(Digita o Clicca su "Ora Locale" per tornare indietro)
Per una statualità legata al sociale
di Guido Liguori
Nel dibattito recente della sinistra si è imposto il tema della crisi del "politico"
e del ritorno a una strategia imperniata sul "sociale": i processi di "globalizzazione"
e di "crisi del paradigma fordista", cioè, avrebbero ridimensionato l'importanza
dello Stato e della politica, a favore della "società civile" e delle forze economiche
e comunque prestatuali o non statuali che in essa agiscono e che hanno acquistato
una nuova centralità.
Da considerazioni di questo tipo possono discendere ipotesi strategiche diversissime.
Ad esempio, i due ultimi libri di Marco Revelli (La sinistra sociale. Oltre la civiltà del lavoro
) e Bruno Trentin (La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo
) hanno certo molte differenze: da una parte (Revelli) si dà per conclusa la possibilità
di fondare sul lavoro i processi di identità sociale e di azione politica, dall'altra
(Trentin) si afferma esattamente la necessità del contrario, sia pure in un panorama ugualmente postfordista. Ma non meno rilevanti sembrano le convergenze, poiché
entrambi concordano su un punto di rilievo: la sinistra deve ripensare radicalmente
se stessa, buttando a mare tutto ciò che ha fatto sul piano della politica
e della statualità. Non solo la vicenda del comunismo, ma anche l'esperienza socialdemocratica,
da cui aveva mosso Lenin.
Vorrei discutere questo punto seguendo la traccia del ragionamento proposto da Trentin
sull'opera di Gramsci. Se egli, infatti, nel tentativo di ripensare la sinistra,
lancia segnali di "simpatia" verso autori storicamente minoritari, e "antistatuali",
quali Luxemburg, Korsch, Bauer, Weil, è con Gramsci che impegna il "corpo a corpo" più
massiccio, tramite una lettura complessa, un misto di uso e di rigetto.
Trentin usa Gramsci, in questo libro, in due modi. Uno, più palese, nella sezione
Gramsci e la sinistra europea di fronte al "fordismo" nel primo dopoguerra
: Gramsci avrebbe assunto come razionali, e quindi immutabili, le forme storiche
di organizzazione e di subordinazione del lavoro umano . Meno produttivista di Lenin,
ma comunque subalterno al fascino del modo di produzione borghese, Gramsci viene
accusato di essere tutto interno a quella cultura per la quale il processo produttivo andava
traghettato
dal capitalismo al socialismo senza essere sottoposto a critica. E' il Gramsci dell'Ordine Nuovo
, che invitava gli operai a sostituirsi ai padroni, ma senza mutare, senza rovesciare
la fabbrica, prima e insieme alla società e allo Stato. Mi sembra che qui, grosso
modo, Trentin colga nel segno, anche se va detto come la fabbrica che ha di fronte
Gramsci sia una fabbrica prefordista
e come il dirigente comunista senta l'insieme dei produttori
una comunità, un corpo collettivo, il che ha implicazioni nella direzione di non
considerare il soggetto operaio sotto quell'aspetto puramente quantitativo
che Trentin giustamente stigmatizza. Piuttosto, un altro tema dell'Ordine Nuovo
Trentin avrebbe potuto valorizzare: la costruzione teorica di un modello di Stato
non fondato sul cittadino, ma sul produttore, in cui si tenta una ricomposizione
di citoyen
e bourgeois
. Gramsci sposa pienamente il ben noto discorso marxiano, denunciando proprio l'astrattezza
della categoria di "cittadino". L'orizzonte della cittadinanza - si lamenta a volte
- non varca i cancelli della fabbrica. A me sembra che non li può varcare, perché questa categoria teorica è costitutivamente estranea al discorso delle classi e
della divisione delle classi, che trova in fabbrica la sua evidenziazione più macroscopica.
E' un aspetto interessante e spesso misconosciuto anche del Gramsci dell'Ordine Nuovo
.
Il secondo uso di Gramsci fatto da Trentin, ugualmente importante, o forse più importante,
nell'ambito del suo discorso complessivo, collega Gramsci al concetto di società
civile. Se da una parte Trentin critica Gramsci sui temi della fabbrica, dall'altra
mostra di volerne accettare sostanzialmente la lezione per quel che concerne il primato
della "società civile". Solamente che ciò che Trentin mostra di credere essere le
tesi di Gramsci sulla società civile, è in realtà - a mio avviso - la sia pure importante interpretazione che del concetto di società civile in Gramsci ha avanzato Norberto
Bobbio. Schematicamente il ragionamento di Bobbio è il seguente: sia per Marx che
per Gramsci la società civile è il vero "teatro della storia". Ma per il primo essa
fa parte del momento strutturale, per il secondo di quello sovrastrutturale; per Marx
il "teatro della storia" era la struttura, l'economia, per Gramsci la sovrastruttura,
la cultura.
Per costruire la sua tesi, però, Bobbio doveva assumere e dare per scontata una lettura
meccanicistica
del rapporto struttura-sovrastruttura, dove la determinazione in ultima istanza
di uno dei due termini diviene determinazione forte e immediata dell'altro livello
di realtà: "teatro di ogni storia". Sembrano non esservi più momenti insieme di unità
e di autonomia, fra i diversi livelli di realtà, propri di ogni concezione dialettica, come è indubbiamente la concezione di Gramsci. Struttura e sovrastruttura, economia
e politica, sono per Gramsci sfere unite e insieme autonome della realtà. Non solo
nel marxismo di Gramsci sono registrate le novità del rapporto tra economia e politica
della prima metà del Novecento, l'intervento statale nella produzione, l'opera di organizzazione
e razionalizzazione con cui il politico si rapporta alla società e in qualche misura
la produce
. Qui c'è indubbiamente una novità rispetto a Marx, forse perché si è prodotta una
novità nella storia reale, che Bobbio non vede perché il suo discorso idealistico
va sempre da teoria a teoria, senza che in questa storia delle idee entri mai la
storia fattuale. Direi però soprattutto, più in generale, che uno dei punti centrali del marxismo
di Gramsci sia questo di non potere e non volere separare in modo ipostatizzato alcun
aspetto del reale (economia, società, Stato, cultura).
Perché proprio questa lettura di Bobbio ha un ruolo importante nella costruzione teorica
di Trentin? Non è questo, in qualche modo, segno del fatto che le categorie interpretative
della sinistra stanno leggendo il mondo di oggi, il mondo del post-'89, con il rischio di una forte sottovalutazione del ruolo della politica a vantaggio della
categoria ermeneutica di "società civile"? E non c'è in questo il rischio che - attraverso
un processo inconsapevole di "rivoluzione passiva" - alcune delle categorie portanti del pensiero liberale e neoliberale vengano assunte come proprie dal pensiero
della sinistra?
Evidentemente il fallimento dei socialismi reali e i limiti manifestati dal welfare
non possono non produrre domande, critiche e autocritiche. Il libro di Trentin è
un atto di accusa ragionato e affascinante contro un certo marxismo, politicista
e statalista. Ma - mi domando - vi sono altri modi di essere "di sinistra" che non
contemplino il mettersi insieme degli esseri umani, l'agire delle donne e degli uomini per cercare
- con le regole, con le leggi, con un intervento collettivo consapevole, dunque con
la politica
, con la forza della collettività, dunque con lo Stato
- di opporsi alla brutalità del fatto economico, alla disumana legge del mercato
(globalizzato), alla giungla dove vige la guerra del tutti contro tutti? Non c'è
il rischio che anche dietro l'enfasi che - da destra e da sinistra - oggi si pone
sulla globalizzazione si decreti il definitivo "tramonto della politica" che tanto piace ai teorici
e ai praticoni del neoliberismo, Berlusconi compreso? E, al di là del caso Berlusconi,
il grido "basta con la politica, basta con lo Stato, largo alla società civile", non è stata forse la parola d'ordine dell'offensiva neoconservatrice degli anni '80?
Anche puntare sul lento emergere di nuove forme di socialità, solidaristiche, comunque
altre
rispetto al mercato, non richiede una sponda forte da parte della politica, della
politica statuale e interstatuale?
Certo, c'è politica e politica, c'è Stato e Stato. Non voglio negare gli errori e
gli orrori del passato. Voglio cercare una politica e una statualità il più possibile
legate al sociale. Ma sempre in quell'ottica dialettica che era di Gramsci, che faceva
pensare e scrivere a Gramsci - mentre promuoveva e teorizzava i Consigli - che il problema
era anche la "conquista dello Stato" e la creazione di un nuovo tipo di Stato. E'
vero che oggi a noi suona profondamente estranea questa espressione: la conquista
dello Stato. Ma essa, lo sappiamo, è stata superata innanzitutto dal Gramsci maturo,
che non è, come a volte si sostiene, meno comunista o meno rivoluzionario del Gramsci
dell'Ordine Nuovo
. Egli, semplicemente
, ridefinisce profondamente e il concetto di Stato e il concetto di rivoluzione, ne
fa qualcosa di processuale, di complesso, così come sono complesse la società e la
realtà in cui viviamo. Per questo Gramsci è oggi così attuale: perché ha ridefinito
il senso della politica, arricchendola proprio del fatto che essa forma un tutt'uno con
l'azione nella società, nella fabbrica, nella cultura, ovunque si giochi la partita
del potere. Attenzione, dunque, a non buttare con l'acqua sporca
della cattiva politica o dello Stato così come lo abbiamo conosciuto, il bambino
, ovvero una dimensione - la politica - di cui la sinistra non può fare a meno, molto
più del capitale. Il fatto che tanta parte della sinistra abbia fatto proprie oggi
categorie di interpretazione e di intervento della tradizione liberale (società civile, cittadinanza), sembra essere soprattutto il portato dell'affermarsi di una nuova
egemonia. Non sono convinto che assumere a sinistra queste categorie liberali
, nelle loro diverse accezioni, vuoi alla Heyek
, vuoi alla Bobbio
, sia la via per rilanciare un discorso che abbia un diverso contenuto sociale e politico,
un diverso contenuto di classe.