Ora Locale

(Digita o Clicca su "Ora Locale" per tornare indietro)



Dove va il lavoro umano?

di Amelia Paparazzo

Dove va il lavoro umano? E' il sottotitolo del saggio estremamente interessante di Renato A. Rozzi, Costruire e distruggere (Il Mulino, Bologna, 1997). La lettura di tale scritto mi ha stimolato una serie di riflessioni e di considerazioni che costituiscono il filo conduttore di queste note.

 Fini costruttivi e potenzialita' distruttive del lavoro
Bambino, adulto, vecchio: le tre fasi della storia dell'uomo sono contrassegnate dall'attivita'. Quella del bambino e' la fase in cui l'attivita' si esplica maggiormente: sperimentando il mondo, acquisendolo, divenendone parte, egli lo modifica modificandosi. L'attivita' dell'adulto e' stata storicamente incanalata nel lavoro. Di qui la sua diversita' dal bambino e dal vecchio. Gli adulti non nascono lavoratori, in senso proprio, lo diventano, e-laborando il loro essere attivi, e il mondo esterno non e' esperito gia' dall'infanzia nello stesso modo in cui lo e' per gli adulti [p. 9]. Adulto e maturo viene generalmente definito chi sa controllare la tendenze alla distruzione, chi dirige verso fini costruttivi la propria aggressivita' e le potenzialita' distruttive attraverso cui essa si manifesta.
Ma e' proprio cosi'? E' sempre vero che la fase adulta, in cui storicamente l'attivita' umana e' orientata nel lavoro, e' espressione di un controllo esercitato sulle proprie potenzialita' distruttive? Davvero il lavoro e' sempre un'espressione costruttiva dell'uomo? Il modo comune di accettarlo come una perenne spinta costruttiva non ha finito per occultarne non semplicemente la crisi, ma l'originaria potenzialita' anche distruttiva? [p. 7]. Spreco, inquinamento, annientamento non sono il prodotto di quelle potenzialita' distruttive del "lavoro" verso cui l'attivita' dell'uomo adulto e' incanalata?
La nostra economia - dice Hannah Arendt - e' divenuta un'economia di spreco, in cui le cose devono essere divorate ed eliminate con la stessa rapidita' con cui sono prodotte, ammesso che il processo stesso non giunga ad una fine catastrofica. Il lavoro nelle societa' tecnologicamente avanzate non e' piu' orientato verso la produzione di beni necessari alla perpetuazione della vita, al soddisfacimento di bisogni utili al suo dispiegamento, alla costruzione di condizioni che permettano alla maggioranza degli uomini di conquistare beni fondamentali per la sopravvivenza. Le societa' opulente sono caratterizzate da un superproduttivismo finalizzato all'accrescimento dei consumi superflui: esse sono l'emblema e la testimonianza dello spreco. In esse il lavoratore, colui che produce, non si percepisce come anello di una catena impazzita che si alimenta dello e sullo sperpero, ma giustifica se stesso, il proprio ruolo lavorativo e la propria esistenza nell'opportunita' di accedere a beni sempre piu' illimitati. Produrre di piu' per consumare di piu'. A chi si e' formato negli ultimi decenni ultraproduttivi, lo spreco non appare affatto come una devianza economica o una disfunzione dell'istinto di conservazione [...]. Il lavoratore-consumatore e' concepito come capace di sopravvivere non perche' prevede, rinuncia e risparmia, ma perche' vuole avere di piu', e di meglio, e piu' spesso, perche' vuol vivere e non semplicemente esistere[pp. 25-6].
Il lavoro comporta un mutamento dell'ambiente. Questo mutamento appare oggi come il frutto di un continuo depredamento da parte del lavoro umano delle possibilita' che il mondo esterno sembra offrire. In maniera aggressiva ed egoistica l'uomo ha utilizzato la natura stravolgendola. La coscienza ecologica - che dopo alcuni eventi disastrosi ha cominciato a far affiorare i limiti di un intervento e di una manipolazione di un fuori di se' che si pensava subalterno e in tutto piegabile alle esigenze dell'essere pensante - ha reso palese la contraddizione su cui si basa il lavoro umano, ha fatto emergere in termini piu' o meno coscienti le potenzialita' distruttive insite in un processo che sembrava puramente costruttivo.
Le creazioni umane sono facili da distruggere e la scienza e la tecnica, che le hanno edificate, possono anche venire usate per il loro annientamento (S. Freud). E' nell'annientamento che il lavoro umano manifesta la sua contraddittorieta' piu' forte. L'annientamento rappresenta il salto di livello estremo nel potenziale di distruttivita' lavorativa [p. 41]. Si lavora nella costruzione di oggetti che hanno in se' il potere di autodistruggersi, di annientare i produttori e il mondo esterno. La produzione di armamenti assembla lo spreco (la produzione di armi da non utilizzare, ma solo come deterrenti), l'inquinamento (le armi chimiche che uccidono l'uomo distruggono l'ambiente) e le massime capacita' distruttive del lavoro umano. La "bomba" ci pone di fronte a qualcosa di ultimo, che di solito riusciamo a rappresentarci solo miticamente, come la pulsione di morte. Il modo in cui l'umanita' si comporta al cospetto di questo risultato del proprio lavoro e' di smarrimento, visti i tanti espedienti in cui di dibatte per giustificarlo o rimuoverlo. La bomba e' davvero "il troppo" della produzione disperata: rompe ogni nostra misura, e si fa essa stessa misura riassuntiva della storia umana. L'assenza di limite del processo lavorativo globale ha raggiunto in questo prodotto autoannullante qualcosa di insopportabile. In tale stato confusivo ogni discorso normale sembra impossibile: gli uomini appaiono soggettivamente frantumati di fronte alla potenzialita' oggettiva di frantumazione uscita dalle loro mani[p. 39].

 Il lavoro apparente
Esiste un numero crescente di uomini che hanno un impiego, che non fanno nulla di significativo sul loro posto di lavoro (R. Daherendorf). L'attivita' dell'uomo adulto, come si e' detto, e' stata storicamente incanalata verso il lavoro: in esso ci si identifica e si acquista consistenza. In un modo o nell'altro il lavoro pervade l'esistenza e diventa lo strumento attraverso cui l'essere attivi si manifesta. Il lavoro appare necessario anche se di esso, o di parte di esso, non vi e' assolutamente bisogno e il tempo impiegato per svolgerlo appare dilatato e sprecato. Il lavoro apparente e' quello svolto da coloro che lavorano non lavorando. Cos'e' che lo ha originato? E perche' su di esso si riversano gli strali di quanti invece si muovono e agiscono in settori diversi?
Gli espulsi dai processi di produzione industriale e quanti non hanno avuto la possibilitˆ di inserirsi in quei cicli lavorativi, sono stati accolti nel settore pubblico. Caratterizzato da un'inefficienza di fondo, lo Stato e' divenuto il luogo dove si svolge il lavoro apparente. Lo Stato, in definitiva, si e' assunto il ruolo di assorbire quella manodopera non piu' appetita dal privato, e l'ha parcheggiata nel pubblico. L'impresa privata, tanto impegnata nel "lavoro per risparmiare lavoro", ha finito per essere sempre meno in grado di riutilizzare il lavoro risparmiato, e lo ha proiettato fuori di se', scaricandolo sullo Stato che e' quella parte di noi che facciamo come se fosse estranea (e' come il Super-Io, e vive perci˜ di colpe, mentre il privato non pu˜ che essere l'istintivita', cosi' sono distribuite le parti nel capitalismo) [p. 52].
Sul lavoro apparente si scaricano le insoddisfazioni, i rancori, l'aggressivita' di quanti pensano di aver svolto da sempre un ruolo lavorativo costruttivo, rimuovendo non solo le componenti di distruttivita' che lo hanno accompagnato, ma spostando il problema di fondo del mondo d'oggi, quello della crisi del lavoro e della sua progressiva rarefazione, verso forme conflittuali che investono il lavoro apparente e le aree territoriali in cui esso e' stato relegato dallo sviluppo .
Sembra, ad esempio, un po' meno dominante lo scontro classico tra lavoratori e imprenditori, mentre diventa piu' visibile quello tra chi lavora considerandosi in regola - sempre sicuro della propria costruttivita'! - e chi non sta alle regole (in alto il risentimento e' diretto contro l'immancabile fascia dei corrotti, in basso contro il lavoro apparente, gli strati parassitari, il gran garbuglio). Il lavoro, che pure continua a svanire, non viene mai posto davvero in questione [p. 59].

 I "laboriosi" lavoratori del Nord e gli "oziosi" del Sud
Il Nord, e alcune sue zone soprattutto caratterizzate da una ventennale neo-ricchezza, di fronte alla crisi che investe il lavoro in quanto tale, individua il colpevole di uno stato di disagio nell'atteggiamento dei meridionali, non laboriosi, parassitari, ancora una volta palla al piede, da cui prendere le distanze, separandosi. Lavoratori che lavorano contro lavoratori oziosi e non laboriosi. Non ci si domanda mai pero' quanto lavoro concentrato nella propria comunita' sia stato sottratto ad altri, lasciando loro la maggior parte della commedia dell'apparenza [p. 60]. Lo scontro si sposta dalla tradizionale conflittualita' fra lavoratori e datori di lavoro, a quello fra chi produce lavorando e chi lavorando risulta improduttivo. Nell'un caso come nell'altro si perde di vista la possibilita' di elaborare modelli nuovi di risposta alla crisi che investe il lavoro. Nord e Sud, visti da un'angolatura critica del lavoro attuale, non sono forse due facce dello stesso problema? Negli ultimi decenni e' tutto il lavoro che ha preso a cambiare di segno: non solo ognuno vive la paura della disoccupazione, ma chi e' laborioso ha perso fiducia divenendo risentito, e chi e' rimasto stabilmente nel lavoro apparente e' andato demolendosi come lavoratore costruttivo [p. 62]. Nel Nord come nel Sud non si risponde alla crisi determinata dalla progressiva rarefazione del lavoro con l'invenzione di nuove forme di espressione ed impiego dell'attivita' umana, ma, ancorati a modi tradizionali di intendere il lavoro, si vive una condizione di mutamento con aggressivitˆ ed odio, da una parte, con rassegnata perdita di identita', dall'altra. Cos“ alle accuse non avete lavoro o meglio non avete organizzato in modo sufficientemente costruttivo il minor lavoro mosse da ampi settori della societa' settentrionale a quella meridionale, nel Sud si risponde il piu' delle volte con auto-commiserazione, mentre bisognerebbe controbattere: Voi avete lavorato senza limiti, spesso distruttivamente, e poiche' continuate ad oltranza con questo modello ultraproduttivistico, non fate che spingere verso di noi altro lavoro apparente. Non siete piu' un modello di societa' costruttiva [p. 63].

 Il lavoro e il movimento operaio
E' lo stesso modello di lavoro superproduttivo a dover essere messo in discussione. Dalla fine della guerra in poi, con lo spettacolo delle distruzioni belliche e della poverta' che rendeva drammatica la vita a gran parte della popolazione, ci si e' spinti verso uno sforzo ricostruttivo e iperproduttivo che ha coinvolto tutto il Paese. Nel Nord erano gli operai a garantire la ripresa del lavoro in fabbrica (i consigli di gestione) e a subire successivamente la riconversione produttiva e l'arroganza padronale. Nel Sud, dopo la fase delle occupazioni delle terre e degli scioperi a rovescio, si partiva verso le zone in cui il lavoro era sicuro; per chi restava o per chi non veniva assorbito dalla nuova industria che sempre piu' tendeva a risparmiare lavoro, si allargava e dilatava l'impiego, spesso clientelare, nella sfera del lavoro apparente.
Il lavoro a qualsiasi costo e in qualsiasi modo. Movimento operaio e sindacale, gruppi imprenditoriali e forze politiche, hanno trovato attorno ad esso una propria legittimazione. Solo col '68 comincia ad emergere una critica alla mitizzazione del lavoro come espressione piu' significativa dell'attivitˆ umana. Ma del '68 oggi e' difficile parlare, perche' il suo lato di antiche speranze rosse e' divenuto incomprensibile, e il suo lato innovatore, che chiedeva pur confusamente proprio quel cambiamento che non e' avvenuto, infastidisce col suo implicito profetismo che fa risaltare questi trent'anni involutivi [p. 58].

 Tutto rimane aperto
La progressiva riduzione del lavoro ha in se' valenze che possono essere fortemente innovative e positive. All'interno della crisi del lavoro si aprono degli spiragli, dei varchi che permettono una riconquista del senso dell'essere attivi e creativi, non esclusivamente produttivi. La formazione di associazioni, gruppi di volontariato, organizzazioni che vedono come protagonisti principali soprattutto i giovani e' il sintomo di un nuovo modo di vivere se stessi proiettandosi nel mondo esterno di cui il lavoro e' solo una parte. Questo terreno germogliante sta cominciando a riconoscersi [...]. In modo inaspettato, esso rivela di essere giˆ normalmente attivo, e segnala con semplicitˆ il proprio carattere fondamentale: l'essere ben disposto alle tante cose da far vivere [p. 79]: incontrarsi, parlare, star bene assieme, creare nuove forme associative che non hanno solo e unicamente come collante il produttivismo. La nostra societa' premia ancora pressocche' soltanto l'essere in qualsiasi modo nel lavoro - anche quand'e' in prevalenza apparente - e non riconosce a sufficienza le tante forme dell'essere costruttivamente attivi. Una parte di lavoro socialmente necessario permane e dovrebbe concernere tutti, ma la figura che oggi cerca una nuova legittimazione sociale non potrebbe essere quella di chi, oltre a lavorare, e' costruttivamente attivo col minimo di distruttivita'. [p. 84].
La liberazione dell'uomo dal lavoro non necessario sembra oggi un obiettivo perseguibile e raggiungibile se solo si ha il coraggio di rifiutare modelli e comportamenti imposti, riappropriandosi del pieno significato di "essere attivo".



Ora Locale

(Digita o Clicca su "Ora Locale" per tornare indietro)