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Cecità come stile
di vita
A Ezio Galiano
Carissimo Professore,
l'ho vista l'8 febbraio a TV 7, su
Rai Uno, nel servizio a cura di Mario Foglietti a proposito della Fondazione
che porta il suo nome: e le assicuro che, da quelle immagini, da quelle
parole, ho avuto ed avrò, nel ricordo, non poco da imparare. Già
il contesto, gli altri reportages, stimolavano in tal senso. Poi è
arrivato il turno del filosofo catanzarese, cieco dall'età di 18
anni, che ha realizzato l'obiettivo della sua vita, la Fondazione "Ezio
Galiano" appunto. E adesso si alza alle tre del mattino, amministra i suoi
74 anni ed un patrimonio di moralità e di libri per non-vedenti;
e naviga in Internet, nella realtà quotidiana, nei giornali, ritrovando
tuttavia nei sogni i colori della mia infanzia, della mia adolescenza,
gli azzurri... . E non è tutto: giacché, se è da 56
anni che questo cieco non modifica punto il rito della cravatta davanti
allo specchio, sono altrettanti anni che il ragazzo diciottenne non smette
di rivedersi nelle immagini di quel mondo lontano comunque vicino, vicinissimo.
Di qui, forse, la ragione di una progettualità in qualche modo senza
tempo, ed il dilatarsi della prospettiva ben oltre la "normalità"
del ciclo vitale. Come se, in altri termini, nonostante la carriera e a
dispetto dell'essere andato in pensione (come professore, come preside),
i suoi 18 anni le consentissero di superare le barriere della condizione
individuale lesa; e la facessero socializzare invece, per le vie sperimentali
dell'informatica (tra sintesi vocale e display braille), non solo con i
colleghi magistrati, docenti ecc. che usano il mezzo, ma pure con i giovani,
con gli scolari che aspirano ad usarlo, in Italia e fuori d'Italia.
Ecco perché i programmi, che
lei viene realizzando con il suo computer, quotidianamente, sembrano infrangere
le regole di un itinerario biologico e culturale prestabilito; e paiono
al contrario attingere al non prevedibile, perché in precedenza
mai visto. Di qui il senso della massima regala un libro ad un cieco ,
ovvero diamo un computer a ciascun non-vedente a scuola . Di qui il valore
dell' edicola , della rassegna stampa , del giornale in classe , e dunque
l'arditezza dell'idea di mettere visivamente al corrente del grande cinema
internazionale anche i ciechi. Ma proprio qui sta il punto critico, e -
se vogliamo - il paradosso: che, vedendo la cecità, lei finisce
col guardare più lontano dei non-ciechi. Probabilmente è
per questo che, alla fine del servizio televisivo, ha citato Borges: La
cecità è uno degli stili di vita degli uomini . Ciechi o
non ciechi che siano. Ed aggiungerei, a maggior ragione se non-ciechi,
tra l' "essere" e il "dover essere": ché la sua storia, Professore,
al punto a cui è arrivata, fa venire in mente la vicenda di un recente
romanzo di José Saramago, Cecità (nella bella traduzione
di Rita Desti, Torino, Einaudi, 1996). Dove c'è una Città
qualunque, di un Paese qualunque. E c'è un uomo che perde misteriosamente
la vista. Né si tratta di un caso isolato: tutta la Città,
anzi, tutto il Paese, ne verranno via via contaminati; e ciò che
seguirà sarà una disperata violenza per sopraffare, per sopravvivere.
Una donna, tuttavia, rimane miracolosamente immune: ed è la moglie
del protagonista, che si finge cieca, per poter rimanere accanto al marito.
Il gesto, è solo un gesto d'amore individuale: però finisce
con l'essere assai di più: e cioè la possibilità di
ridare agli uomini, a ciascun uomo, una speranza collettiva. E il senso
della sproporzione delle proprie azioni.
Paradossalmente, così facendo,
è proprio il mondo delle ombre, la cecità, a rivelare molte
cose a chi credeva di vedere tutto, ma non vedeva gran che...
Affettuosamente grazie, il suo
Nicola Siciliani De Cumis
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