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Tradizione meridionalistica e "nuovi pensieri" sul Sud

di Giuseppe Cacciatore


Il dibattito sul Mezzogiorno, specialmente dopo la pubblicazione del libro di Franco Cassano del 1996 (Il pensiero meridiano) e di quello più recente di Mario Alcaro (Sull'identità meridionale, che è del 1999) ha imboccato una inedita ed interessante curvatura interpretativa. In essa ciò che ora viene al centro - rispetto alla pur importante e, almeno per me, insostituibile chiave tradizionale di lettura storico-politica - è il tentativo di utilizzare una serie di categorie filosofico-culturali e di simbologie che si dispongono a metà strada tra la sociologia della conoscenza e l'antropologia (la "solarità", la "meridianità", l'appartenenza comunitaria, l'etica del dono, il culto della memoria, la pratica dell'amicizia e del legame parentale) e che si ritengono più maneggevoli e più proficue in un contesto culturale e politico sempre più caratterizzato dalla cosiddetta post-modernità e dalla crisi dei modelli ideologici e sociologici di descrizione e spiegazione.
Adesso il dibattito ha subito una ulteriore accelerazione grazie ad una serie di interviste e di articoli (inaugurati da un polemico iintervento di Latouche, seguito da quelli di Cassano, Fistetti, D'Antonio, Barcellona) ospitati dal "Corriere del Mezzogiorno" (supplemento napoletano-meridionale del "Corriere della Sera").
Già quando uscì qualche anno or sono, ebbi modo di scrivere (cf. Meridione/Modernità/Tradizione, in Meridiani. Segmenti eterogenei di arte nuova. Rassegna internazionale di arte contemporanea, a cura di A.Iovino, Kreis, Salerno, 1996, pp.45-51) del libro di Cassano, che di esso si potevano certamente discutere, e anche non condividere, sia alcuni presupposti teorico-metodologici, sia alcuni esiti analitici. E, tuttavia, non si poteva allora e non si può ancora oggi non riconoscere il fatto che esso, al di là dell'enfatica e talvolta astratta proposta di rivendicare per il Mezzogiorno - come terreno privilegiato non solo di revisione storica del meridionalismo, ma persino di ritraduzione delle sue chances politico-pratiche - uno status di autonomo soggetto di pensiero, proponga un intelligente terreno di ricerca e di discussione che trova il suo centro propulsore nella decisa opzione ad abbandonare schemi oppositivi ormai consunti e difficilmente applicabili in questa fase storica: sviluppo e sottosviluppo; progresso e decadenza; produttività e parassitismo; efficienza e inefficienza.
Gli effetti dirompenti (nel positivo come nel negativo) della globalizzazione e, con essa, della relativizzazione dei parametri culturali, oltre che di quelli economici e sociologici, inducono, devono indurre, alla riformulazione di alcune classiche categorie interpretative, nel senso non certo di una presunzione di "nuovi pensieri" che si sovrappongano alla realtà (giacché, almeno finora, nessuna modernizzazione e nessuna new economy ha ancora annullato, sia pur talvolta modificandoli, indicatori statistici ben noti nelle analisi della questione meridionale antica e attuale: dalla disoccupazione alla miseria, dal degrado dell'ambiente a quello della vita civile), quanto, piuttosto, in quello di un equilibrato dosaggio tra ciò che appartiene alla modernità e ciò che deriva dalla tradizione, tra ciò che omologa necessariamente nell'identità sociale e culturale e ciò che ancora caratterizza le differenze, tra ciò che in teoria designa la tipologia europeo-settentrionale (il rigore, l'efficienza, il calcolo) e ciò che ancora in teoria designa la tipologia mediterraneo-meridionale (la fantasia, la flessibilità, l'adattabilità). In teoria ho detto, perché nella pratica la mescolanza è nei fatti e si impone quasi necessariamente nella sua ragionevolezza.
Da questo punto di vista ha ragioni da vendere Latouche quando ritiene inapplicabili (anche perché sostanzialmente fittizie e largamente improbabili nella loro fissità tipologica e ben poco storicistica) le grandi schematizzazioni geopolitiche delineate da Cassano, ma anche le generiche differenziazioni storico-culturali tra una Europa di area cattolica e una di area protestante, che sanno molto di "cattiva" storia universale. E, tuttavia, non credo che le analisi di Cassano (e, per certi aspetti, anche quelle di Alcaro), come pensa Latouche, siano spiegabili soltanto come un effetto della "sindrome meridionale", cioè dell'attitudine al lamento di chi da secoli si sente oppresso, defraudato e ingiustamente accusato di non essere all'altezza della modernità. Alla base di quelle interpretazioni - che certo non è possibile comprimere in un così breve spazio - vi è un duplice errore: di natura storica e filosofica. Il primo consiste nella inspiegabile rimozione di un dato di fatto, e cioè l'appartenenza della storia e della cultura meridionale alla grande tradizione europea (della quale, anzi, per secoli è stata antesignana e talvolta persino modello: da Federico II al Rinascimento meridionale, dalla Napoli metropoli europea dei secoli XVII e XVIII ai riformatori meridionali). Il secondo sta nell'uso, come ho detto innanzi, di una dialettica (uso volutamente l'immagine crociana) di rigidi opposti che non tiene conto - specie in un'epoca di radicali sommovimenti concettuali e di eclissi ideologiche - delle possibilità di interazione e distinzione tra tradizione e modernità.
La dialettica del rovesciamento - su questo ha ragione Cassano - non annulla l'opposto, piuttosto lo fa rivivere in forme occulte nel suo contrario. Il senso della famiglia non ha impedito che raffinate forme di commercio pedofilo telematico penetrassero anche nelle città meridionali, né che il forte spirito del legame comunitario facesse restare immuni dagli omologanti modelli mercantili ed individualistici. Il discorso, lasciato alle secche polarità (queste sì vetero-ideologiche) tra l'Europa della modernizzazione neocapitalistica spersonalizzante e quella della solidarietà e della flessibilità di vita, corre il serio rischio di trasformarsi in una obsoleta battaglia di retroguardia, assai simile a quella di quanti favoleggiavano, dinanzi alle reali situazioni storiche di trasformazione politica e sociale dell'Italia nel contesto europeo dell'Ottocento, di un mitico sud ubertoso e felice.
Non so se e quanto - come crede Fistetti nel suo intelligente intervento - le posizioni di Cassano e Latouche rispondano a modi diversi di reazione alla crisi del marxismo. So solo che sarebbe ora che questo esercito di reduci e sbandati smetta una buona volta un lutto che è durato sin troppo e rimetta in campo certo non gli schematismi ideologici ormai inutilizzabili, ma sicuramente gli strumenti analitici e metodologici (che pure quella tradizione politica e teorica conteneva e contiene) adeguati alla comprensione del mondo contemporaneo. Cosicché, adottando un sano criterio eclettico - ma chi l'ha detto, poi, che l'eclettismo è sempre da buttar via ? - si potrebbero combinare l'argomentata critica di Latouche all'universalismo europeo-occidentale, alla "occidentalizzazione" del moderno e il suo tentativo di dar forza a quelle forme culturali e sociali che fuoriescono dall'omologazione, con la proposta del pensiero meridiano, inteso non come l'imposizione di un pendant mediterraneo al continentalismo nordico-occidentale, ma come sforzo di introduzione di elementi di criticità e di riconoscimento delle identità altre e del loro interagire in un processo di flessibilità multietnica e multiculturale.
Alla luce di queste considerazioni, sia pur rapide e dispersive, a me sembra che anche la proposta teorico-interpretativa di Alcaro non è certo da leggere come una nostalgica riproposizione di modelli culturali di tipo tradizionalistico. Indubbiamente il filosofo perde il pelo, ma non il vizio e, dunque, nelle analisi di Alcaro prevalgono forse in modo eccessivo, rispetto alla effettualità di corpose e non risolte contraddizioni storiche e di persistenti modalità strutturali socio-economiche, paradigmi filosofici legati esplicitamente al dibattito contemporaneo sull'etica pubblica, sui nessi tra identità e comunità, sullo spazio di agibilità dell'individualità storica e culturale nell'epoca della crisi "globale" della modernità. E, tuttavia, ciò che alla fine prevale a me pare, ancora una volta, una sana e non disprezzabile ipotesi di analisi politica e civile della situazione meridionale, costruita alla luce di una rinnovata dialettica tra l'eccedenza positiva del passato etico-politico della tradizione meridionalistica e il sapiente uso, non enfatico e non ripetitivo, delle più accreditate rielaborazioni contemporanee dell'etica dell'individualità e delle comunità, dell'etica pubblica e dell'etica della vita buona, purché sottratte a quel pernicioso estremismo del postmoderno che spesso confina col più bieco degli antimodernismi conservatori.
D'altronde a me sembra che se così non è, se così non si interpretano i lati positivi delle due posizioni, non si riesce a dare un contributo serio all'europeismo, nel senso di sapere e potere uscire dalla secca alternativa tra una unità europea politica e culturale (auspicabilmente nel senso della democrazia progressiva e costituzionale, alla Habermas, per intenderci) sempre e soltanto declamata e una unità reale che è quella dei potentati politici ed economici, della moneta unica e dell'illusorio progetto di costruire un mercato più mercato di quello nordamericano).
Al contrario vi è un nuovo modo di pensare e realizzare l'europeismo al quale possono concorrere il riconoscimento delle peculiari individualità storico-etiche, dei settentrioni e dei meridioni e del loro continuo intrecciarsi nel relativizzarsi della globalizzazione, e il riferimento alla universalità delle politiche di tolleranza democratica e di giustizia sociale (parole desuete da cui si ritraggono pervicacemente proprio i critici "autocritici", sempre più senza rotta, del fu comunismo occidentale). Un analista politico, oltre che fine storico, come Paolo Macry ha scritto, sempre sul "Corriere del Mezzogiorno" - con non celata irriverenza verso "fumose identità mediterranee" -, un articolo che è un vero e proprio segnale d'allarme sull'incapacità di storici e sociologi, di politici e filosofi, a capire che il Mezzogiorno sta letteralmente scomparendo, ma non perché si siano dissolti come d'incanto i suoi problemi e le sue tragedie (aggravate da un'economia senza regole, da una espansione massiccia del sommerso, dal persistere della criminalità, da un elevato tasso di non-lavoro) ma perché alla sua antica soggettività (buona o cattiva che sia stata) si sta sostituendo il nulla della frantumazione politica, la mancanza totale della progettualità sociale ed economica, della creatività culturale, dell'innovazione scientifica. Altro che nuovo pensiero meridiano e nuova questione meridionale.



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