di Michelangelo Cimino
Cancellata dall'agenda dei governi - dopo l'accantonamento della "nuova programmazione"
e le prove non esaltanti di Sviluppo Italia - la cosiddetta questione meridionale
sembra sottratta al destino che, specie negli ultimi anni, ad essa era stato assegnato dal ceto politico: vale a dire di terreno riservato alle esercitazioni dei tecnici,
cui si demandava il compito di trovare soluzioni praticabili, in linea cioè con le
ristrettezze di bilancio, per allineare il Mezzogiorno agli standard delle aree economicamente sviluppate. Ne è derivato un dibattito, non sapremmo dire se e quanto valido
da un punto di vista tecnico-scientifico, ma comunque privo di spessore progettuale
e complessità culturale, incolore, incapace di scaldare gli animi, stimolare le menti;
e, ciò che più conta, entrare nel senso comune. Alcune voci che in quel torno di tempo
si levavano dal Mezzogiorno per fare da contrappeso alla deriva tecnicistica in atto,
salvo brevi fiammate di consenso, rimanevano pressoché isolate. L'impressione che
ancora una volta la cultura meridionale fosse vittima dell'antico vizio della divisione
e della frammentazione, è stata forte.
Certo, a mitigare la sensazione di già visto, v'era un non trascurabile fiorire di
riviste e case editrici, l'istituzione di qualche centro studi, che nel vuoto di
iniziativa politica, seguito alla soppressione dell'intervento straordinario e, pur
con tutti i limiti dovuti alla collocazione periferica, hanno esercitato una funzione di aggregazione
di energie singole - che in assenza di alternative operavano in ordine sparso. Mancavano
tuttavia luoghi in cui queste forze, in maggioranza espressione del mondo universitario e della cosiddetta società civile, potessero riunirsi, dialogare, confrontarsi
al fine di "fare rete". Ed era una mancanza che equivaleva ad una ipoteca sul loro
futuro: senza luoghi di discussione e confronto il rischio che esperienze importanti, maturate lungo il decennio scorso, si cristallizzassero e isterilissero era
tutt'altro che remoto.
La Fondazione Idis-Città della Scienza, presieduta dal Vittorio Silvestrini, ha raccolto
questa domanda di raccordo, per così dire, proveniente da numerosi studiosi meridionali
e ha promosso un incontro (Napoli, 3-4 ottobre 2000) nel corso del quale sono state gettate le basi di un lavoro comune, allo scopo di mettere in rete progetti elaborati
da singoli o gruppi. Naturalmente, ciascun progetto presenterà delle specificità,
sarà espressione di una determinata linea (politico) culturale, porrà l'attenzione
sul contesto locale piuttosto che sui rapporti tra Mezzogiorno e area mediterranea;
ma pur con sfumature e accenti diversi, è prevedibile che essi avranno un denominatore
comune: la costruzione di una forma peculiare di autonomia per il Sud.
Previsione sin troppo facile, a scorrere le relazioni tenute nei locali della ex Italsider
di Bagnoli sede della Città della Scienza. Qui sono riecheggiati i temi elaborati
da molta letteratura meridionalistica, all'indomani dei sussulti provocati dalla
globalizzazione dei mercati, che hanno messo in seria crisi gli assetti dello Stato-nazione,
concorrendo a ridimensionarne compiti, funzioni, ruolo. Questa perdita di centralità,
ben visibile nella cessione di vaste quote di sovranità in alto (alla UE) e in basso (alle Regioni), ha schiuso inedite possibilità di cambiamento per il Mezzogiorno,
cui per la prima volta dopo l'Unità d'Italia è data l'opportunità di uscire da una
condizione storica di marginalità e di fissare, partendo dalle specificità culturali che esso esprime, termini e modalità di un'autonomia che non sia soltanto funzionale
alla rottura degli antichi legami di subalternità allo stato centrale, ma produca
una riflessione non tributaria di un pensiero elaborato altrove (Cassano e Goffredo).
E ciò appare tanto più urgente se si pone mente alla presunta efficacia della terapia
universalmente richiesta per sanare i "mali" del Sud: lo sviluppo economico. Ma quale
sviluppo? Certo, quello incentrato sulla "triade" concorrenza, competitività, efficienza, che "elimina come cianfrusaglie valori tradizionali, vecchie abitudini, forme
di pensiero e di comportamento premoderne" (Alcaro). Ma se, come pare probabile,
si dovesse preseguire su tale linea, le speranze di invertire la rotta di una società
solcata da frantumazione, scollamento, preda della legge del più forte, verrebbero venificate.
Ebbene - scrive Mario Alcaro - come si può pensare che questo tipo di sviluppo possa
costituire la molla per una rigenerazione morale del Sud, per il superamento di interessi cinici ed egoistici di minoranze potenti o violenti [la criminalità organizzata,
ndr], per l'organizzazione di un'azione collettiva capace di superare storture e
prevaricazioni in nome di un interesse generalmente condiviso? .
Ecco un esempio tra i tanti possibili, calato nel vivo delle problematiche meridionali,
di cosa possa e debba significare autonomia. Che poi questa autonomia venga declinata
in modi diversi, privilegi le forme del pensiero e il momento politico piuttosto
che il tipo di cultura d'impresa da creare nel Sud; debba far perno sui municipi o
sul Mezzogiorno inteso come aggregato territoriale unitario, sono differenze che
attengono alle diverse sensibilità chiamate a confrontarsi. Ma non c'è dubbio che
da Barcellona a Leone, da Alcaro a Goffredo, da Cassano a Amoroso, la Questione meridionale in
epoca di globalizzazione significa valorizzazione delle risorse endogene, legame
con la tradizione e affrancamento dai modelli culturali e di sviluppo codificati
dall'Occidente capitalistico..