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"Telesubito" da Cesare Zavattini a Zhang Yimou

di Nicola Siciliani de Cumis



Ad Arturo Zavattini
Roma

Gentile Amico,
continuo a ragionare sul nostro Za, ancora nei modi in cui se ne conversava tra noi a margine del Seminario Zavattini questo sconosciuto (a cura di Orio Caldiron, Roma, "La Sapienza", 8 novembre 1999/31 gennaio 2000). E, riparlandogliene ora dalla Calabria, mi riviene in mente ciò che proprio Cesare Zavattini faceva notare a Don Giovanni Rossi il 5 maggio 1956, a proposito dell'impermeabilità umana alle "sostanziali indicazioni sociali di Cristo". Ecco, sottolineava religiosamente il laicissimo Za: "Cristo è tradito dalle stelle del mattino alle stelle della sera, come diceva quell'operaio o contadino calabrese per indicare il tempo del suo lavoro"... E mi pare di averle riferito che la poeticissima battuta sulle "stelle" (i "stiddi") mattutine e serali risale a Rosina Lupìa di Belcastro: un personaggio quasi leggendario delle lotte contadine del secondo dopoguerra in provincia di Catanzaro. Rosina, una donna famosa per la bellezza virginea, la forza del carattere e l'istintiva cultura politico-sindacale attinta per via di intelligenza e di buon senso, benché analfabeta...
Continuo a riflettere su queste cose, convinto come sono che Zavattini, oggi, è anche lui tradito dalle stelle della mattina alla stelle della sera, quando si dice: "però questo film-verità, questo progetto, questa trovata, questo programma in TV, questi bambini che fanno gli spot, questi altri che fanno il telegiornale, che usano la telecamera, la macchina fotografica, il registratore ecc. ecc., questi bambini, li ha inventati Zavattini". Macché Zavattini! Zavattini, a dieci anni dalla morte, rimane tuttora al di là delle sue stesse intuizioni, realizzate solo nella facciata. Talvolta, è vero, ci imbattiamo in idee originalmente sue, e che ora sembrano appartenere a tutti; ma non ci fidiamo. E' solo la superficie della realistica utopia zavattiniana; tutt'altro che la sostanza, che rimane da scoprire, da tradurre, da ricreare per mantenerne il vigore radicalmente innovativo. Nei soggetti, nei film-inchiesta, nei "pedinamenti", nelle confessioni individuali-collettive, nelle trasmissioni via etere per/con i bambini, nei rapporti con gli "altri" insomma, Zavattini ha attuato e ha tentato di far attuare propositi rivoluzionari. E non è casuale che i suoi progetti antipedagogici, dirompenti per l'epoca, siano rimasti una quantità di volte nel cassetto dei burocrati. Fuori dalla portata della gente, naturale destinataria.
A proposito. Non so se ha avuto modo di vedere l'ultimo film di Zhang Yimou, Yi Ge Dou Bu Neng Schao/Non uno di meno (1999, Leone d'oro a Venezia): un'opera molto complessa ed insieme assai semplice (un po' alla maniera di Ladri di biciclette, del resto esplicitamente citato da Yimou), che unendo poesia e prosa, mescolando cronaca e favola, tratta anch'essa di adulti e bambini (e del relativo rovesciamento dei ruoli). Immediatamente, è una storia di istruzione elementare e di abbandono dell'infanzia, una storia di relazioni possibili tra arretratezza contadina e sviluppo cittadino, una storia di caparbietà individuale e di scelte sociali controcorrente. E il risultato è, di primo acchito, un film che con lungimiranza autocritica, un pizzico di furbizia ideologica e uno stile all'altezza del compito, mostra molte delle contraddizioni non della Cina soltanto, ma dell'intero pianeta Terra nell'età della "globalizzazione". Zavattinianamente parlando, poi, Non uno di meno è proprio una concreta esemplificazione della essenziale categoria mentale e morale del "subito" zavattiniano e della conseguente sua applicazione tecnica come "telesubito"; ed è, dunque, la messa in scena della sproporzione radicale esistente nei rapporti tra gli uomini, tra l'essere e il dover essere di ciascuno nella concretezza della situazione. Insomma: un accattivante trattatello di didattica e di autodidattica, in tema di anticonformismo sia nell'insegnamento della maestrina, che nell'uso del potere; ed in tema di opposizione alle miopie burocratiche e di apertura all'uso pubblico, politico-educativo, degli strumenti di comunicazione di massa, per la risoluzione di problemi, tra responsabilità individuali e scelte collettive.
Certo, la storia della tredicenne che ha il compito di supplire per un mese il maestro assente, dovendo in particolare badare a che, qui ed ora, nemmeno uno soltanto dei piccoli allievi lasci la scuola, non è una storia di quelle che - come si dice - "bucano lo schermo". Sennonché è proprio a questo livello del discorso che io ritrovo lo Zavattini oppositivo, dialettico, che ho conosciuto; e lo Zavattini "sconosciuto" del nostro Seminario romano. E se nel finale dei film di Yimou è proprio lo schermo, la televisione, ad avere una parte da comprimaria nel recupero dello scolaretto in fuga e nell'additare a voce alta l'emarginazione del villaggio, è come se Zavattini medesimo ci aiutasse a capire il perché di certe reazioni "volgari" odierne dello spettatore nostrano medio, assuefatto com'è alla TV-spazzatura (decisamente anti-zavattiniana: anche e soprattutto, si direbbe, quando recupera surrettiziamente le intuizioni di Za). Commenti del tipo: "Ma questa idea della ragazzina [di riportare a scuola il piccolo fuggitivo] è proprio una fissazione!..." - "Che noia la storia, ma il film durerà ancora molto?" - "E che ce ne importa a noi, se lo trova o non lo trova [il bambino]!" - "E questi che cosa sono, panini? E guarda, come mangiano gli spaghetti, i cinesi!... Però bevono pure loro la Coca Cola [sì, con la bocca, anche loro]" - "Come sono bassi! guarda un po' che vestito! e usano la forchetta?! quante automobili in Cina..." - "Che faccia di figlio di puttana, però, il ragazzino!" - "Ma quando finisce 'sto film!?".
Probabilmente, per i molti che hanno visto Non uno di meno semplicemente con gli occhi, non con la testa, il film non ha ancora avuto inizio! In questo senso, caro Arturo Zavattini, c'è molto da fare. E non solo su Zhang Yimou e su Za: affinché non siano traditi, traditi tutti e due, dalle stelle della mattina a quelle della sera.
Un caro saluto, dal suo

Nicola Siciliani de Cumis



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