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Riprendiamoci l'ozio

di Elisabetta Della Corte


L'ozio rinnegato dalla societa' capitalistica si impone con tutta la sua evidenza da quando le macchine, prima, e le nuove tecnologie, poi, hanno liberato l'uomo dal lavoro necessario..."ma la macchina non e' stata inventata per abolire il lavoro?" Era questa la tenaglia che avrebbe spezzato i vincoli della schiavitu' operaia, quando il lavoro salariato prevedeva orari capestro e condizioni di vita umilianti.
Le nuove tecnologie, le macchine informatiche, le macchine robot, quelle che funzionano da sole hanno realmente liberato l'uomo dal lavoro necessario e ripetitivo ma non dalla dipendenza psicologica dal labor, laddove non e' la laboriosita' intesa come creativita', ma l'esclusione da un mondo impostato sul valore etico della produttivita'.
Cosa fare se un numero consistente di cittadini e' relegato nella zona d'ombra dell'ozio, quello spazio del non fare svalutato-svuotato che in una falsa rappresentazione e' identificato come noia e perdita di identità sociale?
L'ozio e' il padre dei vizi, mi piace pensare che questa massima possa cedere il posto ad un'idea di ozio, come spazio lussuoso dell'esistenza, tempo da dedicare alla realizzazione di se', al compimento dell'opera individuale.
A Vietri sul mare, un paesino della costiera amalfitana, abitava un anziano signore soprannominato "la fatica passa e io mi arraso" (ndr. la fatica passa e io mi scanso), l'uomo aveva conquistato il suo statuto di scansafatiche evitando il lavoro produttivo, permettendosi il lusso di rifiutare il posto "fisso".
La sua giornata di vita era riempita da lunghe chiacchierate con gli amici in piazza, e solo verso sera si chiudeva in uno scantinato per lavorare-giocare con la creta. Li' coltivava la sua passione quella di far nascere piccole sagome di creta: i pastori. La sua vita era li' compiuta.
E' il recupero del tempo liberato e la negazione della fatalita' che accompagna l'idea di progresso produttivo. Giacche' c'e', e' giocoforza assecondarlo. Ed e' la prova di come lavoro e reddito non debbano essere due alibi per sottrarsi a una vita altra: il reddito puo', cioe', diventare indipendente non dal lavoro in se', ma dalla durata e dalle modalita' del lavoro (Gorz).

L'accidia del sud
Il mare vero quindi, non e' l'ozio ma l'accidia intesa come pigrizia, incapacita' di porre e realizzare obiettivi. Che non e' solo luogo dello spazio geografico, del terzomondismo, ma anche luogo dell'anima, quasi un sintomo di depressione. Non a caso, i luoghi geografici accidiosi sono indicati come zone depresse. Anche il Sud soffre di bassa pressione: sara' il caldo? Il quesito e' scottante, perche' s'alza la temperatura del luogo comune. La storia del Sud, impelagata nell'ultimo quarto di secolo, nei vessilli delle crociate riadattate al Vangelo delle politiche demagogiche (e cristiane), e' intrisa di un'attesa verso uno Stato buono e munifico che ha fornito l'alibi per adagiarsi in un'accidiosa esistenza.
C'e' da ricordare che per Tommaso d'Aquino l'accidia e' un vizio capitale. L'uomo accidioso e' solo capace di elaborare critiche sull'esistente ma il suo sforzo si limita a questo divagare verbosamente lontano dall'idea di agire. Un accidioso raffinato e' il principe Tommasi di Lampedusa, che teorizza sull'inutilitˆ del cambiamento, perche' tutto rimanga identico a se stesso.
Se c'e' un abitudine comportamentale da dismettere come un abito logoro e' l'accidia del sud. Un vaso ricolmo di bolle di sapone, che, ingerito, porta al traboccare del nulla, come un pieno d'aria, fino all'asfissia, al su-accidio, ad un suicidio del nulla. Alla completa assenza di progettualita'.
Otium e', invece, un otre di capacita' che produce beni intellettivi, creativita', idee, merce non ancora ben definita, ben quantizzata, non remunerata, sebbene remunerabile e, quindi, produttiva, perche' fuori dalle logiche del mercato del lavoro inteso come industria, braccia, fatica, materia organica, sudore. Le idee sono un tipico prodotto(oh, pardon, se mi si passa il termine capitalistico, beneinteso) dell'otium, perche' non si sostanziano in certi sintomi tipici dell'affezione al lavoro fisico: l'inaridimento dei rapporti umani, la menomata capacitˆ di ragionare, l'ossessiva aderenza agli orari e agli scatti della contingenza, laddove diventa, invece, contingente l'esistere e infungibile il lavoro.
Beninteso, non si tratta dell'idea di lavoro come sopravvivenza economica, ma di una scelta che, in nome di un diktat, diventa obbligata.
L'otiume' inoltre un antibiotico potentissimo per combattere cio' che Serge Latouche ha indicato come la perdita della padronanza del proprio destino, da parte delle collettivita' dei cittadini, sul profitto della crescita iperbolica di un'amministrazione tecnocratica e burocratica. Cos'e' la burocrazia se non l'esempio tipico dell'accidia laddove le idee rappresentano l'otium?
Oziamo quindi, per riappropriarci de nostro tempo, quello della vita sociale, delle discussioni in piazza, del tempo dedicato a se' e agli altri.
Otium sine litteris mors est - Seneca

Bibliografia di riferimento Guy Aznar, Lavorare meno lavorare tutti, Bollati Boringhieri,1994.
Andre' Gorz, Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri, 1992.
Jonathan Gershuny, L'innovazione sociale, RubbettinoEditore, 1993.
Serge Latouche, La megamacchina, Bollati Boringhieri, 1995.
Jacques Ellul, La technique ou l'Enieu du siecle, Economica, Paris, 1990.
Alain Tourain, Critica alla modernita', il Saggiatore, 1993.
Bertrand Russel, Elogio dell'ozio.Longanesi, 1978.



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