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Intervista a Franco Cassano

di Rodolfo Ambrosio

D.- Il meridionalismo sembra coincidere con l'attitudine alla richiesta incessante di interventi pubblici nell'economia, nell'atteggiamento vittimistico teso ad addossare all'industria del Nord tutte le colpe del mancato sviluppo del Sud. In realta', questa "tradizione meridionale" ha poco piu' di un secolo e per le affermazioni da lei sostenute ne 'Il pensiero meridiano', si ha l'impressione che il Sud abbia seguito un vettore temporale ed economico altrove deciso. Se proprio si vuole rintracciare una tradizionalita' meridionale a quali esperienze bisogna risalire? In definitiva in quale tempo e in quale luogo rintracciamo l'anima meridionale?

R.- Il punto di partenza della mia analisi e' la critica della forma che la modernizzazione ha assunto nel Sud d'Italia. Questa critica non e' guidata da una pregiudiziale antimodernista, ma dal desiderio di sfuggire alle trappole stanche e ripetitive degli apologeti della modernita', di quelli che pensano che la modernizzazione sia l'unico sicuro rimedio alle patologie che essa stessa produce. La modernita' va in primo luogo osservata sporgendosi al di fuori di queste proiezioni apologetiche e va ricostruita nella molteplicita' delle sue facce. Se nessuna forma di vita si sottrae ad una certa ambivalenza, questo criterio va applicato anche alla modernita' che non puo' rivendicare per se' nessuno status privilegiato e nessuna immunita' a priori. Mettere in rilievo gli effetti perversi della modernita' e' quindi il risultato non di un pregiudizio antimoderno, ma solo di un atteggiamento equilibrato e capace di vedere, accanto agli aspetti positivi, le tendenze disgregratici e distruttive. Il pensiero meridiano e' in primo luogo diametralmente opposto a quel pensiero che disconosce quegli aspetti negativi riducendoli a forme diverse di resistenza alla modernita' e che vanno quindi trattati con dosi ulteriori e crescenti di essa. Questa premessa metodologica non e' superflua, ma serve per rispondere alla domanda sulla "tradizione meridionale": le critiche alla modernita' non sono critiche dal punto di vista della tradizione, ma da un punto di vista che, proprio perche' ha percorso e attraversato la modernita', e' capace di giudicarla con cognizione di causa. Il riconoscimento delle aporie della modernita' non conduce ad un'apologia della tradizione, ma ad una riscoperta di alcuni dei valori e dei significati consegnati all'interno delle forme di vita tradizionali. In altri termini questa riscoperta non e' un banale ritorno all'indietro ma una proposta creativa ed innovativa alla domanda: che cosa nella nostra tradizione ci puo' aiutare ad affrontare i passaggi difficili di questa fine secolo in cui diventano evidenti i limiti e le coazioni a ripetere della modernita', il suo progressivo ridursi ad un inseguimento disperato e ossessivo dei modelli di consumo e di vita dell'estremo Occidente? Se il problema e' questo non puo' esistere nessun frammento della nostra tradizione che da solo e nella sua integrita' possa essere proposto come orizzonte esaustivo al quale consegnarci. Al contrario si apre un enorme repertorio di luoghi, tempi e relazioni da riscoprire, una grande varieta' di sacerta' da rivisitare per capire intorno a quali interdizioni e a quali legami vogliamo costruire la nostra liberta' del futuro. Del resto un'attenzione nuova per il lato "alto" e "grande" della nostra tradizione attraversa gia' il nostro meridione, si pensi al successo delle iniziative su Federico II, cosi' come e' alla radice di quel risveglio intellettuale di cui questa rivista e' una delle manifestazioni piu' interessanti ed evidenti. Ho presentato 'Il pensiero meridiano' in centri grandi e piccoli del Sud (ma non solo del Sud) e ovunque ho incontrato questo sentimento anche se ovviamente piu' o meno organizzato e maturo. Solo una costante salverei in questo rapporto selettivo e costruttivo, con la tradizione del passato ci interessano in primo luogo quelle esperienze in cui il Sud ha sperimentato l'indissociabilita' del suo primato e della sua apertura: perche' di questo oggi si tratta, non di razionalizzare la marginalita' facendone l'apologia ma di capire che in questo passaggio il Sud puo' tornare ad essere una risorsa, una dimensione essenziale di una grande risposta di civilta' alle contraddizione della modernita', una risposta che non contiene solo ingredienti di gastronomia locale ma elementi di una risposta generale.

D.- Come lei stesso afferma, le relazioni a Sud sono governate prevalentemente dalla forma amicale ed e' intelligenza la capacita' di "utilizzo" dei partiti dimostrata dal ceto politico meridionale. Perche' dopo la rottura dell'equilibrio politico fra Nord e Sud, dopo la caduta della grande concentrazione industriale, il Sud non e' diventato il luogo "eletto", la giusta localizzazione della produzione post-fordista?

R.- Non so se siamo nel corso di un passaggio del Sud alla fase post-fordista e dico subito che questo paradigma, pur utile per descrivere certe realta', non puo' esaurire l'intero approccio ai problemi della societa' meridionale. Condivido con questa prospettiva il sospetto che la tanto celebrata globalizzazione voglia dire in concreto per il nostro Sud solo estensione della precarieta' con incrementi ridotti, e di tipo "sudcoreano", dell'occupazione. La modernita' "reale" e' questa e non quella ricavata dai modelli di un'altra fase storica i cui privilegi ormai sono ridotti o in via di riduzione. D'altra parte non possiamo neanche rimanere impietriti di fronte a questo lato feroce della modernita', pensare che il nuovo si possa esaurire in un anatema neofondamentalista. Rimango dell'avviso che per affrontare i passaggi che abbiamo di fronte la dimensione culturale dei processi giochi un ruolo decisivo e il declino di alcune della mitologie della modernita' possa liberare energie insospettabili. Il punto decisivo e' quello di far leva sulla dimensione locale per mutare l'idea stessa di ricchezza, ricostruire un rapporto simbolico e politico con i luoghi, ridare valore e significato alle dimensioni collettive, avviare dal basso la costruzione di un'idea di cittadinanza mediterranea. Io ritengo decisivo il rovesciamento in corso del significato simbolico di "mediterraneo". Fino a pochi anni fa esso era sinonimo di degenerazione e negativita', un passato geografico-culturale da cui emanciparsi per marciare compatti verso le grandi capitali della modernita', dalla fabbrica alla megalopoli. Oggi perfino Agnelli rivendica con orgoglio un'identita' mediterranea e sicuramente e' in corso una rivalutazione di questa comune appartenenza. Tutto questo rappresenta per il Sud d'Italia una straordinaria occasione per ribaltare il proprio ruolo. Il fulcro di questa inversione e' la nozione di confine che, lungi dall'essere una condizione degradata del "centro", rappresenta rispetto a quest'ultimo un luogo simbolicamente piu' "alto". Chi sta da sempre sul confine, chi lo porta dentro di se', nel rimescolarsi delle sue mille appartenenze, e' in grado di liberarsi piu' facilmente dai rischi dell'integralismo, cosi' di quello religioso, come di quello etnico-nazionalistico come infine di quello economico, di quel fondamentalismo dello sviluppo che consegna l'umanita' nelle morse di un meccanismo ingovernabile. Locale e cosmopolita non sono destinati ad escludersi, ma possono trovare un fecondo punto di intreccio e sovrapposizione: i cerchi piu' piccoli si rafforzano veramente solo se si collocano in un cerchio piu' largo, in una patria piu' vasta e disegnata nei secoli e nei millenni da quell'incrocio e quella contaminazione di lingue, di nomi e di colori che costituiscono la nostra grande ricchezza. Noi abbiamo il privilegio di non essere puri, non abbiamo nessuna di quelle ossessioni sciagurate che spingono verso le "pulizie etniche". Questa qualita' "impura" non appartiene in esclusiva ai meridionali, ma e' una caratteristica generale del nostro paese che troppo spesso dimentica nelle angosce dei suoi governanti di essere un promontorio tuffato nel mare. Ludovico Incisa di Camerana ha detto che l'Italia ha vinto la terza guerra mondiale, ma non se ne e' ancora accorta. Credo che abbia ragione. Con l'unica precisazione che la scoperta di questo orizzonte nuovo potrebbe essere la premessa, piu' che di un autonomo imperialismo italiano, di un ruolo autonomo e concertato dei paesi sud-europei nella costruzione di un'Europa diversa da quella progettata sulle velocita' continentali e piu' capace di guardare a sud, al Mediterraneo non come al proprio limite ma come ad un ponte, ad un crocevia pacifico e plurale. La grande politica e' fatta di questa capacita' di guardare fuori di se' e al futuro, il contrario della logica contabile e condominiale dell'Europa attuale. La retorica della globalizzazione (ma anche il suo rovescio critico) soffrono di questa angustia progettuale, chiudendo il pensiero nelle maglie delle loro fobie e delle ossessioni.

D.- Oltre mezzo secolo di intervento straordinario non ha determinato la nascita di forme di capitalismo se non nell'aumento dei redditi e dei consumi. Si puo' affermare che il capitalismo al Sud non e' passato? O meglio, e' possibile ipotizzare che la mafia abbia avuto un ruolo di resistenza al capitalismo, da un lato, dall'altro si sia affermata come forma originaria di accumulazione capitalistica?

R.- Credo che nel Sud si sia affermato un capitalismo periferico attenuato, nei suoi aspetti piu' laceranti, dalle diverse forme assunte nel tempo dall'intervento statale. Il trentennio interventista di questo dopoguerra, figlio di un'ideologia espansiva e "progressista" a livello internazionale, e' rispetto alla storia d'Italia un'eccezione e, tra l'altro, anche una riparazione tardiva e fallimentare alle politiche postunitarie che danneggiarono gravemente il Sud. Quel cumularsi di marginalita' e assistenza ha prodotto un ceto politico che nel periodo del declino di questo meccanismo (dalla fine degli anni Settanta) ha lasciato mano libera all'espansione dei poteri criminali pur di mantenere intatto il proprio consenso. Ma anche in questo caso e' meglio sottrarsi alla tentazione di rovesciare l'ideologia dell'intervento straordinario (il Sud va aiutato perche' e' debole) nel suo contrario (il Sud e' debole perche' e' stato aiutato), il montessorismo delle filosofie riformiste in un darwinismo "buono" e formativo. Il diffondersi della criminalita' organizzata non puo' essere visto solo come il risultato del malgoverno, come se le strozzature del mercato nazionale e internazionale non esistessero e fossero solo l'invenzione di una cattiva letteratura economica. La malavita organizzata e' un intreccio di fenomeni parassitari (estorsione, rapimenti) e mercato "reale" (prostituzione, contrabbando di tabacco, droga e armi). In altri termini, essa rappresenta nella maggior parte dei casi una forma perversa, ma reale, di "ingresso nel mercato" di fasce di popolazione precedentemente coperte (ideologicamente ed economicamente) dall'intervento pubblico. La riduzione dell'assistenza statale estende la marginalita' e la devianza diventa la risposta diffusa (e tollerata) ad essa. Credo che in molte situazioni di capitalismo periferico la via criminale sia la piu' facile e la piu' realistica di ingresso nel mercato. Quello che rimane della tradizione in queste forme di inserimento nel mercato internazionale e' un ibrido perverso, un intreccio di familismo feroce e sradicamento estremo, di solidarieta' spietate e feticismo consumistico. E' qui il fondo tragico del nostro passaggio: non c'e' nessun idillio nel nuovo quadro, ma solo l'imperiosa necessita' per noi di trasformare lo sguardo, di cumulare le energie, senza nessuna chiusura dogmatica, per rovesciare la condizione di confine, che e' anche questo inferno, nel suo rovescio, in un'occasione di salvezza generale. in questa congiuntura culturale neo-heideggeriana va di moda citare un famoso verso di Holderlirn secondo il quale solo dove il pericolo diviene estremo diventa possibile salvarsi. Io credo che noi viviamo in uno di quei luoghi e in uno di quei momenti.

D.- La modernitˆ per il Sud ha significato eccedenza di beni ma non di rapporti, e tuttavia il Sud non ha rifiutato di attraversarla. Soprattutto ha significato "bruttezza". Esistono, all'interno dell'acclarata refrattarieta' del Sud al modello capitalistico, punti luminosi dai quali osservare il mare?

R.- Tutti noi abbiamo sperimentato quello che Camus ha chiamato l' "esilio di Elena", l'eclisse della bellezza, il suo sacrificio sull'altare della grande rincorsa collettiva ai consumi. Abbiamo pensato che bastasse costruire i grandi quartieri di edilizia popolare a Palermo, Bari o Napoli, perche' la gente ci vivesse bene, come se abitare fosse solo costruire o occupare una casa. In quei quartieri senza comunita' e senza servizi, senza identita' e senza pieta', in quei quartieri alla Cipri' e Maresco la sofferenza e' fatta soprattutto dall'abitudine al brutto, e' una vitalitˆ disperata che non riesce neanche piu' ad avvertire questa mancanza. Ma il recupero della bellezza non puo' avvenire ai danni della democrazia, attraverso una chiusura di ceto o di reddito. La chiave di tutto diviene allora il recupero dei luoghi collettivi, dei beni pubblici come fonte di ricchezza non individualistica e dei beni culturali come risorsa simbolica ma anche come fonte di lavoro. Se da un lato il recupero dell'identita' non puo' separarsi dallo sviluppo dell'occupazione, dall'altro la capacita' di valorizzare i propri luoghi non deve coincidere con il loro ingresso nel circuito di un consumo superficiale e distruttivo. Non si tratta di idoleggiare il passato ma di ricostruire il significato simbolico di un mondo fondato su forme di ricchezza diverse dalla nostra. Tutti i beni pubblici vanno ricostruiti e ripuliti dall'assedio delle mille effrazioni che si sono appropriate di una frazione di panorama, di luce, di terra, di mare o di strada riducendo tutto cio' che e' comune a resto, scarto e discarica. La valorizzazione turistica va cercata, ma senza ridurre i propri comuni a prostitute imbellettate che sui vendono per pochi soldi al primo venuto, purche' capace di pagare. La "bruttezza" di cui parlate e' molto spesso quella che rende precocemente vecchie molte nostre zone che come donne di piacere si sono date a troppi senza rifiutare nulla pur di guadagnare. C'e' sicuramente una via di mezzo tra una virginalita' incontaminata e la disponibilita' totale della prostituta, quella di paesi o citta' con molti amici, ricchi di relazioni, capaci di incuriosire per quello che sono o sono stati, pieni di dignita' ma ospitali, non disinteressati ma non venali, capaci di far uscire i turisti dal circuito dello svago e della vacanza per incuriosirli sulla propria forma di vita, di metterli in crisi, di restituire un'anima pi* inquieta allo spettrale primato invernale del lavoro. Va restituita alla bellezza la sua anima inquieta, va disincastrata dalla pura dimensione di riposo e riconciliazione per gettarla nel campo di cio' che occorre tornare a cercare, di cio' che si sottrae alla riproducibilita' tecnica, sperimentare la quale richiede un costo e comporta una ricchezza incomparabili con quelli cui siamo abituati. La Calabria e' una terra in cui la montagna e il mare non sono a distanza ma spesso si incontrano in modo aspro e drammatico, una Sicilia non insulare. Questa bellezza che nasce dalla forza del contrasto e dall'assenza di conciliazione, questo rapporto spesso sofferto con il mare e' una cifra che colpisce chi viene dalle linee rette della Puglia o addirittura da piu' lontano, e' un lato della sensibilitˆ meridionale che bisogna imparare a raccontare e di cui occorre spingere quelli che arrivano a voler capire di piu'. Qualsiasi, anche piccola, coscienza comune e' fatta di comunicazione tra le differenze, non di gerarchie ma di quel piacere che nasce dalla scoperta reciproca e che rende interessante il percorso da fare insieme.




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