di Ciccio Caruso
Autunno 2000: Ernesto Treccani, il Poeta che ha dipinto "La terra di Melissa" ed esaltato
nel mondo la straordinaria lotta di emancipazione dei braccianti e dei contadini
del "Marchesato" e della Sila, compie 80 anni e da 50 ci gratifica del suo impegno
politico e civile, della sua Arte e della sua amicizia.
E' un privilegio che non vogliamo perdere neanche per gli anni a venire e un'occasione
per ringraziarlo, augurargli tutto il bene possibile e dirgli: " vorremmo che il
tuo volto perdesse le rughe lasciate dal tempo e dalle preoccupazioni e la giovinezza
riprendesse a rifiorire per sempre".
Ernesto era giunto qui, nel cuore del latifondo, dalla sua Milano, subito dopo l'eccidio
di Melissa e d'allora non ci siamo più perduti di vista: voleva sapere di noi, capire
le ragioni di quelle lotte di terra e libertà, soddisfare quell'enorme bisogno di conoscere la gente, esprimere lo sdegno per quei morti ammazzati a " Fragalà" dalla
gendarmeria di Scelba.
Per molti di noi Ernesto era un giovane intellettuale "passato", come tanti altri,
dalla parte del proletariato; un compagno di strada di quel vasto movimento di uomini
e donne, ricco di storia e di passione rivoluzionaria, che sognava di cambiare il
mondo e che noi chiamavamo Partito Comunista.
Per altri era l'ingegner Treccani, un conte con l'emblema di famiglia ancora ricamato
sulle finissime camicie di popeline e tanta curiosità. Il figlio del senatore Giovanni,
l'industriale tessile lombardo, emerito fondatore della prestigiosa "Enciclopedia
Treccani".
E, tra i più "ortodossi", non mancarono quelli che, di fronte alla "novità", per un
malinteso senso della "vigilanza rivoluzionaria" si fecero venire qualche scrupolo
sulla "purezza" della sua fede politica.
Non passò molto tempo e per tutti Ernesto era soltanto il compagno Treccani. Poi diventammo
anche molto amici e, dentro di noi, coltivammo sentimenti di stima e di profondo
affetto che hanno accresciuto il bisogno di frequentarci, scambiarci pensieri, delusioni e anche speranze: non volevamo che quel filo di solidarietà e di comunanza d'idee,
nato nel Partito e via via trasformatosi in una grande amicizia, si dissolvesse
nel nulla; e così con Ernesto, Pasquale Iozzi, che non c'è più, e Tonino Nicoletta,
costruimmo una "cellula" che funziona tuttora.
Come dimenticare il tempo e le serate trascorsi insieme a Crotone, da Tonino e da
Pasquale, per fare quattro chiacchiere, gustare le zuppe e le grigliate di pesce,
le insalate, le favolose pepate di cozze, i carciofi in umido, preparati da Lisetta,
Angela e Antonietta, le nostre compagne?
E poi ancora a Melissa, dopo gli incontri in Sezione, da Ciccio Lonetti, prima che
emigrasse a Valenza, e dopo, da Pietro Pizzuti, per assaporare, tra un aneddoto e
un buon bicchiere di vino, le minestre di verdure miste con legumi, il pane ancora
caldo col profumo di frumento, le famose sarde salate condite con olio abbondante e fresco
di macina, gli affettati di prosciutto, servite da Maria e da Laurina.
Ernesto era un abitudinario che rasentava la monotonia. Andava puntualmente a letto
dopo cena, mangiava allo stesso orario e, quasi sempre, le stesse cose: solo raramente
si salvavano dalla routine quei poveri cinquanta grammi di spaghetti che solitamente "mbruscinava" con qualche goccia d'olio.
E' stato in una di quelle stagioni di lotte e di forte impegno ideale che conoscemmo
tantissimi compagni: Lidia, la simpaticissima compagna di Ernesto, e suo fratello,
il critico letterario Raffaelino De Grada; Carlo Levi e Antonello Trombadori, Ezio
Taddei e Toni Nicolini.
L'interesse per le "cose" che Ernesto andava dipingendo è nato molto più tardi. E
non certo perché mancassimo di sensibilità o perché sottovalutassimo l'importanza
della Cultura nel processo di trasformazione e di rinascita del Crotonese. Ma più
semplicemente perché in quegli anni l'impegno politico era intensissimo e non lasciava tempo
per pensare ad altro. Bisognava incalzare l'Opera Sila per accelerare gli espropri
e l'assegnazione della terra espropriata ai contadini, contrastare la spinta del
Governo De Gasperi verso l'emigrazione e l'abbandono della terra, che era la risposta sbagliata
ad un problema giusto, come il lavoro e l'occupazione, fare i "Partigiani della Pace"
e lottare contro la "legge truffa", sviluppare le iniziative in difesa del suolo
e fronteggiare, in un clima arroventato dalla guerra fredda e dall'anticomunismo, l'azione
di ricatto e di corruzione messa in campo dalla peggiore Democrazia Cristiana per
bloccare l'espansione della Sinistra e la disgregazione del blocco agrario.
E dire che all'epoca stare dalla parte di chi lottava, non cedere alle lusinghe e
alle minacce e opporsi all'arroganza del potere, non era certo agevole. Anzi, spesso,
si pagavano prezzi anche molto alti, ma, forse, proprio per questo in molti sceglievano
di stare a Sinistra, con i comunisti e i socialisti. E non è un caso o solo il segno
dei tempi che cambiano se da anni non succede più che un partito penetri tanto in
profondità nel cuore della gente e nel mondo dell'Arte e della Cultura, com'era stato
per comunisti e socialisti!
Melissa e il premio Letterario della Città di Crotone avevano aperto nel muro dell'incomunicabilità,
che separava il Crotonese e la Calabria dal resto dell'Italia, una grossa breccia.
Perciò sapevamo bene quanto fosse importante l'apporto della Cultura, della classe operaia e della borghesia illuminata, per mantenere aperta la strada dell'iniziativa
e della lotta e spostare più avanti e più in alto il livello del confronto con un
sistema di potere iniquo e refrattario verso ogni forma di innovazione e di crescita civile.
E così per anni, Scrittori, Poeti, Editori, Artisti, e Letterati, come Giacomo Di
Benedetti, Concetto Marchesi, Giuseppe Ungaretti, Leonida Repaci, Alberto Moravia,
Pier Paolo Pasolini, Carlo Emilio Gadda, Piero Jahier, Giorgio Bassani, Davide Laiolo,
Leonardo Sciascia, Ernesto Treccani, Eriprando Visconti, Ignazio Butitta, Zanotti Bianco
e tanti altri, dal Premio Letterario seppero cogliere e trasmettere importanti messaggi
di cultura e di solidarietà che permisero di colmare quel vuoto di informazione e
di partecipazione dell'opinione pubblica nazionale al processo di rinnovamento e di
trasformazione della Calabria e del Mezzogiorno, avviato con le lotte per la terra.
Anche merito dell'intelligenza e dell'impegno di un "regista" di eccezionali qualità
umane e politiche come Mario Alicata se, finalmente, il grosso della cultura e delle
forze produttive e sociali del Paese "scoprivano" Melissa e la Calabria, e noi degli
alleati nuovi e importanti, fino allora inaccessibili, per proseguire più speditamente
sulla strada del cambiamento.
L'approccio con l'Arte di Ernesto non è stato un amore a prima vista. I colori e le
immagini erano già allora molto belli ed espressivi: un insieme di sensazioni delicate
ma lontane dal nostro mondo reale, quello dei poveri cristi in carne e ossa che l'Abate Padula aveva già descritto un secolo prima nel suo "Persone in Calabria".
Da noi era ancora tutto diverso. E anche le pietre, se avessero potuto parlare, avrebbero
detto di gente povera e sofferta, col cuore ancora gonfio di rabbia e ricca soltanto
di dignità, d'orgoglio e di una smisurata voglia di lotta per lasciarsi alle spalle quel passato di ansie, di rinunce e di rassegnazione che era sotto gli occhi
di tutti: ma era sufficiente tutto questo per intravedere, immaginare "colori e
primavere" che nella realtà non c'erano?
I ragazzi e le ragazze del Marchesato erano inconfondibili: avevano il volto, le carni
e le mani segnati dalla fatica e dai patimenti. Erano cresciuti troppo in fretta,
sembravano l'immagine della tristezza e non avevano avuto neanche il tempo di accorgersi dell'esistenza dell'infanzia e dell'Epifania. Le donne, dal profilo greco, molto
belle, ancora giovanissime erano già sfiorite e senza voglia, distrutte dalle preoccupazioni
e dai figli partoriti uno dopo l'altro, come in una catena di montaggio: quasi una condizione della vita, molto antica nel Marchesato, per "consumare", in qualche
modo, il tempo libero e produrre braccia per il mercato del lavoro.
I vestiti erano residuati dell'ultima guerra: coperte, pastrani e giubbe militari;
e l'abito buono, ancora impregnato di naftalina, sempre quello del matrimonio. Le
case erano anguste e disadorne e le suppellettili deturpate dall'umidità e dal tempo:
un po' tutto portava ancora l'impronta del latifondo.
I servizi igienici e le opere di civiltà erano pressoché inesistenti: a Crotone, nel
rione "Carmine", oltre 2000 persone vivevano in baracche di legno prive di qualsiasi
conforto; e per i 90 mila abitanti del Crotonese c'era un solo ospedale con pochi
posti letto e una sola scuola media superiore, il liceo "Pitagora", istituito dal fascismo
nel 1934. Mentre l'Università di Bologna risaliva al 1200 e il liceo "Galluppi" di
Catanzaro al 1870. Queste e tante altre cose ancora ci facevano diversi dagli altri
e anche da quel "mondo di colori e di immagini" che Ernesto andava fermando sulle tele
e nei disegni.
E poi avevamo ancora impresse negli occhi e nella mente le immagini di "Roma Città
aperta", di "La terra trema", di "Sciuscià", di "Napoli milionaria": tanti pugni
nello stomaco; messaggi forti e di facile lettura, diversamente dalla pittura di
Ernesto che aveva bisogno di essere pensata, immaginata, decifrata; e tutto ciò allora per molti
di noi era ancora un "esercizio intellettualistico" abbastanza complicato.
Ne parlammo a lungo e poi, un po' alla volta, incominciammo a capire ed apprezzare
anche il messaggio poetico e pittorico di Ernesto: non era più quello forte e immediato
del tempo delle grandi fabbriche, degli opifici e dei silos, ma non per questo meno
interessante.
Quando abbiamo avuto modo di vedere "La terra di Melissa", la bellissima tela sulle
lotte contadine, che Ernesto regalò al Comune di Crotone, la nostra prima impressione
non fu quella di trovarci di fronte alla rappresentazione di un momento di lotta,
ma di una gita in campagna, di un Primo Maggio di festa alla "Montagnella" di Carfizzi:
un insieme di uomini e donne, a piedi e a cavallo, con gli attrezzi di lavoro, la
"spesa" e qualche bandiera rossa, che da destra e da sinistra convergono verso il
centro di una strada tracciata sulla terra per proseguire insieme verso "Fragalà";
il "ritratto" di un mondo che non c'è ancora, ma che Ernesto intravede perché, come
Nazim Hikmet, il grande poeta comunista turco, che ha trascorso la sua vita tra il
carcere e l'esilio, immagina " che i figli e i nipoti che verranno saranno migliori
di chi è nato dalla terra, dal ferro e dal fuoco; e incontrandosi, senza più paura e senza
troppo riflettere, si daranno la mano e diranno: come è bella la vita!".
Per quanto emozionati da quella visione, chiedemmo timidamente qualche notizia e nel
breve spazio di un attimo giunse lapidaria la risposta di Ernesto: " che volete?
Io le lotte per la terra l'ho vissute e immaginate in quel modo, perciò non avrei
potuto rappresentarle diversamente".
In fondo Ernesto aveva ragione: la sua onestà intellettuale, l'idea, i colori e le
immagini di quella tela, esprimevano assai meglio di tanti discorsi il senso più
vero e profondo di quel grande rivolgimento di popolo, unitario e democratico, che
furono le lotte per la conquista della terra e la Riforma Agraria.
Ernesto, oramai, aveva messo radici a Melissa, la famosa rocca di antiche leggende
ai confini del latifondo, guadagnandosi il rispetto e la simpatia della gente:
era diventato l'amico, il compagno con cui confidarsi, il Consigliere Comunale, il
Maestro e, all'occorrenza, anche l'Ingegnere; e col passare del tempo avevano perduto il loro
fascino sia le camicie di "popeline" per quelle più modeste, ma freschissime, di
lino grezzo, confezionate con sfacciato orgoglio, in casa, sullo "stile cinese",
dalle donne di Melissa; che le diavolerie che l'arciprete e il segretario della sezione
democristiana di Melissa erano soliti propinare ai loro "parrocchiani" sui comunisti
e le loro "bizzarre" idee sull'emancipazione e la solidarietà.
Il lavoro, sempre più intenso, procedeva abbastanza bene: era come se la natura, le
cose e le persone, affascinati dalla grande e disinteressata disponibilità di Ernesto,
si "concedessero" all'Arte senza condizioni. Spesso Ernesto passava intere giornate
a dipingere volti di ragazzi, donne, tante donne e zolfatari delle miniere di "Comero",
interni di case, vendemmie delle vigne di "Fragalà", campi di grano con i colori
dell'erba appena spuntata e dei papaveri, colline di ginestre e mimose in fiore,
marine assolate e trasparenze di colori cangianti diffusi nello spazio dal riverbero delle
luci del sole cocente di luglio sui fondali del mare di Crotone.
Ora anche quel "nero denso", consumato a secchi per fissare sulla tela le ansie, i
sentimenti e le passioni che pulsavano tra le macchine di quelle grandi industrie
della periferia di Milano, Piombino e Aubervilliers, espressione di lavoro e di
ricchezza ma anche di sofferenze alienanti, è sovrastato da nuovi colori che somigliano all'innocenza
dei bambini.
E' appena l'inizio di una nuova stagione di grande impegno civile e politico e i colori
e le immagini sulle tele sembrano pezzi d'umanità, oggetti della vita, la vita stessa,
trasformati in pensieri pittorici: segno di un profondo bisogno di verità, di coerenza, di ricerca del punto d'incontro, più alto e significativo, tra la vita interiore
e il mondo esterno; un'idea della vita nelle sue più diverse e contraddittorie trasformazioni,
proiettata in una dimensione umana troppo suggestiva per non sembrare quasi irreale.
Da qualche parte avevamo letto che "Ernesto mai, prima d'allora, aveva dipinto tante
tenere estati da sembrare che l'intera natura aveva tolto il lutto e che persino
la Calabria era allegra". E come poteva essere diversamente? Il Mondo era attraversato
da grandi tensioni ideali e politiche, gli orrori della guerra e dell'Olocausto erano
ancora molto presenti nella memoria della gente e, un po' ovunque, c'era tanta voglia
di lotta, di libertà e di un'esistenza appena migliore. Eravamo abbastanza giovani
e intorno a noi c'era tanto entusiasmo e tantissima collera che funzionavano come un
potente incentivo capace di fare esplodere passioni incontenibili: la Cina di Mao;
l'India di Gandhi; l'Algeria di Ben Bella; il Congo di Lumumba o la Cuba di Fidel
Castro e di Che Guevara, ci esaltavano quanto il disprezzo per la Spagna di Franco e per l'America
della "Caccia alle streghe" di Mc Carthy e dell'assassinio dei Rosenberg.
Sembrava che finalmente le luci dovessero prevalere sulle ombre e che per l'umanità
era l'alba di un nuovo giorno molto importante. E tutto questo non poteva lasciarci
indifferenti, non coinvolgere e sollecitare l'immaginazione di Ernesto.
Poi, nel corso degli anni, molte cose sono cambiate: è saltato il vecchio ordine mondiale
e punti di riferimento, scelte culturali e politiche, che pensavamo fossero certezze,
hanno ceduto il passo a delusioni e sconfitte.
Ora viviamo la nostra idealità in una dimensione politica astratta e scioccante e
la globalizzazione capitalista sembra essere il nuovo rimedio per sanare i mali che
affliggono l'umanità: è probabile che quanto prima l'organizzazione globale dei ricchi
incontrerà quella dei poveri per "concertare" il tasso di crescita annuo della ricchezza
e della povertà; e se tutto va bene i ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri
sempre più poveri.
Noi siamo fortunati perché abbiamo il privilegio di vivere in un Paese abbastanza
ricco: è migliorata notevolmente la qualità della vita e il benessere è diffuso quanto
e, forse, più della libertà e della democrazia; la disoccupazione e il Mezzogiorno
sono ancora un bel tormento ma in compenso sprechiamo risorse che altri ci invidiano e
che potrebbero servire per strappare alla morte milioni di persone che nel mondo
continuano morire di fame e di sete. Sono in forte declino lo slancio, la partecipazione
e la passione politica e tutto, o quasi, "profuma" di modernità. Individuare i confini
che separano la Sinistra dal Centro o dalla Destra è un'impresa pressoché impossibile
e la gente, più delusa che appagata, brancola nel buio, come una folla anonima e
senza storia, alla ricerca di qualcosa che non trova o non vuole trovare: sembriamo il
prodotto, più o meno inconsapevole, di una società senza anima che ci sta plasmando
a sua immagine e somiglianza.
I ragazzi e le ragazze ora vanno all'Università e quelli con i segni della fatica
sono sempre meno. Sanno usare il computer, navigare con internet e hanno il "debole"
per la macchina e il telefonino. Si ritrovano nelle stesse piazze, vestono e parlano
allo stesso modo, hanno le stesse abitudini e non disdegnano l'idea del" branco", fumano
Marlboro, mangiano pizza a taglio, credono nell'amicizia, ignorano la politica, quando
non la disprezzano, non conoscono l'uso dell'autocritica ma sono molto attenti ai
problemi della solidarietà. Non hanno grandi ambizioni e i vecchi miti sono "roba"
per elite di giovani apprezzabili per lo slancio e la disponibilità, ma settari quanto
basta per lambire i confini del dogmatismo; vivono la prospettiva di invecchiare
da disoccupati con consapevole e dignitosa rassegnazione.
Sono il lievito della nuova classe dirigente, i soggetti potenziali del cambiamento
e non lo sanno o fingono di non saperlo, ma sono anche la spia di un malessere diffuso
e pericoloso che spegne la passione politica e la voglia di lottare per essere. E'
successo già altre volte e l'umanità ha pagato prezzi indescrivibili; poi il brutto
inverno è passato ed è tornata la primavera con i suoi meravigliosi colori: quelli
che solitamente Ernesto usa per dipingere la libertà e la speranza che nessun inverno,
neanche il più gelido, può uccidere per sempre.