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Come pensare la citta'?

di Paolo degli Espinosa


Ci sono tanti modi di pensare alla citta', che e' comunque il prodotto di una lunga vicenda storica, economica, sociale e culturale. Vediamola prima di tutto come terminale vivo di un ciclo di produzione. Alle sue spalle vi e' un'attivita' "primaria", agricola e di estrazione di minerali, attraverso la quale vengono coltivate o prelevate le risorse naturali, frutti e vegetali per alimenti e per i tessuti, pietre per le costruzioni, acqua, combustibili, minerali, etc.
In una seconda area di attivita', spesso al di fuori della citta' vera e propria, si svolge la cosiddetta produzione. In realta', poiche' "nulla si produce e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma", sarebbe meglio chiamarla "trasformazione". Di fatto, si conferiscono alle risorse naturali quegli assetti, caratteri, forme che le rendono utili alla vita umana: le risorse organiche diventano alimenti e tessuti, le pietre diventano mattoni e case, il legno diventa seggiola o carta, la sabbia si trasforma in vetro, il ferro in automobile, il petrolio in benzina.
La citta' abitata e' dunque una terza area, in cui entrano e vengono "consumati" questi beni, ottenuti con la trasformazione, producendo alla fine del ciclo una serie di scarti. Al ciclo dei consumi urbani, alimentati dalla produzione ed a loro volta produttori di scarti, partecipano persone che svolgono veri lavori e servizi, di tipo prevalentemente impiegatizio, funzionale, professionale, commerciale, artigianale, che ricevono salari e stipendi, con cui acquistano i beni e servizi sotto forma di merci.
Quando i beni vengono fruiti, perdono gli assetti, cioe' le informazioni ricevute, per cui, dopo l'impiego, vengono scartati e diventano rifiuti. Si compie cos una trasformazione uguale e contraria al conferimento delle informazioni durante il processo produttivo: dalla condizione caratterizzata dall'assetto conferito con la trasformazione industriale, si passa ad un'altra condizione, caratterizzata dalla perdita di quell'assetto, senza per recuperare lo stato naturale di partenza.
Si puo' quindi osservare fin d'ora una differenza rispetto ai cicli naturali, che sono sempre "chiusi", in quanto la materia disponibile alla fine di un ciclo e' utilizzata come inizio di un nuovo anello (cio' e' particolarmente visibile nelle catene tropiche). Quando entra in gioco l'artificialita' umana, i cicli diventano invece "aperti" e si hanno accumuli di rifiuti, cioe' materie che non esistevano in natura prima dell'azione umana. Da questo punto di vista, la citta' appare come il luogo in cui affluiscono beni utili e da cui escono gli scarti. Potrebbe essere proposto cosi' uno schema interpretativo materiale-ecologico della citta', mettendo in conto, anche tutte le energie ed i combustibili in ingresso e tutti i gas di combustione e le emissioni in uscita. In realta', la citta' corrisponde pienamente allo schema indicato ma e' anche molto di piu'.
E' stata definita infatti come il punto di arrivo ed il punto di partenza di tutte le forze umane, che non sono solo forze produttive.
Siamo ormai abituati ai paesaggi urbani, di pietra grigia o un po' colorata, separati dalla campagna, attraverso zone periferiche che non sono ne' citta' ne' campagna e presentano lo squallore di cio' che non ha identita' propria e che comunica, appunto, un sensazione di residualita'.
In tutto cio', l'elemento forte di questa epoca e' che stando in citta' non c'e' visibilita' della terra e dei cicli naturali, e si e' in contatto con le risorse naturali solo nella forma di prodotti industriali per l'impiego umano.
Vivendo in citta', sembra che l'artificialita' sia tutto, che tutto dipenda dall'uomo e non vi sia alcuna "propulsivit della natura" con cui fare i conti. Non e' stato sempre cosi'.
In epoca precapitalistica, come ricorda Braudel "citta' e campagne non si separano mai come l'acqua e l'olio; nel medesimo istante c'e' separazione e riavvicinamento, divisione e riunione; la citta' non ignora, non esclude la campagna, nonostante il taglio violento che le separa. Anzi essa sviluppa intorno a se' una agricoltura efficace e attivita' ortofrutticole. Alcuni canali che corrono lungo le vie cittadine si prolungano fino agli orti di oasi vicine [...]. Fino a tempi molto recenti, ogni citta' doveva avere il suo cibo alle sue stesse porte, a portata di mano [...]. Un centro di tremila abitanti [...] deve disporre di una decina di villaggi agricoli".
La regola, dunque, era il radicamento, il rapporto con la terra, con la sorgente del cibo. Per questo motivo, cioe' a causa dei limiti della produttivit agricola e della capacita' di trasporto, la citta' era e doveva essere piccola, come dimostrano tuttora i centri storici di centinaia di citta' italiane, che corrispondono quasi sempre, a popolazioni di poche migliaia di persone.
E' da sottolineare qui l'intervento della "propulsivita' della natura".
La rendita agricola, il sovrappiu' che veniva al proprietario del fondo, dopo aver dato da mangiare alle famiglie contadine, era infatti dovuto alla natura. La convenienza della gestione del fondo non dipendeva solo dall'appropriazione, in qualsiasi forma, del lavoro altrui, ma anche dal controllo della propulsivita' della natura, cioe' di quell'energia intelligente, di origine solare, che fa crescere le piante e che permette la riproduzione degli animali, compresi gli esseri umani. Dato che la terra puo' produrre piu' alimenti di quanti servono alla riproduzione dei suoi coltivatori, si creano le condizioni per il mantenimento dei non-contadini, cio degli abitanti della citta'. Questa era la situazione prima del capitalismo industriale. La scienza applicata, l'accumulazione, la produzione per il mercato, hanno poi cambiato completamente la situazione delle citta', in quantita' e qualita'.
Il fatto principale, da questo punto di vista, e' il rapporto tra mobilita' e concentrazione, in quanto il capitalismo muove e concentra cio' che prima era stabile e diffuso. Si concentrano le risorse produttive, cioe' trasformative delle risorse naturali in un punto, nel quale si ricavano prodotti, che poi vengono diffusi, irraggiati nella citta' abitata. Concentrazioni, trasformazione, mobilita'.
A sua volta una concentrazione di macchine produttive richiede la mobilita' e la concentrazione di una corrispondente mano d'opera nella zona della fabbrica, mentre le citta' diventano mercato per l'acquisto di merci, grazie alle conoscenze applicate che permettono l'impiego delle macchine, aumentano le risorse disponibili, la varieta' delle figure sociali e produttive, la consistenza numerica delle popolazioni. Al loro interno, in particolare, aumentano i ceti medi, cioe' le figure sociali con funzioni di tipo intellettuale-comunicativo, che potrebbero essere indicate come scribi, o moderni scribi.
In definitiva, l'epoca industriale, con tutti i suoi aspetti, compresi quelli di conflitto tra capitale e lavoro, e' caratterizzata da idee di artificialita' antropocentrica. Si puo' capire che la citta' che ne e' derivata, cioe' la citta' artificiale ed antropocentrica, abbia portato all'insostenibilita'. Infatti vi sono stati, insieme, un grande aumento dei prodotti e servizi industriali disponibili ed un grande distanziamento dai cicli naturali. Cio' ha corrisposto ad un ingrandimento fisico della citta', dato che erano ormai risolti i problemi di produzione alimentare anche a forte distanza, attraverso tecniche moderne di conservazione e trasporto. Ha corrisposto anche ad una emarginazione dei cicli naturali, attuata sia nei processi produttivi che corrispondevano alla valorizzazione del capitale, all'aumento delle merci ed anche alla diffusione dei consumi con i suoi vantaggi e svantaggi, sia nella vita concreta degli individui e nelle loro percezioni quotidiane, tanto che si e' arrivati, senza rifletterci sopra, a quel tipo di scambio, per cui nella citta' sono presenti molte automobili ma non e' piu' possibile immergersi nell'acqua dei fiumi.
Si pone ora il problema di recuperare sia l'integrita' dell'aria e dei corsi d'acqua, sia il diritto alle zone verdi urbane, nelle quali si gode di un certo grado di rapporto con la natura.
C'e' pero' un altro grosso problema da segnalare.
La natura, infatti, con il suo carattere di vincolo, svolgeva anche una funzione di regolatore delle abitudini e dei consumi. Caduto, almeno in apparenza, questo vincolo, e' caduta anche la sua funzione regolativa, che non potra' essere recuperata soltanto attraverso automobili pi pulite ed elettrodomestici piu' efficienti, che pure sono indispensabili.
Occorre qui mettere in evidenza il tema del valore culturale del rapporto tra la convivenza e la struttura del territorio, come elemento regolativo della socialita'. Cio' implica di ripensare alle abitudini di vita sul territorio, alle relazioni, all'impiego dei tempi.
Implica di ripensare al progetto sociale come vera e propria produzione di socialita', cioe' azione consapevole che oltre a produrre beni e servizi produca relazioni e significati, sia tra i diversi individui che abitano su uno stesso territorio, sia con la natura.



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