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Creatività e vitalità della letteratura meridionale

di Giulio Ferroni


Nella situazione attuale della cultura letteraria e artistica, in mezzo ai processi di globalizzazione entro cui vengono catturate e si sviluppano gran parte delle esperienze culturali, il Sud sembra dotato di una residua creatività e vitalità, sembra poter estrarre dalle sue stesse contraddizioni nuove più vitali occasioni di conoscenza, nuove forme di rapporto con la realtà, proiezioni, invenzioni, punti di vista che escono dall'immagine troppo statica, convenzionale, vittimistica che del Meridione e della sua cultura si è cristallizzata lungo la seconda metà del Novecento e che continua, in un modo o nell'altro, ad essere diffusa dai media e dall'opinione corrente (spesso tra gli stessi meridionali). Non si tratta certo dell'avvento di una realtà esaltante e felice, giunta trionfalmente ad annullare le proprie contraddizioni; ma è vero che, di fronte alle nuove contraddizioni che sono andate ponendosi negli ultimi anni (non meno laceranti di quelle già in atto), sembra darsi un nuovo modo di viverle, di comprenderle e di interrogarle, una diversa capacità di afferrarne il senso, di metterle in gioco: con una spinta dinamica che trova manifestazioni molto meno standardizzate, meno artificiose ed esteriori, meno preconfezionate, di quelle date dalla cultura del resto d'Italia.
A guardare le cose dal punto di vista, per molti versi ancora indeterminato e provvisorio, della letteratura, si ha l'impressione che tra gli scrittori meridionali, più o meno giovani, ci sia una disponibilità a fare, a scommettere e a mettersi in gioco, insomma uno scatto "creativo", da cui potrà scaturire in un tempo più o meno prossimo (o da cui è già scaturita, senza che ancora ce ne siamo accorti) qualche opera determinante, qualche libro di quelli che sanno metterci davanti al colore e al senso del tempo che viviamo, estrarne il significato profondo (quel significato che senza quel libro non riesce a vedere e a capire). Sembra che in effetti si stia sviluppando una letteratura meridionale "urbana", che sfugge in gran parte ai clichés meridionalistici e neorealistici, che vuole aggredire il presente con una spregiudicata capacità di invenzione, che non si limita ad appoggiarsi ai padri, ma si fa strada per conto proprio, senza volersi marginale e particolaristica. Negli atteggiamenti di questa letteratura il Sud è il mondo presente nella sua interezza, è luogo in cui più direttamente si percepisce lo stato lacerato e confuso della globalizzazione, il contrasto acuto ed esplosivo tra l'artificializzazione e virtualizzazione della vita individuale e collettiva da una parte e dall'altra il moltiplicarsi di lacerazioni materiali, di residui e di scarti incontrollabili e micidiali: l'esposizione geografica verso il Sud del mondo apre lo sguardo (anche dal punto di vista linguistico e stilistico) in modo meno cauto e difeso di quanto non faccia la letteratura del resto d'Italia verso la vitalità di tutto quell'universo immaginario, simbolico, sociale, esistenziale che preme alle porte della cultura occidentale, delle sue tradizioni e delle sue derive. E se nel Novecento la letteratura siciliana ha saputo fare della Sicilia e delle sue contraddizioni una vera e propria "metafora del mondo", nel XXI secolo sembra proprio annunciarsi la possibilità che la letteratura meridionale, nel suo insieme, sappia fare del proprio mondo una metafora delle nuove derive in atto, dei contrasti inevitabili che il Sud del mondo porrà alle società sviluppate, sempre più chiuse nel circolo cieco tra produzione e consumo, sempre più incapaci di percepire i propri limiti e le proprie falle.
Rispetto a questo possibile orizzonte e alle esperienze che da esso possono scaturire, appare certamente incongruo il titolo che è stato dato all'antologia che raccoglie una serie di racconti di "giovani" autori meridionali, Disertori. Sud: racconti della frontiera, Einaudi "Tascabili Stile libero", 2000, a cura di Giovanna De Angelis. Si tratta di un titolo un po' ad effetto: non è del resto chiaro da che cosa costoro disertino, anche se la curatrice sembra voler spiegare che si tratta di una diserzione dalla vecchia immagine del Meridione, dal moralismo, dall'impegno, da certo troppo convenzionale realismo, ecc. Testi vari ed ineguali, che nei casi migliori non disertano certo la realtà e il linguaggio, ma che talvolta sembrano volersi chiudere in una registrazione troppo corriva del vuoto presente, della mancanza di prospettive, del grigio nulla della vita individuale e sociale: rischiando allora una "diserzione" da quella ricerca dell'"altro", da quella spinta a cercare un mondo diverso (pur partendo da mondi del tutto particolari e specifici) che sempre anima la letteratura che conta. Sono scrittori senza veri maestri, che di preferenza guardano ad un Sud degradato e segnato da una violenza priva di orizzonti, che si sottrae però al tragico, che si registra per quello che è, che non cerca nessuna radicale alternativa, che talvolta si compiace di sé fino a sfiorare il melodrammatico. Specie nelle rappresentazioni del sottomondo napoletano si rischia di approdare ad una perversa combinazione tra Pier Vittorio Tondelli (il troppo sacralizzato modello di tanto postmoderno giovanile) e Mario Merola...: e mi pare che mai si raggiunga quella carica deformante e bizzarra, quella stravolta controepica infernale che ha saputo toccare uno dei migliori narratori della nuova generazione "napoletana", Giuseppe Montesano, che non è presente nell'antologia. Il romanzo di Montesano apparso nel 1999 Nel corpo di Napoli (Mondadori) costituisce in effetti una delle prove più essenziali della nuova vitalità della narrativa meridionale: vera e propria discesa agli inferi, in un sottosuolo napoletano metaforico e reale, abitato da personaggi bislacchi, voraci e violenti, da distruttive megalomanie e da pedestri volgarità, di cui l'impasto linguistico segue le più varie sfumature. Vi si svolgono, tra le viscere surreali e pullulanti della città, le avventure di un gruppo di scioperati giovani piccolo borghesi, ubriachi di cultura "negativa", tra Sade, Nietzsche e Rimbaud, che sovrappongono, con esiti grotteschi, i miti di quella cultura, l'aspirazione ad afferrare la "vita" in tutta la sua energia, allo slabbrato carnevale napoletano, al teatro popolare, criminale e apocalittico, al mondo alla rovescia che vi si mette continuamente in scena.
Se la cifra di Montesano è quella di uno scatenato grottesco, il meglio di questi Disertori (a parte la tensione tragica del siciliano Giuseppe Calaciura e il singolare pastiche dialettale- gnostico di Davide Morganti) è dato dal gioco comico- ironico del lucano Gaetano Cappelli e del pugliese Livio Romano e soprattutto dall'imbambolata voce collettiva dei giovani casertani di Francesco Piccolo, che attraversa incongruenze, assurdità, insensatezze di un orizzonte sociale chiuso su se stesso, che rinuncia a trarre da sé qualsiasi significato, qualsiasi possibilità di interpretazione. E in effetti nel rifiuto di ogni interpretazione, di ogni prospettiva sul mondo rappresentato, può essere vista la cifra che unifica questi scrittori, questi involontari "disertori": è ciò in fondo li accomuna ai loro coetanei del Centro e del Nord. È certo però che quella nuova vitalità di cui si diceva all'inizio e di cui pure questi testi sono in parte documento potrà dar luogo a risultati veramente essenziali, farsi davvero "metafora" delle contraddizioni del nostro mondo globalizzato, solo se riuscirà a trovare una prospettiva, a cercare una più ambiziosa volontà di costruzione, a sottrarsi a quel senso di vuoto e di indifferenza, che qui spesso si impone in modo troppo programmatico, non sembra ancora trovare un'adeguata forza di invenzione, una spregiudicata libertà di scrittura.



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