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Lavoro e territorio: le due emergenze della Calabria

di Damiano Guagliardi



La stagione che abbiamo di fronte si presenta per la Calabria fra le più incerte e oscure della sua storia. Una riflessione profonda e coraggiosa andrebbe fatta in primo luogo sui temi dei poteri forti dell'economia calabrese che non possono essere ridotti semplicisticamente al binomio mafia-massoneria deviata. Il coraggio dell'inchiesta dovrebbe ricercare i luoghi ove i poteri forti si radicano, le forme organizzative di autoprotezione, le modalità di relazione con le strutture amministrative dello Stato, il confine che li separa dall'essere fruitori dei favori della politica e l'essere politicamente attori e protagonisti degli indirizzi di programmazione e di gestione delle risorse pubbliche.
Togliere la nebulosa della genericità al concetto di potere forte, focalizzare i contorni fisici della classe dominante, rendere pubbliche le sue connotazioni è l'elemento prioritario per riequilibrare le dinamiche di inchiesta, di riflessione e di proposta. Sono convinto che la crisi della Calabria, che ormai non è più soltanto crisi economica, puoi fronteggiarla solo se alla società dei bisogni e dei subalterni riesci a trasmettere con lucida chiarezza chi sono i potenti dell'economia e le lobbies del potere istituzionale, e di quale consistenza sono i vantaggi materiali che essi ricevono dalla spesa pubblica. Sempre per usare un vecchio lessico si comincia ad affrontare il problema Calabria solo quando hai la forza di puntare il dito contro i padroni e gli sfruttatori (pardon per i termini desueti) e considerarli responsabili di uno sviluppo mancato. E' possibile ciò? Lo sarebbe se non fossimo davanti ad una vergognosa transumanza intellettuale che, a seconda della stagione della politica, fluttua, come un mitico pendolo or di qua or di la, offrendo servigi ai potenti di turno. Una tradizione di continuato gattopardismo nella politica, nella cultura, nell'economia, che si estende anche all'intellettualità dell'arte, che porta alla sconfitta permanente dei vettori del pensiero forte e rende incerto e difficoltoso anche la semplice bozza di un progetto di "sviluppo altro" e di una proposta di programma minimo, a medio termine, sul quale ricercare il consenso della società dei bisogni e riorganizzare il conflitto. Tuttavia è necessario evitare tentazioni sociologiche, per cercare di riflettere e capire quale dovrà essere l'impegno della sinistra nel medio termine, alla fine del quale i calabresi saranno chiamati a scegliere il proprio governo. Nella timida speranza di un percorso comune tra noi e le forze del centro-sinistra, che ha come base minima l'accordo di marzo per le elezioni regionali, cercherò di coniugare le grandi questioni sociali poste da Rifondazione comunista (salario sociale per i disoccupati di lunga durata, aumento di duecentomila lire per le pensioni minime, riconoscimento dei diritti fondamentali, abbattimento dei tickets sanitari) dentro una riflessione che, alla fine, dimostri la legittimità di un piano straordinario per il lavoro per la Calabria, come grande opera pubblica. Il voto sulla finanziaria 2001 ha chiarito l'ambiguità del centro-sinistra verso quelle proposte che Rifondazione comunista aveva ritenuto necessarie per creare un percorso elettorale di non belligeranza con il nuovo Ulivo. Al di là delle promesse televisive del candidato premier Rutelli e di autorevoli esponenti del governo, questa finanziaria che ha superato la boa della Camera, ha fatto una cosa di sinistra e dieci per i padroni. E' stata ottenuta l'abolizione dei tickets farmaceutici e la gratuità di alcune analisi antitumorali, ma alle imprese sono stati destinati qualcosa come 9.200 miliardi per creare nuova occupazione. Con la bocciatura del nostro emendamento sulle 35 ore e sull'introduzione del salario sociale per i disoccupati di lunga durata, tuttavia, si è negata ad una consistente massa di nuovi poveri la possibilità di pensare al rinascimento di diritti universali: come quelli alla casa, all'istruzione garantita, alla sanità, al trasporto, ai bisogni culturali. Rispetto a questa scelta strategica che rende sempre più distante l'attuale governo dai bisogni della parte più debole di questa società, viene spontaneo chiedersi quali possono essere le vie dello sviluppo e dell'occupazione possibile in una Calabria giunta al livello minimo della produttività, con una agricoltura in stato comatoso, con il territorio flagellato da incendi e alluvioni, da discariche abusive scelte dalle ecomafie per scaricare i rifiuti pericolosi di tutta Europa, e con u sistema delle infrastrutture stradali più funzionante in epoca borbonica che oggi. E' possibile fidarsi della libera impresa e della competizione del mercato per ben sperare, quando guardando i dati sulla occupazione e sulla consistenza del salario, sai di avere di fronte un ventaglio di informazioni stantie e falsificate che danno questa regione in crescita produttiva e occupazionale?
Viviamo in una terra che meriterebbe il Nobel della solidarietà per ciò che dà ai migranti di tutto il mondo e che, invece, è condannata ad una perpetua emigrazione delle popolazioni che vivono nelle sue aree interne: drammatica è l'ultima denunzia di Legambiente e WWF sulla mortalità dei piccoli comuni delle aree interne che nel numero di circa 5.000 rischiano di sparire. La Calabria anche in questo ha il triste primato di essere la regione con maggiori comuni a rischio.
E viviamo in un territorio devastato dall'acqua perché le cosche mafiose, dopo avere usurpato e cementificato i demani costieri, hanno distrutto la montagna con i fuochi estivi accesi per i portafogli delle società che si occupano di spegnimento aereo; in un territorio desertificato grazie alla determinazione dei teorici della new economy. Quei sacerdoti del mercato che nel nome della privatizzazione e modernizzazione hanno smantellato ogni forma di lavoro di pubblica utilità.
Viviamo in questa Calabria, dove il bisogno di un salario sociale non è il bisogno dei pochi ma speranza del domani con un salario vero, e dove, esclusa la pubblica amministrazione, tutto è precariato e tutto è sottopagato. E' la Calabria dove si vive con ottocentomila lire al mese o con vive con trentamila lire al giorno per produrre scarpe e camicie di lusso, e dove col sole di agosto o il freddo di gennaio tante braccianti agricole lavorano per caporali legalizzati a trentamila lire al giorno perché olio e agrumi calabresi non hanno più mercato.
Siamo dentro un mondo, sofferente e oppresso, che si mimetizza e si nasconde per non perdere anche la miseria che fruttano queste occasioni di lavoro.
Viviamo in una regione che pur nella sua disperazione economica non ha conflitto. Sulla rabbia della gente che vuole lavoro, come una avvolgente nebbia scura che scende dai suoi monti, la politica della concertazione rabbonisce e illude giovani e adulti promettendo uno sviluppo economico che mai si concretizzerà. E se non sei convinto ecco la 'ndrangheta, stato dentro lo stato, che con i magistrati collusi, le banche controllate, le risorse espropriate offre lavoro illecito che comunque va bene perché in ogni modo è un reddito; e il danaro purché tale non ha né colore né odore.
Vicino a loro ci sono tante altre sofferenze. Per esempio quelle dei morti per incidenti sul lavoro perché non si rispettano le precauzioni minime sui cantieri edili, e quelle che causa un sistema di infrastrutture stradali antiquato che ritarda lo sviluppo e provoca ogni giorno morti e feriti sulle strade. E in questa Calabria, terra di mafia e di omicidi di mafia le morti vengono anche dal lavoro: per esempio da qualche fabbrica tessile che i sindacati santificano come modello di concertazione, ma dentro la quale le lavoratrici e i lavoratori muoiono per effetto degli agenti chimici assorbiti.
E se cammini lungo le infinite tortuose strade di questa regione incontrerai campi abbandonati, paesi deserti, pianure aride; incontrerai parchi non realizzati, e fabbriche chiuse anche se produttive, discariche che trasformano i rifiuti in dollari per la mafia. E se entrerai nelle città vedrai chiusi negozi, botteghe artigiane, esercizi pubblici perché l'usura è lentamente penetrata e ha succhiato le poche risorse di chi è impotente a fronteggiare i Mac Donalds e i grandi magazzini.
E' possibile fidarsi della libera impresa dentro questa realtà?
E' possibile fidarsi dell'impresa e della competitività quando ti fermi a pensare cosa ha prodotto la concertazione a Crotone, dove la new economy ha voluto lo smantellamento di un sistema industriale consolidato per ottenere come contropartita i noti contratti d'area che, ad oggi, non hanno prodotto nessun nuovo posto di lavoro. Di fronte a questo visibile fallimento i sacerdoti dei patti territoriali impallidiscono e balbettano quando gli chiedi il conto. Diventano mendaci quando chiedi loro, convinti propugnatori della concertazione, di informare sulla speculazione e sulla morte del territorio che produce una grande azienda pubblica, come l'Eni e le sue società. Bisogna recarsi a Belvedere di Spinello, presso l'unica miniera di salgemma ancora produttiva in Italia, dove l'Enichem, gestore dell'estrazione, con l'indotto della lavorazione occupa fuori regione circa duemila addetti, per capire la cultura colonialista e speculativa dell'impresa verso il territorio calabrese. In questo comune nel quale le attività estrattive hanno desertificato le terre coltivabili uccidendo le produzioni agricole e hanno reso estremamente debole il sottosuolo che cede e sprofonda nelle gallerie, l'Enichem dà come contropartita per l'estrazione 7/8 posti precari e zero lire. Questa è l'economia di sviluppo attuata dall'Eni per l'estrazione di metano nel mare di Crotone, che ha determinato la morte della flotta peschereccia, e contribuisce all'abbassamento progressivo del territorio di circa due millimetri all'anno, mentre da questa provincia parte circa il venti per cento del metano consumato in Italia, alla sua popolazione non vengono date neanche le briciole in termini di ritorno economico e di lavoro.
Allora, se il territorio della Calabria è luogo di ricchezza per le grandi multinazionali, perché non deve esserlo per la sua popolazione?
A base di questo amaro ragionamento c'è che se si vuole dare alla Calabria una ipotesi di sviluppo vero bisogna ricercare una strada diversa, partendo dai bisogni di questa regione e dei calabresi. Si parta dal fallimento del mercato, per rilanciare l'idea che è possibile guardare, anche se per una fase di medio termine, a un lavoro altro, quello non mercantile, finalizzato alla difesa del territorio come necessità prioritaria per un successivo sviluppo: da cui non può prescindere la stessa economia di mercato, che basa la sua progettualità sull'uso della risorsa territorio e sulla grande e potente offerta economica che esso contiene.
Partiamo da queste amare constatazioni (e se così si dovesse continuare si aprirebbero scenari oscuri per la nostra regione) per lanciare una semplice proposta di realizzazione di una sola grande opera pubblica per la Calabria, che non è il ponte sullo Stretto, ma la difesa del territorio: della montagna, della collina, dei centri antichi dei comuni interni, della costa. Un'opera che a parità di costi del ponte potrebbe creare dieci anni di lavoro per trenta/quarantamila persone fra giovani laureati e diplomati, disoccupati di lunga durata, attuali lavoratori precari. Una grande opera pubblica per superare almeno due delle tante emergenze che mortificano questa regione: l'emergenza lavoro e l'emergenza territorio, sapendo che senza la loro risoluzione c'è un continuo avvitamento verso la povertà, la gestione illecita delle risorse, il radicamento e il consolidamento delle organizzazioni a-legali.



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