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LETTERA SETTENTRIONALE

(sull'emigrazione che non c'è, ma anche su quella che c'è)


Pisa, 24 gennaio 2001
Caro Giovanni,
avevo scritto questa lettera già da molto tempo, ma poi non so perché avevo deciso di non spedirtela. Mi sembrava di dirti le solite cose, e che quindi non ci fosse bisogno di ripeterle ancora una volta. È successo, però, che la ragione per cui avevo deciso di scriverti allora si è ripresentata, e più di una volta. Sicuramente avrai sentito le solite polemiche sui meridionali che non accettano più di spostarsi al Nord per lavorare. Qualche tempo fa, persino il "principe dei giornalisti italiani" ha avuto bisogno di scrivere, per spiegare i mali del meridione d'Italia, che "mentre cinquant'anni fa i disoccupati del Sud non esitavano a trasferirsi al Nord, come i loro nonni e bisnonni non avevano esitato a varcare gli Oceani, i loro nipoti e pronipoti pretendono che il lavoro gli sia portato a domicilio". La stessa cosa l'aveva scritta anche un altro personaggio famoso, uno di quei professoroni che sanno sempre cosa gli altri devono fare. L'articolo di questo professorone si intitolava così: "Ora emigrano i migliori, restano i pigri". Il succo di quell'articolo sta tutto nel titolo. Secondo l'eccellente conoscitore del popolo italico (e non lo dico per scherzo, perché un tempo faceva l'ambasciatore e quindi rappresentava tutti - anche noi - presso altri popoli), i figli degli emigranti d'un tempo sono diventati tutti degli "assistiti". Ecco le sue precise parole: "Le previdenze dello stato assistenziale scoraggiano, di fatto, chiunque abbia voglia di rompere il cerchio delle abitudini familiari per cercare fortuna. La casa popolare, la somma delle pensioni percepite dal gruppo familiare e la prospettiva di un'assunzione clientelare con l'aiuto del deputato o del parroco hanno trasformato l'Italia in un Paese "immobile"".
Ma nel discorso di Sergio Romano (così si chiama il nostro professore) non era poi tutto così pessimistico. Per fortuna, infatti, ci sono i "migliori", un'altra emigrazione che mantiene alto l'onore della Patria: "Chiunque abbia frequenti occasioni di viaggiare - egli continuava - sa che vi è una nuova diaspora italiana composta da professori, ricercatori, scienziati, tecnici, dirigenti d'azienda, operatori finanziari. In questi anni il numero degli italiani nella City, a Wall Street e nelle università europee o americane è andato progressivamente aumentando".
La conclusione di questo discorso è che naturalmente c'è un bel contrasto, anzi un abisso, tra chi aspetta "che il lavoro bussi alla porta della sua casa" e questi grandi uomini, "persone ambiziose e relativamente giovani, che hanno fatto brillanti studi in Italia, si sono perfezionate all'estero, parlano inglese, non credono che le "radici", di cui discutono i sociologi e gli antropologi, siano un prezioso capitale culturale".
Ora, la prima cosa che viene da dire è che certa gente non è mai contenta. Si lamentano perché c'è chi non emigra; si lamentano quando arrivano emigranti (disperati) da altre parti del mondo. Ma non è su questo che voglio coglierli in fallo.
Nel discorso di Sergio Romano, per dire, l'unica cosa certa è di quale gruppo egli faccia parte, quando parla di due tipi di emigrazione italiana. Sicuramente egli non è figlio di quegli emigranti con la valigia di cartone che nella foto che accompagna il suo articolo guardano l'obiettivo intimoriti e silenziosi. Sicuramente nei suoi numerosi viaggi ha visitato solo la "City" e le gloriose università europee ed americane. Sicuramente non si è mai spinto fino alle periferie delle grandi città industriali della Francia e della Germania, dove negli anni Cinquanta e Sessanta mio padre e tuo padre hanno sgobbato perché non c'era altro modo di guadagnarsi da vivere, e dove ancora vivono i nostri parenti, i nostri amici, i figli dei nostri cugini, insomma tutti quelli che ancora oggi si stancano di un paese che non offre di che vivere e partono. Sicuramente egli ha conosciuto solo l'emigrazione dei "cosmopoliti": quei cari signori che possono vivere dovunque perché anche nella città in cui sono nati non sanno nemmeno chi è il loro vicino, e per i quali il successo nel lavoro costituisce l'unico motore dell'esistenza. Questi sono gli italiani che ha rappresentato all'estero Sergio Romano.
Ora, per smentire quello che Sergio Romano e il "principe" Indro Montanelli - e insieme a loro tutta una schiera di pensosi signori - affermano con tale leggerezza, basterebbe far preparare in comune l'elenco di tutti i giovani (e meno giovani) che negli ultimi anni hanno lasciato il nostro piccolo paese. Ma sarebbe troppo facile contestarli con i numeri; preferisco dir loro le cose che per noi sono importanti.
A questi criticoni dalla penna troppo facile, infatti, non è venuto nemmeno in mente che i figli degli emigranti di un tempo si sono semplicemente stancati di una vita che nonostante i sacrifici e gli sforzi non realizza nessuna delle promesse con cui ti invita a partire. E se anche le realizza, te le fa vivere nell'eterno rimpianto. Già, perché quelle radici che per loro sono sciocchezze di cui si occupano sociologi e antropologi, per noi sono ben vive e concrete, fatte di persone e di cose reali con cui vorremmo costruire la nostra breve esistenza. A loro non passa minimamente per la testa che se qualcuno ha rinunciato a partire, rifiutando un lavoro migliore, non è perché fosse assistito, ma perché i lavoretti saltuari e precari erano preferibili alla lontananza e ad un lavoro sicuro. E che dire di quelli che hanno sgobbato per tanto tempo lontani da casa e che sono riusciti a tornare aprendo un'attività, mettendosi in proprio, dando prova insomma di quella "imprenditorialità" (brutta parola!) la cui mancanza ci è rimproverata da tutti, e che magari, trovandosi in difficoltà, non hanno paura di dover ripartire? Non pensi che Sergio Romano e i suoi amici ci debbano almeno delle scuse? Io ne sono convinto, e se qualche volta mi capiterà di incontrarlo gliele chiederò per conto di tutti.
Ma cosa vuoi: la nostra bella classe dirigente è convinta che ci sia un bene superiore dello "Stato" a cui il benessere dei singoli debba essere sacrificato. Certo, il lavoro sicuro fa bene alle persone, anche se lontano da casa; ma perché non ci provano loro a vivere con un milione e mezzo di stipendio e ottocento mila lire d'affitto da pagare ogni mese? Fra l'altro, la cosa singolare è che tutti sono diventati paladini del lavoro flessibile, perché anche questo fa bene al sistema. La verità è che questi signori - che sanno benissimo cosa serve allo Stato, all'economia, al sistema - conoscono assai poco il vero "interesse" dei singoli, ridotti, come dice qualcuno, a individui "astratti", senza relazioni, senza legami, il cui unico scopo è quello di servire al benessere e al mantenimento dell'equilibrio generale.
Ora, a parte il non trascurabile fatto che questo benessere del sistema coincide con il benessere di precise persone, tra cui sicuramente stanno tutti coloro che Romano considera il fiore all'occhiello della nazione italiana, come possiamo accogliere questo discorso noi, che non conosciamo entità troppo astratte e siamo abituati ad avere a che fare con persone concrete che hanno una faccia, un nome, un cognome e un soprannome che ne racconta la storia?
Ma questo è un discorso troppo lungo, che i nostri dirigenti stenterebbero a capire davvero. Per loro conta che gli italiani siano vispi e ambiziosi e che sappiano parlare l'inglese, mentre noi, ai loro occhi, siamo troppo corrotti dalla vita dei nostri paesi.
Insomma, se lo vuoi proprio sapere, mi pare che il mondo si stia dividendo in due tipi di uomini, che difficilmente riusciranno a capirsi: i "Peter Camenzind" che tornano (o vorrebbero tornare) al loro paese, o che comunque, dovunque essi vivano, si inseriscono in un circolo preciso di relazioni con gli altri, e i "Sergio Romano" che vivono in una comunità degli eletti, che si muovono da un posto all'altro con la sensazione di essere sempre in contatto tra loro e con la convinzione incrollabile di rappresentare la schiuma buona dell'universo. Tu sei certamente un Peter Camenzind ed è per questo che ti preferisco a Sergio Romano.
Un abbraccio affettuoso, nella speranza di rivederci al più presto

Tommaso Greco
*Ricercatore di Filosofia del diritto presso L'Università di Pisa



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