Forse in Calabria non se ne sono accorti in molti, ma da un paio d'anni in Italia sta succedendo una cosa strana: la tarantella è diventata di moda! A Roma, Bologna, Milano, i centri sociali che prima programmavano hip-hop e ragamuffin ora organizzano concerti di pizzica nei quali i tamburelli sostituiscono il sound-system e centinaia di giovani si scatenano nel ballo. Le feste tradizionali della Puglia, come quella di Torrepaduli, e del Meridione in genere, vengono invase da schiere di appassionati e trasformate in una sorta di rave-party (non senza un effetto distorsivo anche pesante sulla natura della festa stessa); scuole di tarantella nascono nelle grandi città e anche a Caulonia, nell'ultima edizione del festival "Tarantella Power" (oltre cento paganti - di cui solo dieci calabresi - si sono iscritti ai corsi di danza tradizionale, tamburello, organetto, etc.).
Per questo fenomeno è stato coniato un termine forse improbabile, neotarantismo, ma che vuole indicare la tendenza tutta urbana a ricercare nella musica e nella danza tradizionale del Sud una moderna e attuale forma di socialità e di comunicazione in cui l'elemento centrale sia il gesto corporeo liberatorio, l'estasi, l'alterazione dionisiaca degli stati di coscienza.
Da questo punto di vista l'uso della musica popolare da parte di questo nuovo pubblico arriva quasi a rovesciarne il senso che essa aveva e ha all'interno della cultura tradizionale, in cui la parte creativa, tanto nella danza quanto nella musica, era/è sempre organizzata all'interno di un codice linguistico ben preciso, formalizzato; nel caso della pizzica, poi, essa rappresentava sì la liberazione da uno stato psicofisico di sofferenza, ma per rientrare in un ordine sociale e culturale che a quella sofferenza dava origine, nonché le forme della sua espressione e contenimento.
Per fare il punto sulle diverse implicazioni e possibili letture correlate alla scoperta della danza e dei ritmi pugliesi in primo luogo, ma anche campani e calabresi, da parte di questa ampia e nuova fascia di pubblico, si è svolto nei giorni 3 e 4 febbraio a Roma l'interessante convegno promosso da Tarantularubra, vivace trasmissione di musica etnica di Radio Onda Rossa, e DFV produzioni discografiche. La prima giornata ha visto un dibattito con la presenza di George Lapassade, grande studioso della trance, Piero Fumarola, Roberto De Angelis, Sandro Portelli, Vincenzo Santoro, Antonello Ricci, Giorgio Di Lecce, Eugenio Bennato, e Anna Nacci organizzatrice dell'incontro. Nella seconda giornata è stato proiettato il film "Pizzicata" di E. Winspeare (peccato per la mancata visione di "Chi ruba le donne" di P. Sciarra) cui è seguita una kermesse musicale con Arakne Mediterranea, Radicanto, Eugenio Bennato e i Cantori di Carpino.
L'organizzazione e il programma della due-giorni davano di per sé un taglio a tutto l'evento: non una discussione socio-antropologica, ma un tentativo di "stare dentro" questo movimento giudicato non solo interessante, ma implicitamente positivo.
Alcuni degli artisti invitati, infatti, sono tra i protagonisti dell'attuale tendenza alla quale, sia pure da angolazioni e con intenzioni diverse, hanno insieme ad altri contribuito. Lo stesso George Lapassade, nel suo intervento, ha citato alcuni esperimenti di techno-trance, come l'incontro tra un gruppo di musicisti gnawa del Marocco e il dj Cirillo in una famosa discoteca di Rimini, ma anche il tarantamuffin nato tra i Sud Sound System e gli Ucci, ultimi portatori della tradizione salentina, oppure i Marsilia Sound System con i tamburellatori di Torre Paduli. In queste esperienze, come negli interventi di Piero Fumarola (Università di Lecce), c'era una partecipata attenzione verso la modernità delle forme in cui si manifesta oggi la ricerca della trance o di qualcosa che la evochi, del potenziale vitale espresso negli stati alterati di coscienza di cui la musica costituisce il catalizzatore, ormai oltre la finalità terapeutica e la funzione esercitata nel rito tradizionale. L'abbandonarsi al ritmo iterativo e circolare delle terzine in un rapporto ricercato con i movimenti della tradizione costituisce la fonte di un benessere, la cui dimensione collettiva ne amplifica il godimento.
In questo forse si può delineare una prima differenza tra tarantismo e neotarantismo: nel giudizio sociale che li accompagna, a partire dal senso di vergogna e di disagio che viveva l'ammalata, sino al senso di orgoglio e di appartenenza che invece accompagna i giovani danzatori frequentatori delle feste e dei concerti.
Ma probabilmente già nel tarantismo erano presenti degli elementi che potevano portare, sia pure arditamente, a questa evoluzione, se si accoglie l'interpretazione di Gilbert Rouget che più che ad un esorcismo (espulsione di un demone fuori da sé) pensa ad un adorcismo, cioè ad un rito di riconciliazione con lo spirito (in questo caso con l'animale) che abita il posseduto, cui la terapia musicale dava le modalità e l'occasione per una identificazione.
E' interessante quindi osservare il fiorire di associazioni culturali, produzioni editoriali, progetti musicali legati al nome e all'immagine della taranta: laddove il ragno avrebbe potuto rappresentare l'elemento scabroso, oscuro, angoscioso, e la tarantella oppositivamente il momento catartico, liberatorio, avviene invece una fusione di livelli. Il ragno con il suo morso diventa la fonte primigenia dell'ispirazione e della trasgressione, la componente "maledetta" che scatena il corpo e la festa, ben rappresentata dalla visione poetica proposta da Eugenio Bennato sull'origine del mito, quale astuzia della cultura popolare del Sud per ottenere uno spazio liberato all'interno di una società oppressiva e autoritaria. In questa visione taranta e tarantella finiscono quasi per coincidere e per scambiarsi, in un'unica origine e funzione, ma d'altra parte il valore di un mito, anche nuovo, non sta nella sua veridicità ma nelle suggestioni che evoca e nei contenuti ai quali offre una chiave di lettura.
Nel Salento, che è l'epicentro di questo fenomeno, su questa trasformazione di senso si è avuta la costruzione di una nuova identità locale, come faceva notare Vincenzo Santoro (molto polemico sull'uso della categoria della trance), nata non a caso all'inizio degli anni novanta, in una terra di frontiera che da periferia tornava ad essere, attraverso le vicende degli sbarchi e quindi del confronto con altre identità lontane, un centro aperto di sperimentazione e riflessione sociale.
C'è chi vede in questo inedito dilagare delle tarantelle nient'altro che la merce di turno fornita dal mercato musicale che ogni tot anni deve tirare fuori un nuovo prodotto, o nella stessa world music un nuovo etnocentrismo occidentale che piega a sé le diverse culture sotto l'antica veste, di sapore coloniale, dell'esotismo. Chi invece ci trova una domanda di consumo culturale non omologata, un bisogno di socialità interpretato dalla dimensione comunitaria e interpersonale della danza popolare, o una forma di resistenza alla globalizzazione.
Probabilmente è vero che, a seconda che la si guardi da Sud o da Nord, la percezione e l'ascolto o la pratica della tarantella produrrà emozioni e dinamiche diverse. Dopo una lunghissima fase di rifiuto dall'interno, della musica e della danza del proprio paese (quanti sono i quarantenni e i cinquantenni che la sanno ballare per davvero?) vissute come grossolane o residuali, nuove generazioni vi rivolgono lo sguardo senza pregiudizio, anzi riconoscendovi un'attualità comunicativa perfettamente adeguata a bisogni che i padri non sentivano o esprimevano in altro modo.
Comunque, si tratta di un percorso di acquisizione identitaria che non è proceduto per linea diretta bensì attraverso una lunga e tortuosa strada. La ri-scoperta del dialetto e del ritmo incalzante che fa ballare è passata più attraverso le posse e la musica giamaicana, che non in ragione di un contatto organico con la propria tradizione.
Nella trasmissione orale della cultura e della musica tradizionale esiste un buco generazionale di almeno venti/trenta anni, che i "nuovi tarantati" hanno istintivamente cercato di coprire. In un certo senso la musica popolare è uscita dalle campagne meridionali, nelle quali era nata ma vi svolgeva una vita sempre più stentata e precaria, e si è trasferita nelle grandi città del centro-nord, per prendere strade inedite non tanto rispetto alle forme e agli strumenti d'origine (tamburelli, organetti e chitarre battenti continuano a farla da padrona, anche se questa improvvisa diffusione si traduce spesso in una semplificazione degli stili e dei tratti peculiari delle numerosissime varianti esistenti non tra le regioni, ma già fra un paese e un altro della stessa area) quanto rispetto ai contesti e quindi alle "modalità d'uso" della musica stessa.
E' chiaro che un discorso di questo tipo ha poco a che fare con la tradizione contadina, ma essa da tempo non è più quella descritta dagli etnografi nel dopoguerra.
Estremamente interessante è invece il fatto che la sua musica e la sua danza costituiscano oggi una risorsa comunicativa eccezionale e sempre più richiesta. La capacità di esistere e di svolgere una funzione anche al di fuori del suo contesto originario, anzi in uno così profondamente diverso, è certamente difficile da accettare per i puristi, o per una corrente dell'Accademia più interessata alla costituzione degli archivi sonori e dei musei che alla continuità di una cultura, che nel corso della sua storia non è stata mai uguale a sé stessa. Ma questo discorso apre ad altre questioni e ad altri problemi, peraltro non nuovi: si può continuare a cantare un canto di mietitura senza le squadre di braccianti con la falce in mano e le cannucce alle dita, ad eseguire una serenata o a scriverne di nuove?
Comunque lo si voglia chiamare, il fenomeno del quale si è discusso nel convegno romano è comunque il segno di una vitalità forse non prevista della tradizione popolare, che certo presenta molti rischi, ma rappresenta anche una sfida appassionante alla quale in molti siamo interessati a partecipare.