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Pianeta agricoltura: il territorio crotonese dagli anni Cinquanta ad oggi

di Francesco Barretta

(Presidente Confederazione Italiana Agricoltori Crotone)


Il presente contributo nasce in seguito ad uno scambio di idee intorno all'agricoltura ed ai suoi mutamenti nel corso degli anni, cioè circa i problemi
derivanti dalla evoluzione del settore agricolo nell'ambito del territorio provinciale crotonese.
Questa riflessione non avrebbe avuto inizio se non mi fossi posto alcune domande per molti versi fondamentali: perché parlare di agricoltura? Perché
lo si fa in questo momento, forse uno dei più critici? Perché analizzare tale comparto a partire sin dagli anni Cinquanta ad oggi? A cosa serve una
discussione di questo tipo? Forse ad individuare errori politici o di scelte e di strategie che hanno in qualche modo favorito una mancanza di crescita e di
specializzazione del territorio? In altri termini, quale modello di sviluppo abbiamo, o non, scelto in questi anni?
Ecco dunque in sintesi i "perché" che hanno affollato la mia mente.
Partiamo da un dato di fatto: nella nostra piccola provincia non ci può essere sviluppo se non mettiamo al centro delle nostre attenzioni l'agricoltura
con tutto il suo universo: la salvaguardia dell'ambiente e del territorio, la tutela del paesaggio, la sicurezza alimentare, la qualità delle produzioni tipiche, un
patto straordinario con la società.
Nella nostra provincia, purtroppo, manca proprio la cultura del "fare" ed impera invece quella del "disfare" e dell'autolesionismo, tendiamo ad isolarci
convinti che coltivare il proprio orticello serva a qualcosa. Manca cioè un progetto strategico innovativo capace di funzionare come una grande orchestra
dove ogni strumento fa la propria parte.
In passato le cose erano diverse. Nel secondo dopoguerra le trasformazioni in agricoltura hanno subito una vera e propria accelerazione. Infatti,
l'importanza dell'agricoltura nei numeri è stata più o meno lineare dall'Unità d'Italia fino alla seconda guerra mondiale, passando da circa 11 milioni di
addetti del 1860 a quasi 9 milioni nel 1940. Subito dopo il periodo della ricostruzione, terminato con i primi anni '50, si è invece verificato un forte e
rapido "esodo agricolo" sia verso l'estero che all'interno del paese. Il contemporaneo processo di sviluppo industriale, il cosiddetto "miracolo economico"
italiano, ha sancito la definitiva affermazione dell'Italia fra i paesi maggiormente industrializzati, cambiando radicalmente, come mai in precedenza, i
rapporti tra città e campagna.
Nonostante la fortissima contrazione dell'occupazione (circa 1,4 milioni di unità), la produzione agricola italiana ha tuttavia fatto registrare negli ultimi
quarant'anni dei tassi di sviluppo elevati, superiori a quelli di tutti i periodi precedenti, grazie anche alla forte diffusione della meccanizzazione e del
progresso tecnologico e scientifico, soprattutto nelle zone irrigue di pianura. La produzione agricola è infatti più che raddoppiata in termini reali nel
secondo dopoguerra.
I maggiori incrementi produttivi si sono verificati proprio tra la fine degli anni '50 e '60, quando l'agricoltura è riuscita a soddisfare, almeno in parte, i
crescenti fabbisogni alimentari che si andavano affermando nel paese.
In questa cornice storica va inquadrato la straordinarietà del progetto "Piano irriguo Neto-Tacina-Passante" prendendo il nome dai tre fiumi. Un
progetto tanto buono quanto contrastato, proprio perché metteva in competizione territori all'interno della Calabria ma anche fuori dei confini regionali,
eppure gran parte di quel sogno ritenuto allora utopistico oggi è stato realizzato. Non provo neanche per un attimo ad immaginare che cosa saremmo
oggi senza questo piano.
Andrebbe approfondito e meglio analizzato il periodo in cui le idee di progresso e di sviluppo economico e sociale avanzate coincidevano con l'idea
delle Organizzazioni e della richiesta che proveniva dalla società.
Oggi registro anche la mancanza di un'idea progettuale politica, capace di ridare speranza ed orgoglio ad una terra che da alcuni anni ha deciso di
non lottare e che sta abbandonando l'idea che un cambiamento di rotta è possibile.
Non consideratemi un pessimista cosmico, ma non abbiamo più quella passione e tenacia che servono per realizzare e far partire le grandi idee. Il
piano irriguo ha dato alle nostre terre quell'input grazie al quale si sono prodotti alimenti di pregio elevato che hanno avuto riconoscimenti nazionali quali,
ad esempio: le angurie della valle del Neto, le arance, la barbabietola da zucchero, i pomodori, i finocchi, una zootecnia all'avanguardia.
Nel corso di questi ultimi quarant'anni si è verificata poi un'integrazione nel sistema agroalimetare: agricoltura, industria alimentare e distribuzione,
con il crollo del sistema distributivo tradizionale e la diffusione della grande distribuzione organizzata (supermercati, ipermercati, discounts).
Anche se ancora oggi abbiamo una presenza di piccole industrie alimentari bisogna riconoscere che sono enormi gli sforzi per valorizzare le
produzioni tipiche e locali. L'impegno è quello di legare le produzioni locali alla nostra storia, alla nostra cultura. La ricerca di una agricoltura sostenibile e
compatibile con l'ambiente rappresenta, inoltre, una delle nuove sfide che dovranno essere affrontate nei prossimi anni, non solo per ricreare e sviluppare
dei rapporti più stretti fra città e campagna, ma anche fra produttori, consumatori e soprattutto con la società tutta.
Ci troviamo nel mezzo di un passaggio cruciale della vita della nostra agricoltura, con la scelta dell'Unione Europea di modificare sostanzialmente la
Pac (politica agricola comune) e di abbandonare la strada di un sostegno all'agricoltura basato sulla produzione ed attivare invece il "disaccoppiamento".
In altri termini, se prima venivano dati dei contribuiti agli agricoltori che dimostravano di produrre quantità di prodotto secondo quanto stabilito dalle
"quote", per cui un soggetto che possedeva 10 vacche per avere diritto al premio doveva sempre mantenere lo stesso numero, senza guardare alla qualità
ed obbligando il produttore a mantenere gli stessi capi, oggi le quote si sono trasformate in "diritti" prendendo in riferimento gli anni 2000, 2001 e 2002.
Al produttore fino al 2013 verranno riconosciuti la media degli importi che lui ha percepito negli anni di riferimento, passando quindi da una politica di
sostegno alle produzioni ad una politica di sostegno ai produttori.
Quali dunque le conclusioni? È difficile prevedere con esattezza cosa procurerà questa riforma, di sicuro pone gli agricoltori a competere e
confrontarsi sul mercato globale.
Ritengo che il nostro territorio debba scegliere un'unica strada, che non può essere quella di competere con la quantità che arriva dalla Cina o con
produzioni di indubbia provenienza, noi dobbiamo scegliere la strada dell'alta qualità e delle produzioni sostenibili, con un occhio attento alle produzioni
agroenergetiche "biodiesel-biomasse". Siamo obbligati a scegliere la "multifunzionalità", cioè non solo produrre prodotti di grande qualità, ma produrre di
pari passo servizi ambientali, culturali, ricreativi e prodotti no food.
A distanza di quarant'anni siamo chiamati dalla storia a fare scelte fondamentali per il nostro territorio, sbagliare adesso significherebbe la fine del
comparto agroalimentare; questo dobbiamo impedirlo e nessuna Organizzazione di categoria e soprattutto nessun partito politico può permettere che ciò
avvenga.
Dobbiamo avere la forza ed il coraggio di scegliere politiche volte a promuovere strategie di sviluppo che impediscano la desertificazione sociale
delle aree interne e montane, l'abbandono dei giovani dai campi, le illusioni di posti di lavoro garantiti dal "signorotto" di turno. Dobbiamo guardare ai
giovani con un occhio diverso, sono loro la nostra vera speranza, la nostra unica alternativa, in fondo è da loro che abbiamo preso in fitto la terra che
coltiviamo.

 



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