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Rozzezza di forma ed accenti di alto lirismo nella poesia di Tommaso Campanella

di Franchino Gallo



Nella ricorrenza dell'anniversario della rivolta organizzata da Campanella in Calabria nell'estate del 1599 per l'istituzione di una Repubblica autonoma e solidale.


Per la verità, il frate domenicano è conosciuto più come filosofo ed eretico che come poeta, ma non è azzardato affermare che egli è tuttavia filosofo nelle sue poesie ed è altrettanto poeta almeno in alcune delle sue opere filosofiche.
In effetti, le poesie di Campanella, rimaste inedite per secoli, sono state portate alla luce in epoca recente e pubblicate, purtroppo, soltanto in parte.
La critica ufficiale, alla cui attenzione si è subito imposta la lirica di Frà Tommaso, è concorde nel giudicarla positivamente e nel classificarla tra il genere satirico, forse per quel tono velenoso, che si riscontra nei versi. Però appare chiaro che quella di Campanella, più che satira, è disperazione, pessimismo, sdegno violento: tutti elementi caratteriali della gente di Calabria. Egli deve essere considerato un calabrese autentico, non solo perché nacque a Stilo, quanto perché - ed è il fatto più importante - portava nel cuore l'aspra amarezza e l'indole fiera delle popolazioni di queste terre.
Tale fierezza repressa, mortificata, ma non doma nella maggior parte dei calabresi, esplodeva in Tommaso Campanella in un impeto di rivolta che si esprimeva con particolare veemenza nelle sue prediche e nei suoi scritti, come nei seguenti versi:

Se torni in terra, armato vieni, Signore,
ch'altre croci apparecchianti i nimici,
non Turchi, non Giudei: quei del tuo regno.

Evidentemente Campanella riteneva che i veri nemici dai quali Gesù Cristo deve difendersi, addirittura con le armi, non sono i tradizionali oppositori, seguaci di altre religioni; ma quelli che abitano nel suo stesso regno, cioè quelli che soltanto a parole si professano cristiani. Fino a qualche lustro fa, probabilmente Frà Tommaso li avrebbe meglio chiamati "democristiani".
Ed ancora, in un altro saggio di poesia contro l'infamia dei furbi, Campanella manifesta la propria personalità austera e la propria vocazione di moralizzatore dei costumi. Egli si sente investito, dalla dea della giustizia (Temi), della missione di porre rimedio all'iniquità che governa il mondo e scrive:

Io nacqui a debellar tre mali estremi,
tirannide, sofismi, ipocrisia:
ond'or m'accorgo con quanta armonia,
possanza, senno, amor m'insegnò Temi.
Questi principi son veri e supremi
della scoperta gran filosofia,
rimedio contro la trina bugia
sotto cui tu piangendo, o mondo, fremi.

Ma l'opera pur scritta in prosa, nella quale si possono riscontrare toni di poesia è senza dubbio La città del sole. Un trattato socio-politico con il quale Campanella delinea una società ideale in uno Stato ideale, dove gli uomini sono giusti ed eguali. L'autore trae spunto dalle condizioni tristi della sua Calabria. Il malcontento, le nequizie sociali, inasprite dalle calamità naturali, le angherie dei potenti, le superstizioni: un ambiente, insomma, cupo e tormentato, nel quale frà Tommaso getta il seme della ribellione con i suoi trascinanti discorsi e con la sua azione, raccogliendo molti proseliti ad una congiura, che viene repressa nel 1599.
Nasce così, intessuto di vibrato lirismo, il disegno programmatico di una repubblica dove tutti lavorano in armonia, dove non esiste proprietà privata, dove tutti vivono felici in comune e nella più assoluta eguaglianza.
Un tale programma, non sempre interpretato in modo uniforme, è valso a far considerare Campanella un sognatore, ma anche, a buon diritto, il precursore di una società comunistica e naturalistica.
Tommaso Campanella moriva in esilio, povero e perseguitato; con lui, secondo Luigi Firpo, si spegneva l'ultima grande voce del Rinascimento e cominciava per l'Italia il lungo silenzio.



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