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Quelle lotte di terra e libertà

Michelangelo Cimino intervista Piero Bevilacqua



Le lotte per le occupazioni delle terre in Calabria, dal '43 al '50, sono state considerate il primo, grande movimento popolare di massa dell'Italia contemporanea. Un movimento, spontaneo nelle fasi iniziali, organizzato in un secondo momento, che raccolse la protesta contro un sistema di patti agrari, desueto, arcaico e perpetuante l'antica soggezione dei contadini meridionali ai signori del latifondo. Qual era l'assetto sociale da cui prese le mosse e che, in ultima analisi, mirava a scompaginare? Abbiamo posto la domanda allo storico Piero Bevilacqua, per il quale "l'ingresso [dei contadini] nella lotta politica, insieme a quello dei lavoratori delle città, [rese] in qualche modo operante e viva la democrazia" nell'Italia del secondo dopoguerra (Breve storia dell'Italia meridionale dall'Ottocento ad oggi, Donzelli).
La zona del crotonese, e soprattutto quella del Marchesato, costituiva l'area a più elevata concentrazione fondiaria d'Italia: quasi un'intera provincia era nelle mani di poche famiglie di proprietari. Era una situazione messicana, analoga a quella antecedente alla rivoluzione zapatista. Se noi consideriamo che su quelle terre gravitavano molti comuni, dove viveva il contadiname povero, e i braccianti senza terra, comprendiamo che si aveva una situazione di oligopolio terriero, cui corrispondeva una straordinaria scarsità di mezzi alternativi per la sopravvivenza. E questo, naturalmente, creava una situazione di assoluto assoggettamento dei lavoratori agricoli (definiamoli genericamente così ) ai possessori di terra. Tuttavia, bisogna considerare che il latifondo aveva una sua articolazione...
E una sua "logica interna"...
Possiamo discutere in seguito di questo aspetto concernente i vincoli ambientali che, in qualche modo, favorivano la sopravvivenza del latifondo. Ma da un punto di vista sociale e contrattuale, il latifondo 'funzionava' in questo modo: una parte delle terre venivano utilizzate in economia dai medesimi latifondisti, i quali si riservavano gli appezzamenti migliori della proprietà, per farla lavorare in proprio e per l'allevamento. Altre parti del latifondo, venivano concesse in fitto ai cosiddetti industriali o industrianti, i quali erano degli imprenditori agricoli che sfruttavano la quota presa in affitto, impiegando manodopera prevalentemente avventizia. Questi fittavoli, a loro volta, subaffittavano ai contadini le quote di terra più difficili da lavorare, o meno fertili, attraverso il patto di terraggerìa, consistente in un scambio: concessione di terra contro pagamento in natura per tomoli di grano ( in genere, venivano pagati due tomoli di grano per ogni tomolata di terra).
La piramide sociale era dunque questa. Ed era una piramide sociale che aveva pesanti effetti di degradazione della fertilità della terra e del quadro ambientale complessivo del latifondo: perché fondata su fitti di breve durata - di sei anni -, pari alla durata delle rotazioni agrarie di tipo latifondistico. Questo significava che il fittuario non aveva nessuna preoccupazione di migliorare le terre coltivate; al contrario, egli aveva tutto l'interesse a sfruttarle al massimo.Una volta scaduto il contratto, si metteva alla ricerca di un altro fitto per i sei anni successivi. E d'altra parte nei patti non era previsto l'obbligo di apportare migliorie al fondo. Per cui, andava tutto a scapito della fertilità della terra. E' noto che se sul fondo erano stati piantati alberi che ostacolavano la coltivazione della terra, venivano immediatamente abbattuti. Bisogna aggiungere che anche il contadino, il quale possedeva soltanto le braccia per lavorare la terra, e non era affatto sicuro di avere la quota di terraggerìa ad esso spettante alla scadenza del contratto, si comportava allo stesso modo. Quindi, i rapporti sociali del latifondo tendevano a degradare, diciamo così, la produttività della terra.

Veniamo ora ai "vincoli ambientali", che rendevano razionale, da un punto di vista economico, l'esistenza del latifondo. Si trattava di un sistema che, giustamente, Manlio Rossi-Doria definì geniale - per la cpacità di adattamento agli assetti naturali del territorio. Peraltro, Rossi Doria ricavava questa interpretazione da un'analisi magistrale che Ghino Valenti fece del latifondo della campagna romana alla fine dell'Ottocento.
Da un punto di vista non giuridico, non concernente il possesso della terra, ma del paesaggio agrario, il latifondo è una formula produttiva effettivamente geniale: perché consente di coltivare il grano ( e quindi di produrre ricchezza ) in situazioni di spiccata avversità ambientale. L'avversità ambientale è data, innanzi tutto, dalla qualità delle terre prevalentemente aride e argillose, che non riescono a sostenere colture alternative ( coltivazione di frutteti, ad esempio); mentre il grano riesce a sopravvivere in condizioni di siccità, senza cure ecc. E poi dalla mancanza di popolazione, dovuta al circolo vizioso del latifondo che, per un verso, non aveva bisogno di manodopera, e quindi non la formava in loco, non la rendeva stanziale; e, per l'altro, dalla presenza della malaria. Siccome il latifondo aveva bisogno di braccia da lavoro in pochi periodi dell'anno - in autunno per la semina e a giugno per la mietitura e trebbiatura - è chiaro che questi lavori potevano essere fatti attraverso la manodopera migrante. C'è da aggiungere che il latifondo viveva in sintonia e in sincronia con l'economia della pastorizia transumante, che si svolgeva pendolarmente tra la montagna e la pianura. Le greggi che d'estate alpeggiavano sulla Sila consumando i freschi pascoli di quelle montagne e le acque dell'altipiano, alle prime nevi venivano spostate alle marine. Qui trovavano clima mite ed erbaggi per sopravvivere; e col le loro deiezioni concimavano e fertilizzavano i campi lasciati a riposo per la coltivazione del grano. Quindi, c'era un incastro tra economia montana ed economia di pianura; tra allevamento brado e agricoltura cerealicola.


Le occupazioni di terre, che continuarono anche dopo la Legge Sila, l'istituzione degli Enti di riforma e dei Consorzi di bonifica, nonostante i tentativi del PCI di incanalarle nella lotta democratica ( a tale riguardo esso si appellava all'art.44 della Costituzione, che dispone consistenti limiti alla grande proprietà terriera; ma che, come sostennero i suoi dirigenti, fu abilmente aggirato dalla Legge stralcio), assunsero anche forme di protesta anti-statale. Questa componente, generalmente trascurata nelle ricostruzioni delle lotte contadine, a tuo parere è stata tutto sommato marginale o ha avuto un certo peso nel connotare il movimento?

Da un punto di vista storico non la enfatizzerei. L'avvio dei movimenti contadini, parte proprio nel crotonese, nell'autunno del '43, in coincidenza con l'armistizio dell'8 settembre. La documentazione, consultabile presso l'Archivio centrale dello Stato, è scarsa e tuttavia il sincronismo di queste lotte lascia pensare ad un forte atteggiamento anti-istituzionale: nel senso che i contadini appena si accorgono che lo stato non c'è più sentono aprirsi davanti a loro uno spazio di libertà sociale, oltre che politica; e ne approfittano per muovere verso l'unico fronte di sopravvivenza che avevano davanti: la terra del latifondo, appunto.
Detto questo, a mio parere si fa un torto storico al PCI se lo si considera come una forza frenante del movimento. Io ho consultato le carte della Prefettura di Catanzaro, epicentro delle lotte, e ho potuto constatare che esse erano organizzate dal sindacato. E, quindi, dagli uomini del PCI. Per la verità, anche i cattolici avevano una loro presenza all'interno del sindacato unitario.
Poerio, ad esempio, compare continuamente nelle carte di polizia, in qualità di animatore costante delle lotte contadine. Ancora: le lotte della primavera del '46 sono il risultato di una straordinaria mobilitazione della Federterra, che mise in movimento, collegò, unificò, organizzò, i contadini di diversi paesi. E' assurdo pensare che i contadini, da soli, potessero animare un moto anti-statale. Ricordiamoci che eravamo in presenza di una realtà molto frammentata, dispersa nel territorio, con enormi difficoltà di comunicazione (pensiamo a cos'erano, soprattutto in quell'area, le strade nel dopoguerra)... Il sindacato ha svolto un'opera di tessitura e di collegamento di straordinaria portata - che non è giusto sminuire.
Aggiungerei che, quand'ero più giovane, alcune affermazioni di Giorgio Amendola, a proposito della conquista della democrazia nel Mezzogiorno,mi apparivano retorica di partito. Più tardi ho invece capito: nella realtà sostanziale la democrazia non esisteva; esisteva, invece, un rapporto di subordinazione personale dei ceti popolari nei confronti dei padroni - soprattutto nelle zone in cui la vita delle persone dipendeva dalla possibilità di lavorare la terra. Noi, tutto questo, oggi, non riusciamo a capirlo. Io l'ho capito imparando bene a fare il mio mestiere di storico; cercando di capire quale realtà sociale effettiva si celi dietro le parole.
La democrazia è nata con la sconfitta del fascismo e con la Costituzione; ma nella sostanza, senza la sconfitta della grande proprietà, senza la creazione di istituzioni di difesa dei diritti dei contadini, senza la diffusione del sindacato e delle Camere del lavoro, che quotidianamente difendevano i contadini nelle vertenze con le molte controparti, la democrazia dove sarebbe andata a finire?



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