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La sinistra tra omologazione culturale e frammentazione partitica

di Giuseppe Cacciatore



Quando il mio amico ed antico compagno in tante comuni battaglie politiche, Pino Cantillo, scrisse la sua 'riflessione sulla sinistra' si era nelle settimane immediatamente successive alla formazione del governo Amato e al risultato delle elezioni regionali. Gia' allora i segnali di crisi profonda (peraltro ben visibili, a mio avviso, in una lettura quand'anche frettolosa degli eventi dell'ultimo decennio) della sinistra nel suo insieme e dei DS in particolare crescevano in maniera esponenziale. Riproporli qui comporterebbe un lunghissimo elenco. Mi limito percio' soltanto a richiamare quelli piu' eclatanti e temporalmente vicini: la pesante sconfitta elettorale, la divisione e il disorientamento assoluti sulle questioni referendarie, la tormentata vicenda della formazione dei governi regionali, le ondivaghe prese di posizione su giustizia, amnistia, legge elettorale, sicurezza dei cittadini, lavoro (e, ultime in ordine di tempo, le questioni relative agli immigrati clandestini e alle fusioni aziendali nel campo delle telecomunicazioni, terreni sui quali massima appare la confusione di idee e di comportamenti). Se poi ad essi aggiungiamo i segnali (e piu' che segnali, vere e proprie tappe miliari di un disfacimento che sembra del tutto incontrollabile) di questi giorni emblematicamente compendiabili nella vergognosa vicenda della chiusura dell 'Unita' - allora quegli elementi di positivita' che Cantillo, con un generoso sforzo di passione intellettuale, ancora scorge allinterno della convulsa fase di trasformazione che stiamo attraversando, di gran lunga si attenuano fin quasi a scomparire. So bene che, nella sua lunga storia, la sinistra ha sempre annoverato nelle sue fila inguaribili pessimisti, nutrite schiere di ìcassandreî periodicamente votate a pensare e a dire tutto il male possibile sul presente e ad esaltare sempre e comunque una mitica stagione perduta delle sorti del socialismo. E so, altrettanto bene, che diventa sempre piu' arduo dinanzi alle sconvolgenti trasformazioni e accelerazioni della contemporaneit , della sua economia, delle sue articolazioni sociali, dei suoi riferimenti culturali, dei suoi valori etici rimettere in campo idee e modelli di azione politica che hanno per decenni nutrito intere generazioni di militanti socialisti e comunisti. Ma se, purtroppo, prevale ai nostri giorni una desolante pervasivita' del senso comune, e cioe' una omologante convinzione, secondo la quale non servono piu' (o appaiono come rudimentali ed antiquate) idee, analisi, condotte pratiche ispirate alla giustizia sociale, alla lotta per il lavoro, alla solidarieta' per i ceti deboli e diseredati, per i popoli sfruttati economicamente e oppressi politicamente, non saccresce, per questo, la enorme responsabilita' degli intellettuali di sinistra, che o non combattono questa resa incondizionata a cio' che si ritiene essere l'opinione dominante o, comunque, non sono in grado di offrire strumenti analitici rinnovati e ricalibrati rispetto ad una economia del nuovo capitalismo, molto piu' lesto a cambiar pelle e strategie? Non diventa ancora piu' grave la colpa dei dirigenti di questa ormai introvabile sinistra che non solo accusa falle vistose nel suo apparato ideale ed analitico, non solo perde sul suo terreno tradizionale (quello dell'organizzazione e della difesa degli interessi che una volta si chiamavano di classe) ma addirittura balbetta vergognosamente quando s'illude di poter seguire la destra moderata e populistica sul terreno dell'indistinta congerie delle spinte corporative e su quello pericolosissimo della critica adesione (il che non deve significare indifferenza o aristocratico spirito di sufficienza) alla emotivita' dei bisogni di sicurezza, di benessere, di idendita' ? Se sono queste, come io credo, le domande a cui occorre urgentemente dare risposta, allora ha ragioni da vendere Cantillo quando invita ad alzare il tono della discussione, quando suggerisce di spostare il fulcro del dibattito dalle sterili polemiche personali e di bottega, dagli stucchevoli duelli tra fondatori di partiti personali e ideatori di fondazioni varie (che hanno caratterizzato negli ultimi tempi il dibattito interno ai DS, non solo in Campania) a un ragionamento di piu' ampio respiro che tocchi, ad esempio, il problema della forma-partito al cospetto della radicale trasformazione dei modelli strutturali e delle tendenze dinamiche della societa' contemporanea. Non so, anzi nutro dubbi profondi che cio' avvenga almeno in tempi brevi, se i gruppi dirigenti della sinistra (con in testa il maggior partito di essa) possano e vogliano ridare corso alla vecchia aurea regola della politica, che per me resta tale a dispetto del suo stato comatoso: e cioe' che la ricerca del consenso passa attraverso la capacita' di delineare un progetto di cambiamento della societa', di miglioramento delle condizioni di vita, di benessere e di sicurezza, ma anche attraverso la capacita' di trovare gli strumenti piu' adeguati alla conoscenza e alla diffusione di esso. Siamo, osserva Cantillo, dinanzi ad una crisi profonda non tanto o soltanto delle ideologie, ma anche e soprattutto della stessa politica. Devo dire che ho sempre guardato con sospetto alla insopportabile filastrocca della morte delle ideologie e non certo per una sorta di rimpianto verso modelli politici e culturali che pure hanno fatto parte cosi' preponderante della storia del nostro paese e delle sue generazioni intellettuali (e di cui, almeno io, non mi pento affatto, salvo a riconoscerne, senza doppiezze ed ambiguita', il loro fallimento sul piano storico e il peso tragico di tanti errori teorici e tanti orrori materiali). Ed il sospetto diventa certezza, quando la favola ripetuta fino alla noia della morte delle ideologie e della crisi della politica diventa il paravento, neanche troppo mascherato, del dominio di ben vive e vegete operazioni ideologiche, le quali, peraltro, seguono uno schema ben noto e consolidato, la scelta, cioe', di alcune idee-guida che, apparentemente considerate effetto di consenso generale, finiscono per diventare modelli di vita e strategie politiche di tipo egemonico e spesso coercitivo: il riconoscimento del valore etico-politico ed economico del mercato a livello mondiale; il dogma della indistinzione tra destra e sinistra elevato quasi a legge universale della scienza politica contemporanea; la globalizzazione delleconomia che da elemento descrittivo di una situazione e' diventato modello prescrittivo (ed il medesimo ragionamento puo' farsi per la cosiddetta new economy ). E in questo scenario che va, a mio avviso, collocato il giudizio negativo che condivido espresso da Cantillo sul modo in cui alcuni settori, peraltro maggioritari, della sinistra italiana hanno tentato e tentano in modo surrettizio di dare una risposta alla crisi della politica: lillusione che una gestione puramente amministrativa del potere nazionale e locale possa sopperire alla incapacita' di costruire una politica come progetto sociale ed etico. 'Si ha limpressione di uno slittamento dellazione politica nei termini di una amministrazione dellesistente proveniente da altri ambiti della societa' riconducibili sostanzialmente alla sfera delleconomia, dove il criterio di valore non puo' che essere quello dellefficacia in vista della conservazione e del rafforzamento dell'esistente. Lo schema interpretativo adottato da Cantillo e' nobile, nel senso cioe' che sublima a livello di categorie 'alte' della scienza politica (chiamando addirittura in causa la bipolarita' schmittiana amico-nemico) cio' che sta diventando, sempre piu' spesso, politica strapaesana, o, per meglio dire, ìpoliticucciaî fatta di insulti personali, di contrapposizioni tra pseudo-leaders, di sgambetti e agguati tra alleati, di conflitti tra interessi economici di gruppo e personali. E, naturalmente, tutto cio' si riverbera sulla pessima qualita' che ormai sempre piu' caratterizza cio' che una volta si chiamava societa' civile e che ora sembra aver assunto la forma di una indistinta massa gelatinosa che penetra in ogni piega del paese, ogni tanto smossa da qualche sussulto (e gli esempi sono tanti: il primo ìUlivoî, le meteore che appaiono e scompaiono da Prodi a Di Pietro a Bonino) subito ricoperto dalla melmosa palude dell'ideologia del partito-azienda, della politica 'fai-da-te', della ìnuova-frontieraî del libero affare in libera politica, del miraggio americanista del facile arricchimento con la nuova economia. Se questa e' la 'nuova' politica, verrebbe di gridare forte un elogio della 'vecchia', un elogio dell'ideologica lotta di classe, un elogio di quelle realta' costituite dai vecchi partiti dove era ben chiara la distinzione tra destra e sinistra, tra partiti che riuscivano a rappresentare ceti, orientamenti culturali e interessi contrapposti. Ma ha ragione Cantillo: questa e' ormai una stagione tramontata e non serve rimpiangere una realta' ormai inesistente. Si e' voluto giustamente riformare la vecchia politica e si e' agito solo sulla pars destruens , sciogliendo e corrodendo la vecchia forma-partito in cui dominava lapparato, ma non si e' saputo costruire una nuova forma, se non attraverso palliativi legislativi (come il sistema maggioritario spurio) e se non con illusori tentativi di dar vita a comitati elettorali (spesso peggiori dei vecchi comitati di laurina e democristiana memoria) e a partiti personali, che garantiscono certo il successo personale, anche giusto e meritato talvolta, di qualche personaggio ma non certo la forza e la continuita' di una politica di riforma e di una struttura di governo efficiente. Sono anch'io convinto, con Cantillo, che servono a poco gli accorati, anacronistici appelli, quandanche generosi e sinceri, alla riabilitazione e restaurazione di una forma-partito, specialmente quella a cui per tanti decenni hanno fatto riferimento i comunisti italiani e che tanta parte ha avuto nella storia democratica del nostro paese, checche' oggi possano dirne non tanto i critici della prima ora (giacche' questi vanno rispettati) e neanche gli inguaribili 'acchiappa-fantasmi' di oggi, ma tanti disinvolti pentiti dell'ultima ora, ieri protagonisti di acritico comunismo, oggi protagonisti di ottuso anticomunismo. Ma devo dire che anche la semplice constatazione della crisi della forma-partito tradizionale serve a poco, se quelle esigenze di dar vita a nuove forme di aggregazione, a nuove forme di organizzazione della politica restano ancora per molto a livello di petizioni di principio o, il che e' ancor peggio, si perdono in defatiganti e perdenti tatticismi elettorali tra ulivisti e anti-ulivisti, tra sostenitori del centro-sinistra come nuovo soggetto politico o come mera coalizione di partiti. Ci che, invece, a mio avviso e' urgente promuovere e innanzitutto una nuova unita' della sinistra (dai DS alle varie frange socialiste, dai comunisti ai verdi, dai radicali ai democratici), una unita' che possa costituire il nucleo forte (e non per questo pregiudizialmente e dogmaticamente egemone) di una alleanza strategica di governo con il centro moderato e cattolico. Ma, proprio per non ricadere nelle vecchie formule delle alleanze partitiche e nelle ormai obsolete metodologie della politica gestita da stati maggiori di eserciti ormai inesistenti, il progetto di una nuova unita' della sinistra deve nascere a partire da un programma, da contenuti riformatori radicali sul piano delle questioni sociali e sul piano dei valori etici, dalla individuazione di pochi, visibili e comprensibili denominatori comuni: lotta alla poverta', lotta alla disoccupazione, equita' fiscale, solidarieta' e provvidenze concrete, economiche e civili, sociali e giuridiche, per gli immigrati, per gli anziani, per le schiave della prostituzione, politica concreta di sviluppo per il Mezzogiorno, sicurezza nelle citta' senza cadere in tentazioni autoritarie e 'sceriffesche'. E proprio cosi' arduo che intorno a questi problemi la sinistra non trovi, non ritrovi la sua capacita' di mobilitazione e di aggregazione politica, non ritrovi la sua stessa ragion d'essere? Gia', perche' e' questo il vero problema! Il gioco sofistico e intellettuale di molta politologia contemporanea, secondo la quale sarebbe scomparsa ogni distinzione tra destra e sinistra, sembra esser diventato un luogo comune passivamente accettato, quasi imposto non solo dalla martellante omologazione a cui coscienze e intelligenze sono costrette dalla potenza pervasiva dei mass-media, ma anche dalla sbagliatissima strategia (e dico sbagliatissima a ragion veduta, se solo si riflette sullesito a dir poco deludente delle esperienze di governo nazionale e locale) di coloro che hanno pensato e praticato la incompatibilita' tra lazione amministrativa e governativa e il mantenimento di alcuni punti fermi che sono propri di una politica di sinistra. E ben vero che la politica e leconomia del 2000 non possono essere piu' gestite ed affrontate con scelte particolari e ottiche localistiche, che il mercato e' diventato globale, che la disoccupazione e' problema europeo e mondiale, che limmigrazione e la lotta ai mercanti di forza-lavoro deve impegnare tutti i paesi evoluti, che i conflitti etnici e la pace tra i popoli riguardano tutti. Ma questo vuol forse dire che la sinistra italiana ed europea non ha nulla di diverso da dire rispetto alla destra? Che la concezione di un mercato simulacro di una presunta liberta' di azione economica che si tramuta in forme sempre pi massicce di oppressione e diseguaglianza e' la stessa cosa del mercato retto da regole democratiche e da ricerche di equilibri tra sviluppo economico, solidarieta' e giustizia sociale? Che lo sforzo della sinistra italiana (quandanche balbettante e contraddittoria) di dare soluzione al dramma degli immigrati e' la stessa cosa di chi a destra propone di sparare sui gommoni dei clandestini? Che il leghismo razzista di chi si ispira al piccolo Fuhrer della Carinzia e' lo stesso di chi, sia pur spesso ancora soltanto a parole, vuole creare concrete e moderne forme di federalismo? Ma ora e' tempo di finire, giacche' credo che abbia fin troppo motivato il mio convincimento che sia ancora plausibile una unita' della sinistra italiana ed europea che muova dai programmi, dai progetti, dalla capacita' di mobilitazione delle coscienze e dei comportamenti pratici. Vi e' un'ultima stucchevole litania che, in questi ultimi anni, ha contribuito non poco a ottenebrare intelligenze e capacita' analitiche della sinistra: la cosiddetta morte dei valori tradizionali, cosicche' a ben poco servirebbero i richiami alla solidarieta', alla progettualita' sociale, alla difesa dei deboli, alla riforma economica e sociale, dinanzi allapatia, al conformismo, allegoismo individualistico, alla ricerca del benessere in se'. Ma i valori non sono stelle fisse, non sono acquisizioni eterne date una volta per tutte: i valori vivono nella storia e si incarnano nelle persone, sono queste le forze motrici dei valori. Se non vi sono obiettivi concreti da perseguire, se non si vedono progetti da attuare, scelte politiche da realizzare, anche i valori sono destinati a deperire. Si potra' discutere quanto si voglia ( e molto vi sarebbe da dire su una forma fin troppo spettacolarizzata di religione e devozione, di fanatismo di massa e di imitazione collettiva, come e' avvenuto a Roma durante il giubileo dei giovani), ma certo i valori della solidarieta', dell'amore, della pace, della lotta al razzismo, del servizio ai poveri e ai diseredati, non sono certo morti se riescono a mobilitare milioni di persone. Anche questo, purtroppo, e' un modo di riflettere sullo stato della sinistra oggi: la Chiesa e il Papa raccolgono intorno al loro progetto di evangelizzazione e di attenzione alluomo e ai suoi problemi forze nuove, energie creatrici, speranze di riscatto, voglia di vita. Apprendo dai giornali che buona parte dello staff dell'ex-presidente del consiglio D'Alema e' fortemente impegnato ad assumere la gestione economica e finanziaria di una nuova lotteria: il Bingo. Ad ognuno i suoi valori!



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