquantennale storia repubblicana.
Mi riferisco al ruolo giocato dalla classe operaia italiana e -per converso, specularmente- a quello interpretato dalle classi dominanti, da una borghesia che ad un certo punto non ha esitato ad abbandonare il terreno della legalità per affidarsi alla soluzione di forza, fino alla dittatura: un tema che si è riproposto più volte, come realtà o come possibilità di svolta e di involuzione autoritaria.
L’antifascismo sociale, quella componente della Resistenza che fu lotta di classe e non soltanto guerra patriottica , ebbe un’importanza determinante.
Dei 40.000 deportati italiani verso la Germania e la Polonia, ben 32.000 furono i politici e fra questi, oltre ai partigiani, vi furono gli operai degli scioperi del ’44, gli operai della Fiat, dell’Alfa Romeo, della Brown Boveri, del Corriere della Sera, della Edison, della Falk, della Innocenti, della Marelli, della Pirelli, della Philips, della Franco Tosi, della Triplex, della Ducati, della Weber, delle fabbriche di tessuti e di filati di Prato e di tante altre fabbriche che via via si unirono alla lotta che assunse poi dimensioni insurrezionali e che risultò decisiva -da Genova a Torino a Milano- per impedire lo smantellamento dell’apparato produttivo del paese da parte dell’esercito nazista in rotta.
Del resto, sin da dopo l’8 settembre del ’43, le prime strutture a ricostituirsi, in un’Italia sfasciata, furono proprio le Camere del Lavoro. Sarà proprio con questa realtà -come scrive Adolfo Pepe- che dovranno misurarsi le forze angloamericane che saranno costrette a rivedere le loro originarie strategie di occupazione militare e di trasformazione dell’Italia in un semplice protettorato politico.
È grazie a questo decisivo contributo che l’Italia non finì come la Germania, la quale uscì dalla sconfitta militare priva di un atto costituente fondante. Ed è questo -ci ricorda ancora Pepe- che permette a Giuseppe di Vittorio di rivendicare alla terza sottocommissione della Costituente il diverso peso specifico del capitale e del lavoro nella edificazione del nuovo stato repubblicano.
Insomma, per dirla con le lucide parole di Marco Revelli, l’antifascismo sociale cosituì il tramite attraverso il quale masse ampie furono strappate ad una millenaria subalternità culturale, politica, esistenziale e furono trascinate al livello del protagonismo storico, riuscendo finalmente a saldare -in uno dei pochi momenti alti della nostra storia- istanza di emancipazione sociale e progetto di costituzione di uno stato nuovo…e fu ancora da quell’istanza che derivò un’idea di democrazia radicale, partecipata, sociale che -sia pure parzialmente- trapassò nella Costituzione.
È proprio contro questa idea di democrazia progressiva, di democrazia in sviluppo affidata al protagonismo sociale –e non solo ad una dialettica tutta interna alle istituzioni o al ceto politico- che si è periodicamente scatenata la reazione delle classi dominanti.
Del resto, la Resistenza e poi la Costituzione non chiudono soltanto i conti con il ventennio fascista, con la dittatura, con la barbarie della guerra, contro la quale la Costituzione formula le parole più nette e definitive che sia possibile immaginare. La Resistenza e la Costituzione superano di slancio anche il vecchio stato liberale e tutti gli elementi intrinsecamente autoritari che il vecchio stato liberale aveva ereditato dagli esiti del processo risorgimentale. Si realizza così un originalissimo intreccio fra libertà, diritti individuali, stato di diritto e giustizia sociale, fondato su un progetto politico di uguaglianza e si afferma un’idea forte di sovranità popolare fondata sulla partecipazione e sul ruolo centrale che nel processo democratico hanno il lavoro e le classi lavoratrici.
Questo fa della Resistenza e del suo prodotto politico più conseguente una vera e propria rivoluzione democratica.



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